Psicoanalisi contro n.63 – L’arte dello scalco

maggio , 1990

Mai si insisterà abbastanza sull’unità della persona; anatomisti e fisiologi, patologi, clinici e neurologi, per comodità ed anche per bisogno di chiarezza, hanno nel corso dei secoli smembrato questa unità. Infatti è importante poter «dividere l’idea nelle sue specie, seguendo le sue articolazioni naturali ed evitando di spezzarne le parti come farebbe uno scaleo maldestro» (Platone, Fedro, XLIX, 265d). Platone cercava, con questo esempio, di analizzare come la mente umana costruisca concetti isolati gli uni dagli altri, senza operarne una commistione negativa; la sua era un’esigenza metodologica non del tutto infondata. E importante, in una struttura organica, unire ciò che deve essere unito, separandolo da quegli elementi che potrebbero essere di disturbo perché incongrui. Platone quando ha tentato di dare un’immagine sensibile dell’anima, ha costruito il mito dell’auriga; conservo in casa casa un bel medaglione d’avorio, di epoca settecentesca, in cui la creazione ideale del filosofo ateniese è tradotta in una raffigurazione visibile: un giovane nudo governa i due cavalli che trainano la biga, tentando di controllare tanto l’animale dall’aria irosa e dai muscoli contratti, che spinge verso il basso, quanto quello dall’aria docile e serena, quasi lievitante verso l’alto. Il rilievo delle figure stacca appena dallo sfondo di un cielo senza colore, me è talvolta quello di Grecia, in certi momenti che precedono un improvviso e radicale cambiamento, con l’arrivo un buio fosco e insopportabile, carico di minaccia. Ho avuto la fortuna di stare sotto quel cielo troppo bianco, poi troppo azzurro e ancora troppo viola, un cielo che forse ancora per poco sarà lo stesso che vide Platone, che videro le ninfe gli dèi. Con questa descrizione dell’anima, l’antico filosofo ha cercato di rendere poeticamente le tre istanze che compongono l’anima umana.

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La psicologia della Gestalt, in tempi più recenti, sostiene che il pensiero umano tende sempre alla costruzione di forme definite. Non è possibile, per questa teoria, che il pensiero si realizzi al di fuori di una forma: tre punti disegnati nello spazio sono concepiti come punti di triangolo; una serie di lampadine che si accendono successivamente diventano per l’occhio umano e per la mente una luce che corre; otto tasti premuti a casaccio su di un pianoforte formano sempre, per chi ascolta, una melodia. Il mondo non è fatto di elementi isolati e sparsi; ma ogni cosa tende ad entrare in rapporto con che è accanto, ad unirsi in un insieme che non è solo percettivo, che opera una continua costruzione di forme; la forma è anche la modalità attraverso la quale la mente coglie le realtà alle quali poi l’uomo si rapporta. Accade così anche il bambino, il feto e persino per l’embrione, che già nel ventre della madre percepisce se stesso come una forma, o, meglio ancora, come un’unità composta più forme. Ho fin troppo spesso ripetuto che il narcisismo primario teorizzato dalla psicoanalisi freudiana è un’illusione; nessuno parte da una situazione di assoluta chiusura: il pupazzo che pende sulla culla, gli stessi volti del padre e della madre sono già, per il bambino, forme che ha dentro di sé; il mondo non gli regala nulla; soltanto fa sì che la percezione possa variare a seconda delle situazioni e delle strutture che lo circondano, permettendogli fin da subito di distendere il suo esserci in tante immagini che si riflettono sul sé e si proiettano fuori di sé. Certo, anche ciò che sta fuori modifica la pur piccola palpitante vita dell’embrione. Perciò l’arte dello scalco di cui parlava Platone è un inganno utile se lo si usa per orientarsi nel mondo, nei propri e altrui pensieri. L’inganno nuoce a chi pensi di poter realmente isolare le parti distinte dal tutto di cui fanno parte. Una Gestalt non è mai sola; è sempre rapporto con le altre, in continua evoluzione, talvolta simbioticamente, talvolta in antitesi. Le forme esistono e si debbono isolare proprio in quanto sono suscettibili di mu
tamento continuo. Le intuizioni di Rubin e Koffka sono utili se non parcellizzano il mondo in tanti agglomerati compatti di materiali, che ridurrebbero la realtà ad una monadologia leibniziana molto più povera perché priva di gran parte delle intuizioni del filosofo tedesco.

