Archivio di maggio 1990

63 – Maggio ‘90

martedì, 1 maggio 1990

Qualche autorevole voce si è levata ad esprimere la preoccupazione che le cosiddette «leghe» autonomiste rappresentino un pericolo all’unità nazionale, oltre che un insulto al passato patriottico del Risorgimento e della Resistenza!

Solo casualmente si può far notare che le stesse voci sottolineano il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza delle repubbliche baltiche dell’Unione Sovietica: fin troppo facile infatti è mettere in evidenza la non omogeneità dei due ordini di problemi; meno facile forse sarebbe sostenere la sostanziale uniformità della questione di principio.

I grandi temi dell’unione e della autonomia lacerano la storia dell’est e dell’ovest del mondo da sempre, e il federalismo sembra per il momento la soluzione ottimale, che si tratti di quello degli Stati Uniti d’America, o di quello, geograficamente ristretto, della Confederazione Elvetica. Chi parla di una Germania unita spesso omette di ricordare che una parte di quella stessa Germania è costituita in Repubblica Federale. Per limitarsi alla questione nazionale, sarebbe bene non dimenticare che esistono nella nostra Repubblica regioni «a statuto speciale».

Il fatto è che da noi le spinte autonomiste si sono subito squalificate per i loro contenuti reazionari: campanilismo e razzismo smaccatamente evidenti le hanno caratterizzate. Inoltre, per qualche non strana ragione, sono assenti dal panorama autonomistico vaste aree del Sud Italia, a quanto pare completamente identifica tesi con la cultura centralista del potere e del sotto potere: Bronte è lontana e tanto la Mafia siciliana quanto la ‘ndrangheta calabrese e la Camorra stanno saldamente arroccate attorno ad uno Stato che offre, tra gli altri, il vantaggio di battere una moneta facilmente convertibile.

D’altra parte, come sanno bene Occitani e Ladini, anche lo stato unitario può perpetrare i suoi piccoli genocidi senza dover presentare il conto a nessuno.

Si tranquillizzino gli autorevoli personaggi scesi in campo a difendere l’Unità d’Italia: nessuno ne mette davvero in discussione il principio, proprio allo stesso modo in cui nessuno lo ha mai fatto proprio. In cento cinquant’anni non è maturata una coscienza nazionale più di quanto !’idea non fosse già presente in chi si lamentava d’una «serva Italia, non donna di provincie, ma bordello».

L Italia, allo stesso tempo «espressione geografica» e idea nazionale, passata attraverso tutte le rinascite e tutte le decadenze, reggerà, e non per sola virtù, alle faide che vedono politica, economia e magistratura minarne la stessa ragion d’essere. Popolo di naviga tori, santi e poeti, !’italica gente conosce anche l’arte di convivere coi predatori che la governano, siano essi i piccoli feudatari, attori di un rapinoso e immediato potere, siano i gestori di quel Palazzo che presto sarà federale e transnazionale, veicolo europeo di una identica rapina.

A questo ci hanno ridotto secoli di rivoluzioni fallite e di criminalità impunita o addirittura premiata.

In questo quadro le «leghe» hanno la patetica inefficacia di borseggiatori da sacrestia.

63 – Maggio ‘90

martedì, 1 maggio 1990

Venerdì quattro maggio il pianista Radu Lupu ha presentato all’Auditorium di via della Conciliazione per la stagione da camera dell’Accademia di S. Cecilia, un programma che ne avrebbe dovuto esaltare il virtuosismo; invece il suo è stato un tonfo clamoroso. Noi stimiamo Lupu e lo consideriamo un musicista di solida preparazione e di gusto ineccepibile, però quella serata è stata nella sua carriera un punto nero. Forse aveva litigato con la persona più importante della sua vita, forse più semplicemente non aveva digerito gli spaghetti, il fatto è che ha reso pessime esecuzioni sia di Bach, sia di Schumann e Liszt.
Noi non amiamo che Bach venga eseguito al pianoforte, ne sopportiamo soltanto let rascrizioni di Busoni, che però sono quasi ri-composizioni o meditazioni sul grande compositore di Lipsia.
Il pianista rumeno Radu Lupu invece, contro qualunque regola di rispetto logico e li buon gusto, ha romanticheggiato talmente il Concerto in fa minore BWV 971, nello stile italiano, che è giunto a ottenere effetti di crescendo e diminuendo perfino nei trilli, non parliamo poi di quello che è riuscito a fare nelle progressioni che ha trasformato in un delirio di scorrettezza sonora. La Kreisleriana op.16 di Robert Schumann è stata eseguita con rigida frigidità e con l’aggiunta scriteriata di note in questo o quel punto; la mano sinistra sopraffaceva la destra che, dal suo canto, non riusciva quasi mai a «cantare»; alcuni accordi poi erano talmente insulsi nella «invenzione» lupiana che avevano perso qualunque senso armonico. Nella Sonata in si minore di Franz Liszt, di ineffabile bellezza, ha iniziato con uno sconnesso farfugliamento da «delirium tremens», poi qualche melodia ha acquistato tra le dita del pianista una certa consistenza, ma verso la fine della sonata ha tirato fuori chissà da dove una serie di accordi che noi non abbiamo mai ritrovato in nessuna edizione di quel brano. Il signor Lupu malgrado tutto ha continuato ad essere eccellente nell’esecuzione dei pianissimo; forse perché non voleva farsi sentire?

