Psicoanalisi contro n. 75 – Passi nella notte

settembre , 1991

Quando ero più giovane, avevo l’abitudine di passeggiare a lungo, di notte, insieme con un amico, per le vie delle città in cui mi trovavo a passare periodi più o meno lunghi di lavoro o di vacanza, mantenendo così un’abitudine acquisita fin da ragazzo.
Oggi, purtroppo, non ho più tanto tempo per camminate molto lunghe; ma quando non sono stanco, amo ancora, di notte, percorrere le strade di città, di campagna o di provincia. Ho il tempo di riflettere sulle architetture, sulle soluzioni urbanistiche, di osservare i monumenti; cose tutte che acquistano in quelle ore una caratteristica particolare, come se divenissero più concrete e sensibili; mi sembra di poterle palpare nel loro ergersi e distendersi, guadagnando il proprio spazio con una naturalezza che, alla luce del giorno, sembra venire inebetita ed ottusa dal via vai frenetico del traffico. La facciata di Nòtre Dame di Parigi, le colonne della Casa Biaton, la statua del Gattamelata a Padova, nella loro maggiore o minore bellezza presentano, di notte, un volto inconsueto. Quando posso, mi piace indugiarci sopra con le mani, sentire la pietra, il marmo o il bronzo, valutarne asperità e morbidezze, leggervi la storia di secoli, mentre intorno c’è silenzio. In genere, nel buio, si aggirano poche ombre ed io preferisco allontanarmi se mi capita di ( imbattermi in gruppi clamorosamente vocianti, per tornare a sentire passi leggeri e furtivi. Una figura avanza, sembra una donna, forse un’infermiera, o una prostituta: ( passa rapida; poi un giovinotto con la camicia chiara, le spalle larghe, si guarda intorno; decido di seguirlo, forse essendo maschio non si spaventerà, come si spaventerebbe una donna. Mi accodo alla sua ombra, un po’ a distanza, osservo i suoi movimenti, il cui senso è qualche volta comprensibile: si affretta, entra in una farmacia notturna, ne esce perdendosi nella notte; ma molto spesso è quasi impossibile capire; sembra che mi manchino codici capaci di decifrare certi gesti di cui non colgo la grammatica né la sintassi: il ragazzo cammina fino a raggiungere la facciata di un palazzetto, si addossa ad una parete e resta immobile, come sopra pensiero, poi si sposta ad una chiesetta non troppo distante, dal piccolo frontone e quattro colonne; fa il giro intorno ad una delle colonne, una sola, sembra osservarla, si siede per un attimo sul basamento e poi subito si alza, scomparendo. E solo uno che non riesce a prendere sonno, ma mi domando quali pensieri guidino i suoi passi; quando la curiosità è troppo forte, cerco di provocare un incontro, quasi uno scontro fisico, che mi permetta di iniziare una conversazione in base alla quale tutto dovrebbe essere più chiaro.
Così è talvolta e capisco anche quanto di quel comportamento fosse provocato proprio dal fatto di sentirsi osservato da due persone come me e il mio compagno; ma più spesso di quanto non si crederebbe non viene fuori nessuna spiegazione plausibile, paiono gesti fatti solo «Così…». Non solo queste mancate giustificazioni rendono quei gesti assurdi o apertamente falsi, ma anche paiono alludere a confusioni interiori simili a veri e propri disorientamenti.

