75 – Settembre ‘91

settembre , 1991

Di buona famiglia, di Isabella Bossi Fedrigotti (Longanesi 1991, pagg. 203, Lit. 24.000), Premio Selezione Campiello, è un romanzo di grande efficacia narrativa e di intensa poeticità. Si legge tutto d’un fiato: paesaggi, atmosfere, personaggi sono descritti ed analizzati con grande sapienza. Non c’è mai un momento di stanchezza nella scrittura pulita e schietta.
Una soffusa malinconia permea tutte le pagine; però è anche presente un graffiante realismo, unito ad una buona dose di ironia. Il racconto si articola in due sezioni che illustrano la vita di due sorelle: una, Clara, è l’interlocutrice di un lo narrante che la porta a ripassare come per un esame la lunga vita di occasioni mancate e di opportunità colte al volo:
« … Contavi i giorni ma insieme li assaporavi, contenta che passassero piano, in modo da avere il tempo di costruire e ricostruire la scena. e rivederla. domandandoti perché non eri riuscita à prendere l’unica decisione buona … ».
L’altra, Virginia, in prima persona, racconta le insicurezze, i timori e le disillusioni, celate sotto l’apparenza di una esistenza di bella donna vincente, sicura e profumata, capace di destare l’invidia: « … ma la loro non mi sembra premura verso una vecchia, piuttosto volontà di sottolineare la differenza che c’è tra me e loro, io ci tengo ai bei vestiti, ai gioielli, ai capelli in ordine, io viziata, incapace di fare qualcosa di utile … ».
Le due vite parallele sono colte nel momento in cui si avviano alla fine, percepita come imminente, e per successivi viaggi all’indietro ricompongono un mosaico le cui tessere sono viste da due diverse prospettive, fino a completare il quadro di una «buona famiglia» di una volta, austriacante, con un padre tartufesco, lascivo e disperatamente malinconico; una madre petulante, inibita e subdolamente tirannica. Bella la figura della serva Beppina, carattere da romanzo classico; e poi i fidanzati, i balli, il paese veneto e i brandelli di storia.
Tutto passa sullo sfondo dell’antica casa avita: « … anch’io mi sentivo più sicura se il paesaggio di casa non cambiava troppo, se ogni cosa rimaneva dove ero stata abituata a vederla. lo che un tempo avrei buttato tutto, sostituito ciascuno di quei venerati pezzi…».
Due guerre scuotono tanta ansia di tranquillità, sconvolgendo quello che vorrebbe passare indenne. L’autrice riesce poi anche ad inserire piccoli colpi di effetto drammatico che si concludono con una «rivelazione che sorprende anche il lettore».

Spesso è molto difficile distinguere, in un’opera d’arte o ritenuta tale, non tanto la forma dal contenuto, che per noi sono indistinguibili, ma i vari aspetti che la compongono. Ad esempio nel romanzo di Antonio Debenedetti, Premio Viareggio, Se la vita non è vita Rizzoli 1991, pagg. 141, Lit. 27.000) non siamo bene riusciti a capire se l’impressione profondamente sgradevole e a tratti di repulsione sia stata frutto di incapacità letteraria, di rifiuto di tanta ambiguità morale, o dell’indiscutibile capacità dell’autore di riuscire a dire brutalmente realtà tanto spiacevoli.
L’intenzione è senza dubbio. quella di raccontare gli aspetti di una vita talmente anonima da essere spiritualmente miserabile, ma il risultato è così impressionante da destare il sospetto che tanta miseria e tanto squallore siano l’anima vera dello scrittore.
Quello che viene narrato corrisponde purtroppo alla realtà parziale di troppe vite vissute, ma manca ogni spiraglio, ogni possibilità di umana solidarietà, ogni pietà; tanto che le pagine sembrano raccogliere della vita solo la spazzatura.
La spazzatura è senz’altro ineliminabile da ogni contesto umano, ma sembra che l’autore non sia capace di percepire altro che questo.
Il protagonista mezzo ebreo, la moglie scolorita, l’amante disillusa, la figlia lesbica non travalicano mai i limiti dei loro rispettivi squallori esistenziali, non c’è amore, non c’è sensualità, non c’è speranza, tutto si riduce ad un polveroso andirivieni senza scopo, reso più angusto dall’avarizia, che accentua la povertà dei sentimenti.
Il giudizio negativo è anche una presa di posizione contro quello che noi giudichiamo oltre che una disonestà morale un limite: la vita, che pure contiene tutto il peggio, non contiene soltanto il peggio, come vuole farci credere l’autore, che a tal fine adopera un fraseggiare squallido e mortalmente noioso.

Paolo Volponi scrisse questa sua opera, La strada per Roma (Einaudi, 1991, pagg. 420, Lit. 30.000) circa trenta anni fa, poi il romanzo non pubblicato per svariate ragioni giacque nel cassetto, fino a questo anno quando con pochi ritocchi fu consegnato alle stampe proprio in tempo per risultare vincitore del premio Strega della appena trascorsa estate.
E questo un romanzo che ha un procedere lento, minuzioso e persino un poco assonnato, proprio come la vita di provincia che descrive.
Guido è un ragazzo molto «normale», figlio unico di una famiglia piccolo borghese di Urbino, ha però una caratteristica che lo differenzia dagli altri suoi compagni, quella di essere molto bello. Non è troppo intelligente, o sensibile, è un ventenne qualunque, che porta addosso, con una buona dose di ottusità, la sua bellezza. Ha anche un sogno piccolo, piccolo, quello di andarsene dal «natio borgo selvaggio» per fare una piccola fortuna a Roma. La abilissima penna di V 01poni descrive la vita di provincia con dolente poesia. La splendida città in rovina, dominata dal castello dei Montefeltro vede e sente scivolare giorni e notti, estati ed inverni, gli amici passeggiano, discutendo di politica e di donne. La sensualità del bel corpo del giovinotto si insinua in ogni riga, ne è soggiogato l’autore, ne sono soggiogati gli amici e le donne e ne sono soggiogati anche i lettori. Le atmosfere di Urbino sono cosi tangibili che talvolta danno un leggero capogiro tanto sono concrete, immediate e metafisiche.
Guido dopo la laurea riuscirà a raggiungere Roma e qualche volta avrà modo di fare ritorno in rapidi viaggi di malinconia; tutto è distillato da Volponi con finezza. Magistralmente però il romanzo si conclude con una scena terribile di violenza, astutissima quanto imprevedibile:
«Guido (…) sentì che una mano di Venanzi aveva abbandonato la ascella e cercava un altro posto lungo il suo costato, dentro la giacca.
Lo schifo e l’ira, lo slancio stesso del suo corpo che scattava dalla piega che il vomito gli aveva imposto, come la terra bianca del mercatale e l’ombra del Palazzo, lo buttarono su quell’uomo che lo soccorreva ed egli lo inchiodò sulla pianta: con un manrovescio gli aveva segnato il viso e i labbri e con un pugno lo colpì allo zigomo».