63 – Maggio ‘90

martedì, 1 maggio 1990

Dalle due chiese di piazza del Popolo: S. Maria dei Miracoli e S. Maria in Montesanto, si diparte il Tridente Romano, formato dalle tre vie, del Corso, del Babuino e di Ripetta, da qualche tempo anche caratterizzato come uno dei cuori artistici della città. Questa edizione del Tridente cinque, che ha per argomento «L’Artista e lo Spazio» vede riunite, oltre alle dieci gallerie della zona, la Galleria Giulia, che ha sede nell’omonima via.
L’arte figurativa ha sempre avuto uno stretto rapporto, oltre che con la vista, con lo spazio. L’illusione della bidimensionalità, il trompe l’oeil e il volumetrico distendersi di oggetti chiamati «sculture», si dispongono nello spazio appropriandosene. Le facoltà percettive colgono questa presenza sensuale e talvolta lo spettatore si abbandona, mentre altre volte rifugge da quelle che gli sembrano aggressioni.
Bidimensionalità e tridimensionalità si richiamano l’una all’altra in un gioco di specchi indefinito e indefinibile. Ogni opera d’arte figurativa occupa e violenta uno spazio, perciò nei giochi, più o meno intelligenti ed efficaci, mostrati nei diversi luoghi di questa rassegna d’arte contemporanea, lo spazio è ovviamente strumentalizzato in funzione di presenze che sono comunque spaziali, rendendo così l’inganno palese. L’arte tende alla verità, però, come ben sapeva Platone, è anche mistificazione e truffa. In queste esibizioni noi abbiamo soprattutto riscontrato una enorme tendenza al kitsch: mucchi di paccottiglia mortifera, desolante ed amorfa si accumulano in installazioni e fotografie di installazioni, residui di tutta la schifezza di cui può compiacersi l’immaginario. In questo articolato deposito di inutilità senza significati abbiamo solo apprezzato la potenza creativa di Mario Ceroli che, con classica armonia e gusto del gioco, sa alludere alla pittura e alla scultura come possibilità narrative che si svolgono in uno spazio e in un tempo scelti e definiti.
Per dovere d’informazione diamo conto delle gallerie e degli artisti banalmente perdenti di fronte all’assunto proposto.
Hidetoshi Nagasawa allo Studio Arco d’Alibert; Fabio Mauri alla Galleria Anna D’Ascanio; Giuseppe Maraniello allo studio d’Arte Contemporanea Giuliana De Crescenzo; Michelangelo Pistoletto alla Galleria del Cortile; il già menzionato Mario Ceroli era ospitato dalla Galleria Editalia; Grazia Varisco, Carlo Lorenzetti e Guido Strazza esponevano insieme negli spazi della Galleria Giulia; Luca Maria Patella alla Galleria Il Millennio; Enzo Cucchi al Segno; Antonio Trotta alla Galleria Oddi Baglioni; Maurizio Mochetto alla Galleria Milena Ugolini. Un discorso a parte merita, invece, Sinisca allo Studio S Arte Contemporanea, che a nostro parere ha fallito nel progetto di allestimento tutto dedicato all’America, ma che ha trovato ampio riscatto collaborando a una operazione editoriale che ci ha particolarmente colpito: un volume, intitolato appunto: All’America delle edizioni La Bautta, composto a sei mani da Sinisca, Furio Colombo e Maria Luisa Spaziani. Il libro è di quelli pregiatissimi, con una tiratura limitata di 1.500 copie numerate e rilegate in brossura; arricchita da altri trecento ancor più preziosi esemplari, rilegati in tela impressionata in oro, tutti oggetti belli da vedere e da toccare, prima ancora che da leggere e studiare.
Noi questo libro ci siamo imposti di leggerlo e studiarlo anche se per far ciò abbiamo dovuto superare il fastidio procuratoci della pretenziosa presentazione di Maristella Lorch, mal scritta ed eccessivamente autocentrica.
Abbiamo molto apprezzato invece le qualità letterarie e poetiche di Maria Luisa Spaziani e Furio Colombo, capaci in poche pagine di dare il succo della comprensione di un mondo e di una civiltà.
La Spaziani, in Cantari, un tenero e delicato poemetto, contrappone un cantastorie siciliano, semi-acculturato e tenerissimo, ai versi intensi e drammatici di una schiava negra diventata una grande poetessa: Phillis Wheatley. Le semplici e sparute parole dell’uno hanno come contrappunto la robusta poeticità della seconda, che esplode, passando attraverso bagliori successivi, dalla sbalordita paura alla consapevolezza fortemente lirica.
Furio Colombo descrive i misteri di New York in un «saggio immaginario» in quattro capitoli: La città verticale, La città orizzontale, La città si muove e Le porte della città. Come si può evincere già dal titolo, soltanto un europeo profondamente radicato in una cultura europea può capire gli Stati Uniti; gli indigeni dal canto loro per lo più ne hanno una comprensione di sciocchi ed esitanti bambini. Forse gli statunitensi riescono ad intuire qualcosa dell’Europa, anche se mangiano spaghetti alle vongole bevendo cappuccino. Ne è una prova per tutte quell’arguta e stupenda analisi di Gershwin nel suo Un Americano a Parigi, così acuto ed anche autoironico. Colombo, come Eugène Sue, affonda lo sguardo e le mani in una New York imprevedibilmente prevista: nulla di retorico nelle sue parole, ma una grande capacità di cogliere atmosfere, ambienti, situazioni umane, anche quelle più disperate. Una intensa sensualità è presente, ma velata ed ammiccante: il mistero è sempre lì dietro l’angolo e propone la sua cifra inquietante, Colombo ne raccoglie lo stimolo, ma ne rispetta la grandezza. Le parole di M. Luisa Spaziani e di Furio Colombo trovano il loro opposto speculare nelle immagini di Sinisca che ci rendono le verticalità specchianti di New York in un incalzare ossessivo e trascinante verso abissi di depressione, che comunicano efficacemente una delle letture possibili di una città che si presenta come una parafrasi del mondo.