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I comportamenti umani, se osservati con attenzione, da vicino, solo raramente sono spiegabili in modo lineare e coerente; molto più spesso di quanto non si immagini, sorgono da spinte interne, che potrei chiamare inconsce, e che sono realmente incomprensibili su basi soltanto razionali, non tanto perché siano assurdi, ma perché le loro motivazioni sono così nascoste da sembrare oscure non solo a chi osserva, ma anche a chi agisce. È persino banale spiegare tutto dicendo che ogni gesto implica necessariamente riflessi automatici inconsapevoli: se ciascuno di noi dovesse riflettere prima di alzare un bicchiere o muovere la mascella oppure avanzare di un passo rischieremmo la paralisi. Invece succede che prima di entrare in una camera ci ravviamo i capelli con un gesto automatico, chissà perché: quella stanza avrebbe dovuto essere vuota, ma invece abbiamo immaginato che ci fosse qualcuno, proprio la persona che dovremo vedere domattina, ma che avremmo voluto incontrare proprio lì; una persona importante per la vita, per il lavoro; così la mano si è mossa compiendo un gesto che ci accattivasse la sua simpatia, che ottenesse la sua approvazione per il nostro aspetto. Se avessimo dovuto fare tutto il ragionamento prima di compiere il gesto saremmo rimasti interi minuti immobili davanti alla soglia di una stanza vuota; se lo stesso
meccanismo applicassimo ad ogni azione del vivere giornaliero non riusciremmo davvero a fare molto. Ogni riflessione sulle motivazioni di un gesto ne richiama un’altra, su su, fino a domandarci cosa ha spinto Eva ad offrire la mela ad Adamo, perché tutti e due si sono poi vergognati di essere nudi, gesti che hanno trovato il loro senso nelle spiegazioni della teologia, ma che probabilmente non sono stati valutati allo stesso modo dai due protagonisti, se no l’umanità sarebbe ancora in contemplazione dell’albero del bene e del male, tra i fiori e i frutti del Paradiso terrestre. Con i «se» non si fa la storia, neppure quella biblica; la mela è sul ramo e bisogna decidere se coglierla o non coglierla, ieri come oggi.
Chi lo fa, ascoltando il diavolo travestito da serpente, sappia che il suo peccato è di disobbedienza e non di lussuria; nulla c’era allora e c’è oggi di male nella nudità dei corpi, ma è peccato disobbedire e convincere gli altri a disobbedire a loro volta.
La disobbedienza e l’orgoglio di pochi sono la rovina di moltitudini di innocenti: questo è giusto? Dio non risponde a questa domanda che gli ho spesso posto, forse vuole che gli sia fedele ed obbediente senza motivazioni.

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Esiste una corrente dell’arte figurativa recente, ancora attiva, anche se leggermente passata di moda, chiamata «iperrealismo». Ricordo che una sera, in casa di un amico gallerista, fui condotto in una sala, dove, d’improvviso, mi trovai a tu per tu, con un motociclista imbalsamato: una vera motocicletta, era cavalcata da un manichino di impressionante realismo, vestito con giubba e calzoni di cuoio, casco «spaziale», la cui mano destra si levava aperta, solo un po’ irrigidita, nel segno di un saluto. Il sorridente e scherzoso padrone di casa, mi fece scendere la mano sulla chiusura lampo dei calzoni, sotto i quali sentii premere la bozza del membro virile di quel centauro: era l’opera d’arte appena giunta da non so quale museo, pronta per una imminente mostra. Oggi non sarei più così esterrefatto, ma alcuni anni fa la novità mi fece sensazione. Assiduo frequentatore di d musei e gallerie quale io sono mi capita ancora oggi di imbattermi in opere di questa corrente artistica: donnone enormi, nude o vestite, scandagliate dal pennello o dall’obbiettivo fotografico fino nelle più intime pieghe, irrimediabilmente realistiche; interni scrupolosamente fissati sulla tela in una miriade di particolari minuti, riprodotti con scrupolosa precisione, nel- n le venature dei legni, nei riflessi vetrosi, s nella trama dei tessuti, nella porosità di è intonaci; un realismo così impressionantemente preciso, quale non può esserlo nessuna realtà oggettiva, tanto che mi pare s giusto considerare questo «iper-realismo» t ~ un aspetto particolare dell’astrattismo. c Quelle forme, osservate con la stessa minuziosa attenzione con cui sono state riprodotte, perdono ogni senso di realtà, come se ripetessero ossessivamente il nome degli oggetti che rappresentano, fino ” a perdere ogni significato, così traboccanti di sé da svuotarsi improvvisamente e totalmente. Subentra allora il disorientamento, per la consapevolezza dell’assurdo. Come si può essere consapevoli dell’assurdo? Così si giunge alla follia: gli artisti d iper-realisti dovrebbero essere condannati s per la loro istigazione al delirio, per la d quantità di crisi di panico che effettivamente provocano. Solo la eufemistica trattazione dei testi psichiatrici sostiene che r dalle crisi di panico si riemerge sempre; ” io che non sono molto consolatorio so che invece non è così.