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Per queste ragioni, la decisione di suddividere la realtà dell’essere umano in organi e apparati, strutture e sottostrutture, se ha un’utilità di studio, comporta però il rischio di frantumare in schegge un complesso vivente le cui parti sono in costante e continua interazione. Inoltre accade spesso che l’operazione dello scaleo sia compiuta da un pessimo artigiano, con la conseguente distruzione di legamenti e connessioni e la consegna di un corpo smembrato nel quale non è più possibile leggere alcun significato organico; proprio perché quella storia che si era venuta costruendo tra tensioni ed opposizioni, rapporti interni ed esterni, scambi osmotici e funzioni interdipendenti è stata vanificata e dispersa.
Ogni corpo ha la sua storia, è parte della storia di ogni essere umano, realtà individuali fatte di piccole e grandi vicende, di organizzazioni che sono venute costruendosi nel tempo, che si sono modificate: i capelli, gli occhi, la pelle, l’apparato cardiocircolatorio, quello gastrico, e così via, tutto si è formato nel rapporto relazionale; ma ci sono anche messaggi che vengono da molto più lontano. Il percorso filogenetico è incominciato chissà quando e chissà dove, forse non ha avuto un inizio definito; noi siamo abituati a considerarlo come un filo che si svolge attraverso il tempo e arriva fino alle realtà individuali presenti, come un fiume che va verso la foce e nel suo cammino subisce l’interazione di tanti altri agenti e altri fiumi, che confluiscono e che defluiscono.

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L’inconscio sociale non nasce con l’embrione; ma è una struttura dinamicamente presente dentro e intorno a quelle prime poche cellule pulsanti, che già vogliono vivere; nelle quali sono presenti alcune caratteristiche che poi sbocceranno, come le «omeomerie» teorizzate dagli stoici o come quei dadini di carta pressata, frutto della genialità cinese, che immersi nell’acqua, si dilatano in ampi fiori, in interi giardini popolati di vita.
Non sono in grado di dare una risposta alle perplessità che sorgono di fronte al dubbio che tutto sia già pre-determinato; io non ci credo, la mia convinzione è un’altra, anche se non so provarla. Io penso che all’uomo sia data la possibilità in ogni momento di intervenire nella realizzazione del proprio destino: si può agire sulla persona come sul gruppo, sull’inconscio individuale e su quello sociale, sulle pulsioni e sulle fantasie. Certo non si deve temere lo scontro con la realtà di fatto, con il divenire che urge; bisogna avere il coraggio di revocare tutto in dubbio; inoltre, se si vuole essere scienziati, è importante avere la capacità di opporsi a quelle che sono ritenute le leggi del divenire cosiddetto naturale.
La lotta è sana, come è sana la vita, la lotta è malata, come può essere malata la vita.

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Gli studiosi della mente, richiamandosi, consapevolmente o non, a Platone, hanno voluto ricorrere alla tecnica dello scalco, applicandola anche alla struttura chiamata psiche. Non so quando i filosofi e gli psicologi abbiano incominciato ad operare distinzioni e sottodistinzioni nello studio dell’attività mentale; per consuetudine ci si rifà all’Ottocento per insultarlo e aggredirlo, ma anche per ritrovare in quel secolo alcune radici del nostro pensiero. Potremmo prendere in esame per . esempio l’opera di Herbart, il quale all’inizio dell’Ottocento ha parlato delle «masse rappresentative» che nella mente umana corrisponderebbero ad agglomerati di cellule organiche, dominate dal principio di attrazione e repulsione. Questo principio ha affascinato anche Schelling e molti fisici di allora: tutto verrebbe spiegato in base a questo strano meccanismo. Io ritengo queste considerazioni stupide e banali: non mi convince !’ipotesi che l’universo, la terra, la psiche umana, sarebbero tutti composti di una sostanza misteriosa, dicotomicamente strutturata, una parte della quale respingerebbe l’altra e che sarebbe caratterizzata poi da un’attrazione all’interno di ciascuna parte omogenea. Il pensiero sarebbe così costituito da fantasie e percezioni simili che, attraendosi, costruirebbero masse ideative, mentre quelle di natura opposta si respingerebbero tendendo all’agglomerazione con altre a loro omogenee. Questa concezione mi fa venire in mente la tela che Penelope tesseva di giorno per disfarla di notte; la regina di Itaca intendeva in questo modo ingannare i Proci, perché dovrebbe comportarsi così la psiche umana?
Per gli scienziati dell’Ottocento il procedimento del pensiero si svolgerebbe secondo rigide leggi organicistiche, molto più rigide della legge dell’amore alla quale obbediva Penelope nel tessere e disfare la trama della sua tela.