63 – Maggio ‘90

martedì, 1 maggio 1990

La casa editrice Rizzoli ha fatto tempestivamente uscire alcuni mesi fa un volume di Vittorio Sgarbi, Davanti all’immagine (Rizzoli, 1989, pagg. 325, Lit. 30.000), e cerca di soddisfare le molte curiosità suscitate dal personaggio, al quale indubbiamente vanno riconosciute grandi doti promozionali.
Da questo innocuo pasticcetto intorno all’arte figurativa e dintorni, scritto con la compunta sussiegosità di un maestrino elementare, in un italianuccio in camicia bianca, abbastanza corretto (a parte la confusione che si fa tra «transfert» e «identificazione» nel capitolo sul vandalismo, a pagina 24) emerge soprattutto una impressione di marcato provincialismo.
Alcuni stralci di storia dell’arte sono sintetizzati in brevi schede dedicate ad autori come Carpaccio, Watteau, De Chirico, etc., redatte nel solito stile che si rifà al «critichese», ma che hanno il pregio non piccolo di servirsi di un linguaggio comprensibile.
Le osservazioni sono, come dice l’autore stesso, magari ovvie, però scadono – anche se questo l’autore non lo ammette – nella banalità, solo apparentemente spregiudicata; come accade a pagina 197, quando si afferma che: «De Chirico è stato il primo inventore dopo almeno un secolo di piacevoli illustrazioni e quattro secoli di grande pittura senza profondi contenuti di pensiero; sublime decorazione, se si eccettua Caravaggio».
Molto malinconico è il finale dedicato da Sgarbi a se stesso: con umiltà e petulanza si difende dalle accuse che da più parti gli sono state rivolte e lo fa quasi chiedendo pietà; simile in questo a uno degli impiegatini di Gogol o Puskin usi a difendersi dalle angherie dei principali con burocratiche e prolisse auto-difese.
Tutte le righe di questo libro ci hanno procurato un senso di grande desolazione. Ma, si sa: così va il mondo!

In questi tempi, di grande oscurantismo, è veramente una delizia poter leggere la Storia della poesia latina (Bompiani, 1990, pagg. 324, Lit. 26.000) di cui è autore Luca Canali.
Quest’opera unisce ad una solida e profonda cultura una raffinatezza di gusto eccezionale.
La scrittura è estremamente semplice e chiara; non vi sono artifizi retorici.
I poeti latini sono presentati con grande amore e rispetto.
Noi abbiamo avuto una bellissima esperienza leggendo questo libro: ai tempi del liceo eravamo grandi estimatori di Lucrezio, ci entusiasmava il suo latino asciutto, quotidiano ed efficace; ci affascinava la sua disperata malinconia; poi, lentamente, quasi senza rendercene conto, avevamo finito con l’assumere un atteggiamento di sufficienza nei confronti di questo poeta che scriveva negli intervalli della sua follia; la presentazione che Canali ne fa nel suo libro ce lo ha fatto, quasi, riscoprire, incredibilmente bello e sensuale.
Lucrezio è esaltato senza perifrasi, con sommessa e delicata dedizione; ma così è anche per tutti gli altri, dai poeti dei primi secoli a Catullo, Orazio, Virgilio e Ovidio. .
Alcune osservazioni, fatte con estrema semplicità, sono illuminanti: l’antica incapacità dei latini di sorridere, sorriso che troveranno solo con Ovidio; la stupenda e nevrotica prosasticità di Orazio; il languore accorato di Virgilio, finalmente riscattato dallo stereotipo del poeta imperiale. Con grande delicatezza e senza ipocrisia, Canali accenna anche all’irrimediabile misoginia di tutti quei poeti che nei loro versi sono anzi riusciti a fame materia di arguta o sarcastica poesia.
Con grande senso di equilibrio è trattato anche il tema dell’omosessualità, a fianco degli altri temi psicologici e sociali.
Con chiara efficacia, Canali ci fa in seguito vedere come si esaurisca nella Roma imperiale una vena di autentica poesia, senza però trascurare di far brillare nella giusta luce Giovenale o Marziale.
Le osservazioni politiche sono sempre pregnanti, ma non appesantiscono il discorso.
Così è per l’analisi della lingua, eccezionalmente precisa senza essere pedante.
Questa lingua latina, così bella e incompresa! Noi siamo, a questo proposito, quanto mai indignati contro il vezzo oggi dominante, di pronunciare il latino «alla tedesca», per cui professori universitari, castrati ed idioti, costringono gli studenti a pronunciare anghelus anziché angelus, michi anziché mihi, coeli anziché cèli (con la è ben aperta, perché risultato di un dittongo).
Ugualmente ci dà fastidio sentire i preti tedeschi dire messa con quel barbaro duro accento! Il latino è una lingua dolce, tenera e malinconica e in parte la sua pronuncia deriva da quella del greci che doveva essere altrettanto morbida, noi crediamo, tonale, come lo è ancor oggi il cinese.
I romani parlavano con robusta dolcezza i greci cantavano, cantavano sempre.

Uno dei libri più cretini che siano stati scritti negli ultimi decenni è Il primo anno di vita di R. Spitz, testo che non soltanto contiene un cumulo di ovvie stupidaggini; ma anche un coacervo di scorrettezze scientifiche.
Spitz non ha capito niente della psicoanalisi, della sua tecnica e del suo tipo d indagine e soprattutto non ha capito nulla del rapporto madre-figlio; in questo caso hanno assolutamente ragione le femministe: i maschi talvolta sono così ottusi e narcisistici nel loro delirio autocentrico che inquinano e adulterano qualunque tipo di situazione si propongano di osservare.
Perciò ogni serio psicoterapeuta non dovrebbe mai tener conto delle stupidaggini dette da Spitz, che sono esclusivamente il frutto di una indecente mistificazione scientifica.
Alcuni hanno tentato di salvare in parte il suo lavoro asserendo che gli andrebbe almeno riconosciuto il merito di aver fatto notare come l’Io individuale si strutturi molto prima di quanto avesse teorizzato l’osservazione freudiana.
Di fatto però questo spostamento «all’indietro» non è di alcuna utilità, né teorica né tanto meno clinica.
Noi non sappiamo se il signor Denis Mack Smith abbia letto quel libro di Spitz, certo che nel suo studio I Savoia re d’Italia (Rizzoli, 1990, pagg. 548, Lit. 50.000), ha dato molta importanza al rapporto madre-figlio e, grazie al cielo, anche padre-figlio dei primi quattro Re d’Italia.
La loro personalità dipenderebbe infatti quasi esclusivamente da una mancanza d’affetto che questi poveri principini avrebbero percepito nei primi anni di vita. Per cui Vittorio Emanuele II sarebbe divenuto rozzo, volgare, violento ed imbelle; Umberto I minuscolo, debole, timoroso e depresso; Vittorio Emanuele III avaro, avido e ignorante ed infine Umberto II, anch’egli partito da una situazione di deprivazione affettiva che lo avrebbe reso tentennante e debole, solo in esilio sarebbe riuscito a trovare una grandezza e dignità morali del tutto rispettabili.
Forse la tesi è che principesse di Sassonia o del Montenegro, associate a quei padri, producono figli adatti soltanto alla pratica dell’esilio. A parte questa nostra ridicolizzazione, forse eccessiva, del lavoro del celebre storico inglese, vogliamo riconoscergli tuttavia una indubbia serietà di lavoratore (non di studioso). Questo fellow della British Academy ha raccolto una grande quantità di documenti, ha meditato su molti libri altrui e forse ha anche ascoltato Radio Londra e da tutto questo ha tratto un libro estremamente godibile, piacevolissimo da leggersi e con alcuni riferimenti storici non del tutto inutili. Gli storici non è detto che debbano essere soltanto noiosi annalisti (a parte la bellezza della lingua latina in cui sono redatti, gli annales latini rompono le scatole oltre ogni misura), possono anche salottieramente raccontare aneddoti con spigliata gradevolezza; lo Smith ai fattarelli sa aggiungere anche notizie sulla situazione sociale ed economica che contribuiscono a dare una visione complessiva sufficientemente esauriente di un’epoca e di un costume, e questo è un pregio notevole.

63 – Maggio ‘90

martedì, 1 maggio 1990

La nuova Shangai è un ristorante «cinese» che si trova in via dei Giubbonari 52, quasi in piazza Campo dei Fiori. Anche qui, come in molti ristoranti che si richiamano a quella lontana terra, il personale di sala esotico finge di non capire quasi nessuna delle lingue in uso nel nostro continente, in modo che i malcapitatissimi avventori, più o meno gentilmente, si vedono rovesciare sul tavolo di tutto, qualunque cosa abbiano ordinato, e quegli occhi a mandorla, neri, profondi e sognanti, guardano stupiti con un immobile e stirato sorriso. Non molti giorni fa il ministro cinese Li-Peng, in visita a Mosca, ha detto a Gorbaciov, pensiamo con lo stesso sorriso, «Ci complimentiamo con voi perché non avete tradito i principi del leninismo». Non era difficile capire che quella del cinese era un’autentica presa per i fondelli. Anche noi sorridendo, diciamo oggi ai gestori de La nuova Shangai: «Ci complimentiamo con voi perché siete rimasti fedeli all’antica tradizione delle cucine regionali cinesi». E anche qui…
Quei cumuli di carni bruciate, rinsecchite di paste assolutamente mal cotte, di riso fritto, acquoso e appiccicaticcio; quei brandelli e brandelli di rimasugli di cucina, appena commestibili non hanno nulla a che vedere con la cucina della nuova o della vecchia Shangai, né di Canton o di Pechino, né di ogni altro angolo di Cina. Abbiamo già detto più volte che l’antica tra dizione cinese, se pur usa alternare piatti fragranti con bicchierini di grappa e acquavite, pur tuttavia conosce l’uso del vino a tavola. Non pretendiamo in questi ristoranti meschinelli di avere sulla tavola quei densi vini, cremosi e profumati; però sentirci sempre proporre i soliti cinque o sei vinacci della più bieca produzione industriale italiota ci ha ormai esasperati. Inoltre in questo luogo non certo consigliabile, il prezzo di tutte quelle sgradevoli «cose» è addirittura astronomico.

Ci siamo accorti – noi due poveri Farfalloni – di quanto siamo ormai vecchi; e ci siamo resi conto che di «Roma sparita» ce n’è proprio tanta. Altro che gli articoletti nostalgici dei quotidiani! Questa è un Roma, intima, poetica e stralunata. Con amici e amiche molto più giovani di noi siamo capitati poche sere fa all’Hostaria Romana di via Boccaccio, all’angolo con via Rasella. Sistemati in una veranda affacciata sulla strada e una scaletta, in un’atmosfera molto accogliente, ma assolutamente fuori del tempo, e non ancora pronta per un’aria di «revival», abbiamo gustato una saporitissima cena, preparata con cura gastronomica, senza nessun trucco messo in opera per stupefare turisti e neo-intenditori di cucina; serviti con affettuosa cura, soprattutto da un simpaticissimo ragazzo che sa raccontare barzellette sui lampadari.
Passiamo ora a descrivere ciò che abbiamo mangiato e bevuto, perché vale la pena di spendere qualche parola: gli antipasti sfiziosi erano semplici, schietti, non unti e saporiti; tra i tanti, buonissimi gli arancini di riso, le melanzane all’aglio, le cipolle gratinate e ripiene oltre alle stupende fave alla vignarola.
I primi piatti a loro volta si distinguevano per fragranza e cura nella preparazione: i ravioli di ricotta, dalla pasta freschissima e dal tenero ripieno, sia i rigatoni l mascarpone e gorgonzola, rustici e saporiti (senza panna, assente anche in tutti gli altri primi); ottime penne alle erbette e fettuccine ai funghi porcini davvero superlative anche per la pasta fatta in casa, magistralmente.
Il piattone di grigliata mista era cotto al punto giusto, senz’ombra di bruciature col fegato senza nervetti (forse avremmo preferito le fette di carne non così sottili), cervello impanato, con contorno di carciofi, era leggero e appetitoso, infine il maialino arrosto, dolce e croccante.
Ottimi anche i carciofi «cimaroli» alla romana.
I due dolci fatti in casa: un tiramisù e crème caramel lasciavano un po’ a desiderare, ma erano ugualmente accettabili.
Abbiamo bevuto prima un Frascati della casa, sfuso, di ordinaria amministrazione, poi un Pinot grigio del Collio, passabile, non troppo profumato ed infine un rosso sfuso Montepulciano d’Abruzzo davvero eccezionale ed appropriato: armonico, profumato di viola e di prugna, dalla delicatissima stoffa.
Il solito whisky di prammatica ha chiuso gradevole serata, il prezzo non bassissimo è pure stato contenuto.
Abbiamo accennato a «Roma sparita»: in questo angoletto si è rifugiato un sogno, piccolo e grande, della Roma del dopoguerra; era appena morto un regime, il cinema costruiva i suoi divi nostrani e stranieri, la chiesa richiamava al soglio Pietro tanti pellegrini, e l’inizio di un ritornato benessere spingeva i romani de’ Roma alle uscite gastronomiche fuori casa; sono ricordi nostri, carichi di una tenera nostalgia tanto struggente da parere incomprensibile.
Non sappiamo dire di più, ma, forse, chi viene qui ritrova qualche cosa di un passato che i mass-media non sono ancora stati capaci di omologare.
Chi ha letto finora non si illuda di trovare chissà che: la poesia delle piccole cose è fatta quasi di niente.

Psicoanalisi contro n.63 – L’arte dello scalco

martedì, 1 maggio 1990

Mai si insisterà abbastanza sull’unità della persona; anatomisti e fisiologi, patologi, clinici e neurologi, per comodità ed anche per bisogno di chiarezza, hanno nel corso dei secoli smembrato questa unità. Infatti è importante poter «dividere l’idea nelle sue specie, seguendo le sue articolazioni naturali ed evitando di spezzarne le parti come farebbe uno scaleo maldestro» (Platone, Fedro, XLIX, 265d). Platone cercava, con questo esempio, di analizzare come la mente umana costruisca concetti isolati gli uni dagli altri, senza operarne una commistione negativa; la sua era un’esigenza metodologica non del tutto infondata. E importante, in una struttura organica, unire ciò che deve essere unito, separandolo da quegli elementi che potrebbero essere di disturbo perché incongrui. Platone quando ha tentato di dare un’immagine sensibile dell’anima, ha costruito il mito dell’auriga; conservo in casa casa un bel medaglione d’avorio, di epoca settecentesca, in cui la creazione ideale del filosofo ateniese è tradotta in una raffigurazione visibile: un giovane nudo governa i due cavalli che trainano la biga, tentando di controllare tanto l’animale dall’aria irosa e dai muscoli contratti, che spinge verso il basso, quanto quello dall’aria docile e serena, quasi lievitante verso l’alto. Il rilievo delle figure stacca appena dallo sfondo di un cielo senza colore, me è talvolta quello di Grecia, in certi momenti che precedono un improvviso e radicale cambiamento, con l’arrivo un buio fosco e insopportabile, carico di minaccia. Ho avuto la fortuna di stare sotto quel cielo troppo bianco, poi troppo azzurro e ancora troppo viola, un cielo che forse ancora per poco sarà lo stesso che vide Platone, che videro le ninfe gli dèi. Con questa descrizione dell’anima, l’antico filosofo ha cercato di rendere poeticamente le tre istanze che compongono l’anima umana.

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La psicologia della Gestalt, in tempi più recenti, sostiene che il pensiero umano tende sempre alla costruzione di forme definite. Non è possibile, per questa teoria, che il pensiero si realizzi al di fuori di una forma: tre punti disegnati nello spazio sono concepiti come punti di triangolo; una serie di lampadine che si accendono successivamente diventano per l’occhio umano e per la mente una luce che corre; otto tasti premuti a casaccio su di un pianoforte formano sempre, per chi ascolta, una melodia. Il mondo non è fatto di elementi isolati e sparsi; ma ogni cosa tende ad entrare in rapporto con che è accanto, ad unirsi in un insieme che non è solo percettivo, che opera una continua costruzione di forme; la forma è anche la modalità attraverso la quale la mente coglie le realtà alle quali poi l’uomo si rapporta. Accade così anche il bambino, il feto e persino per l’embrione, che già nel ventre della madre percepisce se stesso come una forma, o, meglio ancora, come un’unità composta più forme. Ho fin troppo spesso ripetuto che il narcisismo primario teorizzato dalla psicoanalisi freudiana è un’illusione; nessuno parte da una situazione di assoluta chiusura: il pupazzo che pende sulla culla, gli stessi volti del padre e della madre sono già, per il bambino, forme che ha dentro di sé; il mondo non gli regala nulla; soltanto fa sì che la percezione possa variare a seconda delle situazioni e delle strutture che lo circondano, permettendogli fin da subito di distendere il suo esserci in tante immagini che si riflettono sul sé e si proiettano fuori di sé. Certo, anche ciò che sta fuori modifica la pur piccola palpitante vita dell’embrione. Perciò l’arte dello scalco di cui parlava Platone è un inganno utile se lo si usa per orientarsi nel mondo, nei propri e altrui pensieri. L’inganno nuoce a chi pensi di poter realmente isolare le parti distinte dal tutto di cui fanno parte. Una Gestalt non è mai sola; è sempre rapporto con le altre, in continua evoluzione, talvolta simbioticamente, talvolta in antitesi. Le forme esistono e si debbono isolare proprio in quanto sono suscettibili di mu
tamento continuo. Le intuizioni di Rubin e Koffka sono utili se non parcellizzano il mondo in tanti agglomerati compatti di materiali, che ridurrebbero la realtà ad una monadologia leibniziana molto più povera perché priva di gran parte delle intuizioni del filosofo tedesco.

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Per queste ragioni, la decisione di suddividere la realtà dell’essere umano in organi e apparati, strutture e sottostrutture, se ha un’utilità di studio, comporta però il rischio di frantumare in schegge un complesso vivente le cui parti sono in costante e continua interazione. Inoltre accade spesso che l’operazione dello scaleo sia compiuta da un pessimo artigiano, con la conseguente distruzione di legamenti e connessioni e la consegna di un corpo smembrato nel quale non è più possibile leggere alcun significato organico; proprio perché quella storia che si era venuta costruendo tra tensioni ed opposizioni, rapporti interni ed esterni, scambi osmotici e funzioni interdipendenti è stata vanificata e dispersa.
Ogni corpo ha la sua storia, è parte della storia di ogni essere umano, realtà individuali fatte di piccole e grandi vicende, di organizzazioni che sono venute costruendosi nel tempo, che si sono modificate: i capelli, gli occhi, la pelle, l’apparato cardiocircolatorio, quello gastrico, e così via, tutto si è formato nel rapporto relazionale; ma ci sono anche messaggi che vengono da molto più lontano. Il percorso filogenetico è incominciato chissà quando e chissà dove, forse non ha avuto un inizio definito; noi siamo abituati a considerarlo come un filo che si svolge attraverso il tempo e arriva fino alle realtà individuali presenti, come un fiume che va verso la foce e nel suo cammino subisce l’interazione di tanti altri agenti e altri fiumi, che confluiscono e che defluiscono.

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L’inconscio sociale non nasce con l’embrione; ma è una struttura dinamicamente presente dentro e intorno a quelle prime poche cellule pulsanti, che già vogliono vivere; nelle quali sono presenti alcune caratteristiche che poi sbocceranno, come le «omeomerie» teorizzate dagli stoici o come quei dadini di carta pressata, frutto della genialità cinese, che immersi nell’acqua, si dilatano in ampi fiori, in interi giardini popolati di vita.
Non sono in grado di dare una risposta alle perplessità che sorgono di fronte al dubbio che tutto sia già pre-determinato; io non ci credo, la mia convinzione è un’altra, anche se non so provarla. Io penso che all’uomo sia data la possibilità in ogni momento di intervenire nella realizzazione del proprio destino: si può agire sulla persona come sul gruppo, sull’inconscio individuale e su quello sociale, sulle pulsioni e sulle fantasie. Certo non si deve temere lo scontro con la realtà di fatto, con il divenire che urge; bisogna avere il coraggio di revocare tutto in dubbio; inoltre, se si vuole essere scienziati, è importante avere la capacità di opporsi a quelle che sono ritenute le leggi del divenire cosiddetto naturale.
La lotta è sana, come è sana la vita, la lotta è malata, come può essere malata la vita.