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L’assurdo si annida ovunque, inseguendo chi passa per strada, di giorno o di notte, nell’impossibilità di dare un senso a quei passi. L’arte iper-realista tenta di far perdere l’orientamento insistendo con un’attenzione ossessiva per i particolari.
La realtà quanto più la si guarda a distanza, con atteggiamento approssimativo, tanto più risulta chiara e comprensibile, mentre, più ci si avvicina ad essa concentrando l’attenzione sui singoli dettagli, più perde di precisione. Ecco spiegato, forse, perché tutti viviamo nell’approssimazione: il mondo è grande, le foreste e le stelle sono tante, così le formiche ed i sassi della spiaggia. Ciascun elemento preso a sé risulta incomprensibile nel suo esistere, nel suo vivere: Croce diceva che anche il sasso ha una sua vita. Ogni cosa, persona, animale esiste, vive, ha una storia:
il pesce come la rana, la pietra come l’albero, come il virus che attacca l’uomo e gli causa grandi malanni. L’esistenza, vista approssimativamente, è più semplice da capire; l’individuo isolato dal contesto diviene una cifra oscura, misteriosa ed anche calda.

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Io sono continuamente a contatto con situazioni di disagio mentale, con casi di cosiddetta follia. Ho sempre sostenuto e ribadisco ancora oggi che la linea di demarcazione tra salute mentale, nevrosi e psicosi è impossibile da tracciare con precisione: la vita è assurda, il fondamento dell’essere è radicato nell’incomprensibilità; tutti viviamo nell’assurdo, in un ambiente nel quale i punti di riferimento sono ambigui e vanno ricostruiti giorno dopo giorno, momento per momento. Insieme con il sociologo Umberto Melotti, ho da poco dato alle stampe un libro, Il mondo delle diversità, che, nella sezione curata da me cela una trappola per i fisici ingenui e poco colti. In essa sviluppo un discorso sull’importanza dei punti di riferimento che, da soli, riescono a rendere comprensibile una realtà significativa come il movimento; uso frasi antiche e concludo che nell’indistinta omogeneità di una pagina bianca è impossibile distinguere un punto bianco qualunque. Questo mio argomentare contro quelli che con presunzione si rifanno alla fisica come scienza oggettiva e precisa è in realtà un discorso strettamente psicologico che però non è stato capito da chi, fisico o psicologo, non si è rivelato capace di distinguere tra i due diversi campi scientifici, dimostrando, in fondo, di non essere né buon fisico, né buono psicologo.
Io sono il primo a riconoscere che fisica, ( psicologia, antropologia, storia, si compenetrano; la divisione settoriale a compartimenti stagni del pensiero culturale è un’assurdità, però il «brodetto» confusionario è altrettanto poco scientifico e inutile alla l ricerca. Nel libro in questione io solo apparentemente parlo di fisica, in realtà sto ( svolgendo un discorso psicologico, che ha tratto in inganno qualche sprovveduto, convinto che io mi appoggiassi ad una fisica forse «antiquata». lo intendo riferir- c mi ad un meccanismo della psiche umana I che non tiene assolutamente conto del r progresso scientifico ed in barba alla «nuova» fisica continua ad aver bisogno dei suoi punti di riferimento, per non perdersi. Voglio forse fare dello psicologismo soltanto? Io so solo che certi meccanismi sono venuti costruendosi evolutivamente e biologicamente nei millenni e che quindi, per ora, questi punti di riferimento sono ineliminabili e tali quali io li ho descritti. Volerli contestare è inutile. Un antico filosofo latino diceva: «Contra facta nullum argumentum». E’ una frase vera e falsa allo stesso tempo che però dovrebbe insegnare qualcosa a quelli che preferiscono teorizzare in astratto piuttosto che verificare in pratica quello che teorizzano.

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Ribadisco quindi che l’essere umano, senza punti di riferimento, non riesce a vivere: il bianco resta bianco e nessuno è capace di identificare un punto bianco su un fondo dello stesso colore; la differenza deve esserci, per quanto cromaticamente minima, perché l’uomo la percepisca. .Non so se questa non sia da considerarsi la sola scienza a tutti gli effetti valida,certo che per me ha il pregio di fondarsi sulla concretezza dell’esistere. A partire da questa realtà si possono costruire mediti diversi, elaborare teoremi, che però possono trovare la loro conferma solo nell’esistente. E’ vero che l’esistente non ha la concretezza senza la parola che lo pronuncia. L’esistente è quello che è, ma anche quello che ha, quello che dimostra di essere. A questo punto mi sembra di avere esaurito le possibilità della speculazione filosofica, mentre forse non ne sono che ai primi iniziali balbettamenti, all’inizio di quello che dovrebbe essere un percorso scientifico. Sono appena reduce da un viaggio nel paese di elezione della scienza contemporanea, gli Stati Uniti d’America, e mi sono sorpreso di aver trovato un paese in via di decomposizione; come se il risultato del progresso scientifico dovessero essere quelle distese di catapecchie del Bronx, la miseria di Harem, le montagne di spazzatura al centro di Manhattan, tra i grattacieli fatiscenti. I regno della scienza si è trasformato nel regno della miseria. Forse ha avuto torto il presidente della confindustria italiana quando ha criticato il monito di Giovanni Paolo II a diffidare dalle lusinghe del capitalismo scientifico e consumistico, altrettanto pernicioso delle illusioni del materialismo materialistico.Purtroppo il Papa aveva ragione: la scienza del capitalismo conosce oggi la stessa sconfitta dell’ideologia pseudo-scientifica comunista.