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Dal secolo scorso ad oggi, i filosofi e gli scienziati, hanno continuato a procedere come anatomisti della psiche; non limitandosi ad osservarla come fisiologi, ma accostandosi ad essa intenzionati a determinarne strutture autocentriche che, sebbene in rapporto tra loro, siano però isolabili e osservabili indipendentemente dal complesso psichico. Riconosco che, a questo punto, è un gesto un po’ vigliacco il mio di richiamarmi al «progetto» di Freud del 1896, in base al quale egli tentò di far corrispondere ciascuna situazione psichica ad una realtà neuronale; questo tentativo già fin troppo lo si è deriso e insultato; io vorrei soltanto, a questo proposito, far notare che Freud allora fu un coraggioso: saggiò il terreno in una direzione sconosciuta; sfruttando nel modo migliore le possibilità descrittive della scienza del suo tempo, e azzardando ipotesi interpretative stimolanti. Fu il primo ad ammettere che quella strada non era purtroppo praticabile e dovette subire le aggressioni vili dei soliti omuncoli dal sangue di rana; con nessuna offesa per le verdi ranocchie dei fossi, che Nietzsche prese ad esempio della nefandezza umana. Quel geniale «progetto» non portò tuttavia a nulla ma forse contribuì in modo determinante all’impostazione scientifica successiva.
I sommovimenti psichici debbono avere una loro corrispondenza neuronale e viceversa, proprio perché l’unità dell’essere umano è inscindibile: Freud, legato ad una scienza e una cultura oggettivistiche, dogmatiche e sperimentali, dovette ovviamente arrestarsi di fronte all’impossibilità di fornire prove pratiche delle sue intuizioni.

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La cosiddetta medicina psicosomatica ha ripreso questo argomento. Non ritengo adesso opportuno addentrarmi nelle polemiche intorno a questa o quella teorizzazione; io però so che oggi sono molti quelli che, per ignoranza o per pigrizia, preferiscono le soluzioni facili, e quindi leggono con delirante avidità trattati, più o meno divulgativi, che danno di ogni malattia cosiddetta organica una spiegazione che la farebbe dipendere da una situazione psichica precisa e determinabile. Donne e uomini assorbono acriticamente un miscuglio di verità e di improbabili congetture, trasmesse in contesti per lo più frivoli e si abbandonano ad un compiaciuto psicologismo, senza alcun fondamento.
Credo sia più utile rendersi consapevoli dello stato di ignoranza in cui, al momento attuale, ancora ci troviamo nei riguardi delle malattie organiche come di quelle psichiche. Sento presente anche in me la forza persuasiva del binomio organico-psichico, soprattutto nel lavoro clinico, nel quale mi trovo ad affrontare il disagio clamorosamente «organico» o sottilmente «psichico».
Mi stupisce persino che così spesso mi capiti di essere gratificato da risultati favorevoli, tanto nel campo del disturbo psichico quanto in quello più strettamente somatico. Tuttavia resto insoddisfatto; ho la certezza interiore che i meccanismi che muovono l’inconscio individuale e quello sociale non siano così semplici come la stessa esperienza farebbe supporre; c’è una realtà superiore, che io percepisco non come divina, bensì come forza malvagia, che struttura in parte tanto l’inconscio sociale quanto l’individuo.
Io vorrei cercare di arrivare a questa specie di primo motore da cui dipende anche la sofferenza umana. Forse questa è un’illusione.