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Gli studiosi della mente, richiamandosi, consapevolmente o non, a Platone, hanno voluto ricorrere alla tecnica dello scalco, applicandola anche alla struttura chiamata psiche. Non so quando i filosofi e gli psicologi abbiano incominciato ad operare distinzioni e sottodistinzioni nello studio dell’attività mentale; per consuetudine ci si rifà all’Ottocento per insultarlo e aggredirlo, ma anche per ritrovare in quel secolo alcune radici del nostro pensiero. Potremmo prendere in esame per . esempio l’opera di Herbart, il quale all’inizio dell’Ottocento ha parlato delle «masse rappresentative» che nella mente umana corrisponderebbero ad agglomerati di cellule organiche, dominate dal principio di attrazione e repulsione. Questo principio ha affascinato anche Schelling e molti fisici di allora: tutto verrebbe spiegato in base a questo strano meccanismo. Io ritengo queste considerazioni stupide e banali: non mi convince !’ipotesi che l’universo, la terra, la psiche umana, sarebbero tutti composti di una sostanza misteriosa, dicotomicamente strutturata, una parte della quale respingerebbe l’altra e che sarebbe caratterizzata poi da un’attrazione all’interno di ciascuna parte omogenea. Il pensiero sarebbe così costituito da fantasie e percezioni simili che, attraendosi, costruirebbero masse ideative, mentre quelle di natura opposta si respingerebbero tendendo all’agglomerazione con altre a loro omogenee. Questa concezione mi fa venire in mente la tela che Penelope tesseva di giorno per disfarla di notte; la regina di Itaca intendeva in questo modo ingannare i Proci, perché dovrebbe comportarsi così la psiche umana?
Per gli scienziati dell’Ottocento il procedimento del pensiero si svolgerebbe secondo rigide leggi organicistiche, molto più rigide della legge dell’amore alla quale obbediva Penelope nel tessere e disfare la trama della sua tela.

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Dal secolo scorso ad oggi, i filosofi e gli scienziati, hanno continuato a procedere come anatomisti della psiche; non limitandosi ad osservarla come fisiologi, ma accostandosi ad essa intenzionati a determinarne strutture autocentriche che, sebbene in rapporto tra loro, siano però isolabili e osservabili indipendentemente dal complesso psichico. Riconosco che, a questo punto, è un gesto un po’ vigliacco il mio di richiamarmi al «progetto» di Freud del 1896, in base al quale egli tentò di far corrispondere ciascuna situazione psichica ad una realtà neuronale; questo tentativo già fin troppo lo si è deriso e insultato; io vorrei soltanto, a questo proposito, far notare che Freud allora fu un coraggioso: saggiò il terreno in una direzione sconosciuta; sfruttando nel modo migliore le possibilità descrittive della scienza del suo tempo, e azzardando ipotesi interpretative stimolanti. Fu il primo ad ammettere che quella strada non era purtroppo praticabile e dovette subire le aggressioni vili dei soliti omuncoli dal sangue di rana; con nessuna offesa per le verdi ranocchie dei fossi, che Nietzsche prese ad esempio della nefandezza umana. Quel geniale «progetto» non portò tuttavia a nulla ma forse contribuì in modo determinante all’impostazione scientifica successiva.
I sommovimenti psichici debbono avere una loro corrispondenza neuronale e viceversa, proprio perché l’unità dell’essere umano è inscindibile: Freud, legato ad una scienza e una cultura oggettivistiche, dogmatiche e sperimentali, dovette ovviamente arrestarsi di fronte all’impossibilità di fornire prove pratiche delle sue intuizioni.

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La cosiddetta medicina psicosomatica ha ripreso questo argomento. Non ritengo adesso opportuno addentrarmi nelle polemiche intorno a questa o quella teorizzazione; io però so che oggi sono molti quelli che, per ignoranza o per pigrizia, preferiscono le soluzioni facili, e quindi leggono con delirante avidità trattati, più o meno divulgativi, che danno di ogni malattia cosiddetta organica una spiegazione che la farebbe dipendere da una situazione psichica precisa e determinabile. Donne e uomini assorbono acriticamente un miscuglio di verità e di improbabili congetture, trasmesse in contesti per lo più frivoli e si abbandonano ad un compiaciuto psicologismo, senza alcun fondamento.
Credo sia più utile rendersi consapevoli dello stato di ignoranza in cui, al momento attuale, ancora ci troviamo nei riguardi delle malattie organiche come di quelle psichiche. Sento presente anche in me la forza persuasiva del binomio organico-psichico, soprattutto nel lavoro clinico, nel quale mi trovo ad affrontare il disagio clamorosamente «organico» o sottilmente «psichico».
Mi stupisce persino che così spesso mi capiti di essere gratificato da risultati favorevoli, tanto nel campo del disturbo psichico quanto in quello più strettamente somatico. Tuttavia resto insoddisfatto; ho la certezza interiore che i meccanismi che muovono l’inconscio individuale e quello sociale non siano così semplici come la stessa esperienza farebbe supporre; c’è una realtà superiore, che io percepisco non come divina, bensì come forza malvagia, che struttura in parte tanto l’inconscio sociale quanto l’individuo.
Io vorrei cercare di arrivare a questa specie di primo motore da cui dipende anche la sofferenza umana. Forse questa è un’illusione.

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L’arte dello scalco è quella di suddividere correttamente le diverse strutture anatomiche; l’arte del fisiologo è quella di studiare nella loro specificità i vari apparati dell’organismo nella loro inestricabile ma evidente connessione vitale; la scienza psicologica a sua volta dovrebbe insegnarci ad osservare non solo l’evolversi della psiche, ma anche il suo articolarsi. Dalle prime teorizzazioni psicodinamiche fino alle moderne intuizioni della psicologia dell’Io la mente umana è sempre stata suddivisa in settori. Gli antichi avevano un’opinione piuttosto semplice, che si limitava a riconoscere come struttura del cervello umano alcune connessioni immediatamente evidenti. Solo molto più tardi la fisiologia seppe identificare una rete di terminazioni nervose connesse fra di loro. Il sistema nervoso oggi viene descritto come una struttura molto complessa e contorta, con una gerarchia interna di tipo bizantino: in alto la corteccia cerebrale, il basileus; e poi, scendendo, tutte le altre componenti, sempre meno importanti e meno differenziabili, per giungere infine a quello che viene chiamato sistema nervoso vegetativo. Proprio come nell’antica Bisanzio, ove spesso l’imperatore, pago di sonnecchiare sotto baldacchini dorati, non aveva alcun potere effettivo, così le strutture «superiori» del cervello sono spesso assolutamente determinate e condizionate da quelle considerate «inferiori».
Non saprei dire se sia giusto auspicare che il basileus si ribelli e si riappropri del suo potere, anche perché forse il suo potere risiede altrove: alle sue spalle c’è un’ombra che controlla tutto. Che cos’è mai quest’ombra? Dov’è situata?

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Quest’ombra è la persona; è il doppio della persona, un doppio che però è anche una relazione tra la persona e il suo doppio. Entrambi, la persona e il suo doppio, si richiamano ad una terza entità-ombra e così via. La persona è nel suo sé, ma è anche fuori di sé; la coscienza sembra vigile, ma l’inconscio l’avvolge, è alle sue spalle, in fondo a ciascun individuo, tutt’intorno. Inconscio individuale e inconscio sociale condizionano un Io che è sempre una persona. Non bisogna commettere l’errore di assegnare all’Io una funzione particolare, si rischierebbe di distruggere una realtà estremamente ricca, articolata e dinamica. L’Io si identifica con il me, ma va oltre me. Avrei potuto anche scegliere un altro pronome, magari un sostantivo o anche un ‘aggettivo, ma è così comodo il piccolo termine «Io». Riconosco che può ingenerare qualche confusione, ma forse altri termini ne ingenererebbero ancor di più. «Io» quindi, per me, sta ad indicare una persona, la persona, che non è soltanto circoscritta dalla sua pelle, ma è anche in continua relazione con ciò che è al di fuori di sé. Il fuori di sé penetra nel sé. L’Io è la concretezza del mio esistere.
Ho bisogno di parlare di «Io», altrimenti mi disperderei in un Io che è solo una funzione, oppure in un me che è autocentrico e solipsistico, o un sé anonimo; e ancora chissà quanti altri monosillabi che confonderebbero le idee più che aiutare la comprensione. Riconosco comunque che aver scelto «Io» induce ugualmente confusione; non è possibile infatti chiarirsi totalmente; ma bisogna comunque procedere senza troppi scrupoli.

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«Io» è la persona come punto di riferimento strutturale; non è soltanto questa persona, ma è la persona in rapporto con altre persone e con il mondo e anche in rapporto con se stessa. Nella sua ingenuità trovo questa definizione sufficientemente chiara ed utile. Quando la persona patisce un disagio di qualunque natura, è un «Io» che ne risente; non solo un «Io» cosiddetto individuale, ma anche un «Io» che è in relazione continua col sé e il fuori di sé. «Io» è un punto di riferimento che però deve trovare la sua compattezza, altrimenti corre il rischio della disgregazione e del marasma psichico e organico. Perché ho scelto il termine «Io» e non la parola «persona»? Perché quest’ultima espressione è per il momento ancora oscura e allo stesso tempo carica di troppa sacralità. Quando gli uomini diventeranno davvero persone, forse la funzione di un «Io» verrà meno.

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Al momento dunque la cosiddetta psicoanalisi cura l’Io, proprio come la medicina organica cura l’Io. Che differenza c’è, allora, tra una terapia psicologica e la medicina organicistica, che affronta il problema delle cellule malate? Forse il mio approccio al problema è stato fin qui scorretto; credo di non aver ancora sufficientemente chiaro il concetto di «Io»; oppure ho paura di applicare questo concetto, perché potrei non essere compreso e ancora peggio potrei non comprendere me stesso.
La distinzione tra psichico e fisico, come le vecchie distinzioni di anatomisti e fisiologi, era utile per assicurare il cammino scientifico ed ora questa confusione, che io sto nuovamente introducendo nella mia ricerca, rischia di intralciarlo. So che la montagna delle mie considerazioni forse partorirà solo un topolino; però voglio correre il rischio di parere ovvio nel mio tentativo di sfuggire alla banalizzazione dell’operazione dello scalco. Sono ambiguo e circospetto per due ragioni, alle quali ho forse già accennato: la prima è che non sono assolutamente certo della validità delle mie ipotesi: sento l’insufficienza della vecchia impostazione della psicosomatica, ma non sono ancora capace di riformularne una nuova; la seconda ragione è che dopo tanto congetturare temo di finire col ricadere nell’ambito di una semplice tautologia, espressa con un nebuloso concetto di «Io» indistinto.
Mi domando ancora se, piuttosto di lasciare tutto così sospeso, non farei meglio a proseguire sulla linea di chi indaga dividendo e separando i problemi e le funzioni, operando suddivisioni e delimitazioni di campi specifici. Eppure io credo che sia importante e doveroso, da parte mia, insistere nel porre l’accento sul concetto di unità dell’essere vivente, di proporre questo «Io» come centro di irradiazione e di condensazione.
Io sono «Io» che parlo sentendo la fatica di parlare, che ho sulle spalle il peso di una ricerca che, per mia scelta, non avrà mai termine; anche se potrebbe alla fine rivelarsi inutile.