63 – Maggio ‘90

maggio , 1990

La casa editrice Rizzoli ha fatto tempestivamente uscire alcuni mesi fa un volume di Vittorio Sgarbi, Davanti all’immagine (Rizzoli, 1989, pagg. 325, Lit. 30.000), e cerca di soddisfare le molte curiosità suscitate dal personaggio, al quale indubbiamente vanno riconosciute grandi doti promozionali.
Da questo innocuo pasticcetto intorno all’arte figurativa e dintorni, scritto con la compunta sussiegosità di un maestrino elementare, in un italianuccio in camicia bianca, abbastanza corretto (a parte la confusione che si fa tra «transfert» e «identificazione» nel capitolo sul vandalismo, a pagina 24) emerge soprattutto una impressione di marcato provincialismo.
Alcuni stralci di storia dell’arte sono sintetizzati in brevi schede dedicate ad autori come Carpaccio, Watteau, De Chirico, etc., redatte nel solito stile che si rifà al «critichese», ma che hanno il pregio non piccolo di servirsi di un linguaggio comprensibile.
Le osservazioni sono, come dice l’autore stesso, magari ovvie, però scadono – anche se questo l’autore non lo ammette – nella banalità, solo apparentemente spregiudicata; come accade a pagina 197, quando si afferma che: «De Chirico è stato il primo inventore dopo almeno un secolo di piacevoli illustrazioni e quattro secoli di grande pittura senza profondi contenuti di pensiero; sublime decorazione, se si eccettua Caravaggio».
Molto malinconico è il finale dedicato da Sgarbi a se stesso: con umiltà e petulanza si difende dalle accuse che da più parti gli sono state rivolte e lo fa quasi chiedendo pietà; simile in questo a uno degli impiegatini di Gogol o Puskin usi a difendersi dalle angherie dei principali con burocratiche e prolisse auto-difese.
Tutte le righe di questo libro ci hanno procurato un senso di grande desolazione. Ma, si sa: così va il mondo!

In questi tempi, di grande oscurantismo, è veramente una delizia poter leggere la Storia della poesia latina (Bompiani, 1990, pagg. 324, Lit. 26.000) di cui è autore Luca Canali.
Quest’opera unisce ad una solida e profonda cultura una raffinatezza di gusto eccezionale.
La scrittura è estremamente semplice e chiara; non vi sono artifizi retorici.
I poeti latini sono presentati con grande amore e rispetto.
Noi abbiamo avuto una bellissima esperienza leggendo questo libro: ai tempi del liceo eravamo grandi estimatori di Lucrezio, ci entusiasmava il suo latino asciutto, quotidiano ed efficace; ci affascinava la sua disperata malinconia; poi, lentamente, quasi senza rendercene conto, avevamo finito con l’assumere un atteggiamento di sufficienza nei confronti di questo poeta che scriveva negli intervalli della sua follia; la presentazione che Canali ne fa nel suo libro ce lo ha fatto, quasi, riscoprire, incredibilmente bello e sensuale.
Lucrezio è esaltato senza perifrasi, con sommessa e delicata dedizione; ma così è anche per tutti gli altri, dai poeti dei primi secoli a Catullo, Orazio, Virgilio e Ovidio. .
Alcune osservazioni, fatte con estrema semplicità, sono illuminanti: l’antica incapacità dei latini di sorridere, sorriso che troveranno solo con Ovidio; la stupenda e nevrotica prosasticità di Orazio; il languore accorato di Virgilio, finalmente riscattato dallo stereotipo del poeta imperiale. Con grande delicatezza e senza ipocrisia, Canali accenna anche all’irrimediabile misoginia di tutti quei poeti che nei loro versi sono anzi riusciti a fame materia di arguta o sarcastica poesia.
Con grande senso di equilibrio è trattato anche il tema dell’omosessualità, a fianco degli altri temi psicologici e sociali.
Con chiara efficacia, Canali ci fa in seguito vedere come si esaurisca nella Roma imperiale una vena di autentica poesia, senza però trascurare di far brillare nella giusta luce Giovenale o Marziale.
Le osservazioni politiche sono sempre pregnanti, ma non appesantiscono il discorso.
Così è per l’analisi della lingua, eccezionalmente precisa senza essere pedante.
Questa lingua latina, così bella e incompresa! Noi siamo, a questo proposito, quanto mai indignati contro il vezzo oggi dominante, di pronunciare il latino «alla tedesca», per cui professori universitari, castrati ed idioti, costringono gli studenti a pronunciare anghelus anziché angelus, michi anziché mihi, coeli anziché cèli (con la è ben aperta, perché risultato di un dittongo).
Ugualmente ci dà fastidio sentire i preti tedeschi dire messa con quel barbaro duro accento! Il latino è una lingua dolce, tenera e malinconica e in parte la sua pronuncia deriva da quella del greci che doveva essere altrettanto morbida, noi crediamo, tonale, come lo è ancor oggi il cinese.
I romani parlavano con robusta dolcezza i greci cantavano, cantavano sempre.

Uno dei libri più cretini che siano stati scritti negli ultimi decenni è Il primo anno di vita di R. Spitz, testo che non soltanto contiene un cumulo di ovvie stupidaggini; ma anche un coacervo di scorrettezze scientifiche.
Spitz non ha capito niente della psicoanalisi, della sua tecnica e del suo tipo d indagine e soprattutto non ha capito nulla del rapporto madre-figlio; in questo caso hanno assolutamente ragione le femministe: i maschi talvolta sono così ottusi e narcisistici nel loro delirio autocentrico che inquinano e adulterano qualunque tipo di situazione si propongano di osservare.
Perciò ogni serio psicoterapeuta non dovrebbe mai tener conto delle stupidaggini dette da Spitz, che sono esclusivamente il frutto di una indecente mistificazione scientifica.
Alcuni hanno tentato di salvare in parte il suo lavoro asserendo che gli andrebbe almeno riconosciuto il merito di aver fatto notare come l’Io individuale si strutturi molto prima di quanto avesse teorizzato l’osservazione freudiana.
Di fatto però questo spostamento «all’indietro» non è di alcuna utilità, né teorica né tanto meno clinica.
Noi non sappiamo se il signor Denis Mack Smith abbia letto quel libro di Spitz, certo che nel suo studio I Savoia re d’Italia (Rizzoli, 1990, pagg. 548, Lit. 50.000), ha dato molta importanza al rapporto madre-figlio e, grazie al cielo, anche padre-figlio dei primi quattro Re d’Italia.
La loro personalità dipenderebbe infatti quasi esclusivamente da una mancanza d’affetto che questi poveri principini avrebbero percepito nei primi anni di vita. Per cui Vittorio Emanuele II sarebbe divenuto rozzo, volgare, violento ed imbelle; Umberto I minuscolo, debole, timoroso e depresso; Vittorio Emanuele III avaro, avido e ignorante ed infine Umberto II, anch’egli partito da una situazione di deprivazione affettiva che lo avrebbe reso tentennante e debole, solo in esilio sarebbe riuscito a trovare una grandezza e dignità morali del tutto rispettabili.
Forse la tesi è che principesse di Sassonia o del Montenegro, associate a quei padri, producono figli adatti soltanto alla pratica dell’esilio. A parte questa nostra ridicolizzazione, forse eccessiva, del lavoro del celebre storico inglese, vogliamo riconoscergli tuttavia una indubbia serietà di lavoratore (non di studioso). Questo fellow della British Academy ha raccolto una grande quantità di documenti, ha meditato su molti libri altrui e forse ha anche ascoltato Radio Londra e da tutto questo ha tratto un libro estremamente godibile, piacevolissimo da leggersi e con alcuni riferimenti storici non del tutto inutili. Gli storici non è detto che debbano essere soltanto noiosi annalisti (a parte la bellezza della lingua latina in cui sono redatti, gli annales latini rompono le scatole oltre ogni misura), possono anche salottieramente raccontare aneddoti con spigliata gradevolezza; lo Smith ai fattarelli sa aggiungere anche notizie sulla situazione sociale ed economica che contribuiscono a dare una visione complessiva sufficientemente esauriente di un’epoca e di un costume, e questo è un pregio notevole.