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L’arte dello scalco è quella di suddividere correttamente le diverse strutture anatomiche; l’arte del fisiologo è quella di studiare nella loro specificità i vari apparati dell’organismo nella loro inestricabile ma evidente connessione vitale; la scienza psicologica a sua volta dovrebbe insegnarci ad osservare non solo l’evolversi della psiche, ma anche il suo articolarsi. Dalle prime teorizzazioni psicodinamiche fino alle moderne intuizioni della psicologia dell’Io la mente umana è sempre stata suddivisa in settori. Gli antichi avevano un’opinione piuttosto semplice, che si limitava a riconoscere come struttura del cervello umano alcune connessioni immediatamente evidenti. Solo molto più tardi la fisiologia seppe identificare una rete di terminazioni nervose connesse fra di loro. Il sistema nervoso oggi viene descritto come una struttura molto complessa e contorta, con una gerarchia interna di tipo bizantino: in alto la corteccia cerebrale, il basileus; e poi, scendendo, tutte le altre componenti, sempre meno importanti e meno differenziabili, per giungere infine a quello che viene chiamato sistema nervoso vegetativo. Proprio come nell’antica Bisanzio, ove spesso l’imperatore, pago di sonnecchiare sotto baldacchini dorati, non aveva alcun potere effettivo, così le strutture «superiori» del cervello sono spesso assolutamente determinate e condizionate da quelle considerate «inferiori».
Non saprei dire se sia giusto auspicare che il basileus si ribelli e si riappropri del suo potere, anche perché forse il suo potere risiede altrove: alle sue spalle c’è un’ombra che controlla tutto. Che cos’è mai quest’ombra? Dov’è situata?

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Quest’ombra è la persona; è il doppio della persona, un doppio che però è anche una relazione tra la persona e il suo doppio. Entrambi, la persona e il suo doppio, si richiamano ad una terza entità-ombra e così via. La persona è nel suo sé, ma è anche fuori di sé; la coscienza sembra vigile, ma l’inconscio l’avvolge, è alle sue spalle, in fondo a ciascun individuo, tutt’intorno. Inconscio individuale e inconscio sociale condizionano un Io che è sempre una persona. Non bisogna commettere l’errore di assegnare all’Io una funzione particolare, si rischierebbe di distruggere una realtà estremamente ricca, articolata e dinamica. L’Io si identifica con il me, ma va oltre me. Avrei potuto anche scegliere un altro pronome, magari un sostantivo o anche un ‘aggettivo, ma è così comodo il piccolo termine «Io». Riconosco che può ingenerare qualche confusione, ma forse altri termini ne ingenererebbero ancor di più. «Io» quindi, per me, sta ad indicare una persona, la persona, che non è soltanto circoscritta dalla sua pelle, ma è anche in continua relazione con ciò che è al di fuori di sé. Il fuori di sé penetra nel sé. L’Io è la concretezza del mio esistere.
Ho bisogno di parlare di «Io», altrimenti mi disperderei in un Io che è solo una funzione, oppure in un me che è autocentrico e solipsistico, o un sé anonimo; e ancora chissà quanti altri monosillabi che confonderebbero le idee più che aiutare la comprensione. Riconosco comunque che aver scelto «Io» induce ugualmente confusione; non è possibile infatti chiarirsi totalmente; ma bisogna comunque procedere senza troppi scrupoli.

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«Io» è la persona come punto di riferimento strutturale; non è soltanto questa persona, ma è la persona in rapporto con altre persone e con il mondo e anche in rapporto con se stessa. Nella sua ingenuità trovo questa definizione sufficientemente chiara ed utile. Quando la persona patisce un disagio di qualunque natura, è un «Io» che ne risente; non solo un «Io» cosiddetto individuale, ma anche un «Io» che è in relazione continua col sé e il fuori di sé. «Io» è un punto di riferimento che però deve trovare la sua compattezza, altrimenti corre il rischio della disgregazione e del marasma psichico e organico. Perché ho scelto il termine «Io» e non la parola «persona»? Perché quest’ultima espressione è per il momento ancora oscura e allo stesso tempo carica di troppa sacralità. Quando gli uomini diventeranno davvero persone, forse la funzione di un «Io» verrà meno.

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Al momento dunque la cosiddetta psicoanalisi cura l’Io, proprio come la medicina organica cura l’Io. Che differenza c’è, allora, tra una terapia psicologica e la medicina organicistica, che affronta il problema delle cellule malate? Forse il mio approccio al problema è stato fin qui scorretto; credo di non aver ancora sufficientemente chiaro il concetto di «Io»; oppure ho paura di applicare questo concetto, perché potrei non essere compreso e ancora peggio potrei non comprendere me stesso.
La distinzione tra psichico e fisico, come le vecchie distinzioni di anatomisti e fisiologi, era utile per assicurare il cammino scientifico ed ora questa confusione, che io sto nuovamente introducendo nella mia ricerca, rischia di intralciarlo. So che la montagna delle mie considerazioni forse partorirà solo un topolino; però voglio correre il rischio di parere ovvio nel mio tentativo di sfuggire alla banalizzazione dell’operazione dello scalco. