63 – Maggio ‘90

maggio , 1990

La nuova Shangai è un ristorante «cinese» che si trova in via dei Giubbonari 52, quasi in piazza Campo dei Fiori. Anche qui, come in molti ristoranti che si richiamano a quella lontana terra, il personale di sala esotico finge di non capire quasi nessuna delle lingue in uso nel nostro continente, in modo che i malcapitatissimi avventori, più o meno gentilmente, si vedono rovesciare sul tavolo di tutto, qualunque cosa abbiano ordinato, e quegli occhi a mandorla, neri, profondi e sognanti, guardano stupiti con un immobile e stirato sorriso. Non molti giorni fa il ministro cinese Li-Peng, in visita a Mosca, ha detto a Gorbaciov, pensiamo con lo stesso sorriso, «Ci complimentiamo con voi perché non avete tradito i principi del leninismo». Non era difficile capire che quella del cinese era un’autentica presa per i fondelli. Anche noi sorridendo, diciamo oggi ai gestori de La nuova Shangai: «Ci complimentiamo con voi perché siete rimasti fedeli all’antica tradizione delle cucine regionali cinesi». E anche qui…
Quei cumuli di carni bruciate, rinsecchite di paste assolutamente mal cotte, di riso fritto, acquoso e appiccicaticcio; quei brandelli e brandelli di rimasugli di cucina, appena commestibili non hanno nulla a che vedere con la cucina della nuova o della vecchia Shangai, né di Canton o di Pechino, né di ogni altro angolo di Cina. Abbiamo già detto più volte che l’antica tra dizione cinese, se pur usa alternare piatti fragranti con bicchierini di grappa e acquavite, pur tuttavia conosce l’uso del vino a tavola. Non pretendiamo in questi ristoranti meschinelli di avere sulla tavola quei densi vini, cremosi e profumati; però sentirci sempre proporre i soliti cinque o sei vinacci della più bieca produzione industriale italiota ci ha ormai esasperati. Inoltre in questo luogo non certo consigliabile, il prezzo di tutte quelle sgradevoli «cose» è addirittura astronomico.

Ci siamo accorti – noi due poveri Farfalloni – di quanto siamo ormai vecchi; e ci siamo resi conto che di «Roma sparita» ce n’è proprio tanta. Altro che gli articoletti nostalgici dei quotidiani! Questa è un Roma, intima, poetica e stralunata. Con amici e amiche molto più giovani di noi siamo capitati poche sere fa all’Hostaria Romana di via Boccaccio, all’angolo con via Rasella. Sistemati in una veranda affacciata sulla strada e una scaletta, in un’atmosfera molto accogliente, ma assolutamente fuori del tempo, e non ancora pronta per un’aria di «revival», abbiamo gustato una saporitissima cena, preparata con cura gastronomica, senza nessun trucco messo in opera per stupefare turisti e neo-intenditori di cucina; serviti con affettuosa cura, soprattutto da un simpaticissimo ragazzo che sa raccontare barzellette sui lampadari.
Passiamo ora a descrivere ciò che abbiamo mangiato e bevuto, perché vale la pena di spendere qualche parola: gli antipasti sfiziosi erano semplici, schietti, non unti e saporiti; tra i tanti, buonissimi gli arancini di riso, le melanzane all’aglio, le cipolle gratinate e ripiene oltre alle stupende fave alla vignarola.
I primi piatti a loro volta si distinguevano per fragranza e cura nella preparazione: i ravioli di ricotta, dalla pasta freschissima e dal tenero ripieno, sia i rigatoni l mascarpone e gorgonzola, rustici e saporiti (senza panna, assente anche in tutti gli altri primi); ottime penne alle erbette e fettuccine ai funghi porcini davvero superlative anche per la pasta fatta in casa, magistralmente.
Il piattone di grigliata mista era cotto al punto giusto, senz’ombra di bruciature col fegato senza nervetti (forse avremmo preferito le fette di carne non così sottili), cervello impanato, con contorno di carciofi, era leggero e appetitoso, infine il maialino arrosto, dolce e croccante.
Ottimi anche i carciofi «cimaroli» alla romana.
I due dolci fatti in casa: un tiramisù e crème caramel lasciavano un po’ a desiderare, ma erano ugualmente accettabili.
Abbiamo bevuto prima un Frascati della casa, sfuso, di ordinaria amministrazione, poi un Pinot grigio del Collio, passabile, non troppo profumato ed infine un rosso sfuso Montepulciano d’Abruzzo davvero eccezionale ed appropriato: armonico, profumato di viola e di prugna, dalla delicatissima stoffa.
Il solito whisky di prammatica ha chiuso gradevole serata, il prezzo non bassissimo è pure stato contenuto.
Abbiamo accennato a «Roma sparita»: in questo angoletto si è rifugiato un sogno, piccolo e grande, della Roma del dopoguerra; era appena morto un regime, il cinema costruiva i suoi divi nostrani e stranieri, la chiesa richiamava al soglio Pietro tanti pellegrini, e l’inizio di un ritornato benessere spingeva i romani de’ Roma alle uscite gastronomiche fuori casa; sono ricordi nostri, carichi di una tenera nostalgia tanto struggente da parere incomprensibile.
Non sappiamo dire di più, ma, forse, chi viene qui ritrova qualche cosa di un passato che i mass-media non sono ancora stati capaci di omologare.
Chi ha letto finora non si illuda di trovare chissà che: la poesia delle piccole cose è fatta quasi di niente.