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La scienza ha bisogno dell’uomo. La matematica ha cercato di farne a meno: basta un computer, che ormai si trova in omaggio acquistando un qualunque fustino di detersivo, per far credere inutile ogni sforzo aritmetico e geometrico, di quel genere che ai tempi di Pitagora sembrava rappresentare tutta la scienza possibile, capace di descrivere il mondo. Oggi una memoria elettronica ed un display di pochi centimetri quadrati rendono inutili tutti i calcoli di Pitagora e superflui tutti i professori di matematica delle scuole dell’obbligo. Non serve più sapere che due più sei fanno otto, che diviso due fanno quattro. L’uomo ha disimparato; non è lontano il giorno in cui ogni essere umano saprà far di conto solo col suo personal computer, che gli servirà anche per un numero imprecisato di funzioni che da solo non saprebbe più svolgere, dimentico addirittura che quelle intelligenze artificiali sono frutto del suo lavoro, che gli restituiscono dati che lui ha immesso in memoria a. suo tempo. Sono discorsi di fantascienza che mi indispettiscono sempre un poco. Una giovane in analisi con me mi racconta che suo padre,. onesto e serio impiegato ora in pensione, ligio ai principi del vivere sociale, dopo aver passato le sue giornate da qualche parte, torna la sera a casa e si mette davanti al suo televisore, cena con spaghetti al sugo e una fettina di carne, senza bere vino, continuando la sua serata intento a guardare tutto quello che passa sul piccolo teleschermo litigando con la moglie, vecchia poco meno di lui, che a sua volta ha passato la giornata nel modo di sempre: rassettando e cucinando un poco e finendo anche lei davanti al televisore.
La giovane figlia ha l’il11pressione che ci sia qualcosa di folle in quella normalità così clamorosa, qualcosa da cui si sente diversa, più bizzarra di loro, ma angosciata: «Perché non amo più mio marito, mio figlio mi è diventato indifferente, perché vorrei… qualcosa, ma non so cosa». Viene dà me perché la curi, cosa che non fanno quei suoi genitori, prigionieri di rituali assurdi. Quale delle due famiglie è folle? Dove sta la vera pazzia?

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Venne da me una signora straniera, angosciata, perché non ritrovava da noi quel senso della casa al quale era stata abituata nel suo nordico paese d’origine. Mi parlò del marito, equilibrato e dignitoso professore, uno scrittore, che commentò la sua decisione di iniziare una terapia con la frase: «Fai benissimo, sei proprio pazza». Parlando, tempo dopo, durante una seduta venne fuori che suo marito aveva l’abitudine di orientare tutti i numerosi orologi di casa, nello stesso verso, rivolti verso un punto (forse la Mecca?), si nutriva solo di spaghetti al sugo e l’unica verdura che sopportava erano i carciofi; naturalmente, poiché era una persona che si considerava «normale», vinceva con qualche sforzo le sue manie perché non risultassero clamorose, non gli era perciò mai passato per la mente di farsi curare in qualche modo.

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Un ragazzo «di sinistra» venne da me perché lo liberassi dall’innamoramento che lo aveva preso per una ragazzotta, brutta e sciocca, reazionaria e violenta; si sentiva malato e voleva che lo guarissi da quella che lui considerava una inaccettabile patologia. Ero d’accordo con lui; ma mi stupii quando mi parlò di sua madre, una donnetta tranquilla che viveva della pensione lasciatale dal marito morto pochi anni prima, cui si aggiungevano i proventi degli affitti degli appartamenti di un piccolo sta-

bile di sua proprietà. La donna era terrorizzata dal timore che il palazzo prendesse fuoco, non parlava d’altro che di questa sua paura, rammendando calzini, chiusa in una stanza da cui non usciva quasi mai.
Quel ragazzo un giorno ebbe una crisi di dolori addominali violenti, mentre stava tranquillamente sdraiato in un parco; ricoverato d’urgenza fu operato di ulcera con un procedimento oggi a dire il vero piuttosto inusuale.

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Un’altra mia giovane paziente mi raccontava della perfetta armonia che da sempre univa i suoi genitori. Una coppia senza amici, che passava le vacanze solo e sempre coi figli; con scarsi rapporti con qualche parente. Chiusi nella loro casa, senza mai litigare, in una tranquilla vita di pensionati senza particolari problemi: lei religiosa, lui attento a ciò che succede, che si tiene informato leggendo i giornali. Una vita scivolata da sempre con grande tranquillità.
La ragazza ricorda che fin da piccola il padre e la madre, d’accordo tra loro, avevano abituato i tre figli a mangiare sempre tutto, perché «se viene la guerra, c’è il rischio di dover mangiare quello che si trova». Così lei mangiava i peperoni che detestava e i suoi due fratelli facevano anche loro buon viso a cattivo gioco quando qualcosa in tavola non era di loro gradimento. Quello però che la mia paziente non poteva mandare giù era la parte grassa dei pezzi di carne, ma il giorno dopo si vedeva ripresentare nel piatto quegli orrendi pezzetti di grasso che aveva cercato di non mangiare il giorno prima; così si era abituata ad ingoiare anche quelli, correndo subito dopo a vomitare in bagno. Quei due genitori erano convinti di essere una coppia assolutamente normale e si sarebbero stupiti se qualcuno avesse fatto notare loro che erano dei perfetti nazisti, dementi e allucinati, che avevano distrutto una figlia. Un giorno la ragazza aveva osato obiettare che in caso di guerra avrebbe avuto un senso che lei si sforzasse, ma che era folle pretendere che lo facesse in condizioni di normale vita quotidiana: in casa ci fu una tragedia ed il padre giunse a darle un ceffone, davanti alla madre in lacrime. Oggi la mia paziente mi assicura che non obbligherà mai i suoi figli a mangiare qualcosa che non piaccia loro, sembra aver superato; ma allora perché mi ha chiesto di intervenire con un trattamento psicoanalitico? È pazza come i suoi genitori o loro sono più pazzi di lei?

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Un giorno mi telefonò un ragazzo; mi disse: «Mi chiamo Sandro come te. Mio fratello maggiore sta molto male, mi hanno detto che tu sei bravo soprattutto coi casi gravissimi; posso mandartelo?» Gli risposi che poteva, anche perché la sua voce mi era sembrata simpatica.
Venne da me un uomo quasi cinquantenne, rattrappito, sudicio, diffidente, spaventato e disperato, con scoppi di allegria sinistra e distruttiva. Si rannicchiò sul divano e mi disse: «lo la psicoanalisi la conosco; ho già fatto sette anni di cura con…
». Il nome che mi disse era di un clinico famoso. «lo non credo che servirà a niente quello che lei tenterà di fare con me, sono venuto perché mia moglie, mia madre e mio fratello Sandro – dopo una pausa ripeté il nome – Sandro, hanno insistito. Non capiscono che io ho trovato la felicità e la verità. Un giorno alla stazione ho incontrato un ragazzo che mi ha parlato, apparteneva ai testimoni di Geova, mi ha dato un appuntamento ed io ci sono andato. Era un posto grande come un negozio, fatto allo stesso modo. Lì incominciai a capire, ma poi sono andato oltre.
Una sera, seduto alla finestra, in un palazzo fra gli altri di Centocelle, guardavo il sole che tramontava. Allora i figli di Dio hanno incominciato a percorrermi dalla testa ai piedi. Erano vibranti, incandescenti, mi facevano male. Compresi che mia madre, mia moglie, ma non mio fratello Sandro – ripeté il nome un’altra volta – Sandro no, mi volevano avvelenare. Da allora mangio solo uova e il pane che mi compro da me dal fornaio e bevo l’acqua che prendo alla cannella in strada, lontanissimo da casa mia. Dio mi ha anche parlato, mi ha detto di stare in guardia da mia moglie e da mia madre, perché vogliono uccidermi; invece mio fratello Sandro – dopo una pausa ripeté – Sandro no. Non so perché mi hanno obbligato a venire qui.
Cosa può fare lei contro Dio?» Risposi: «Contro Dio io non posso fare nulla…».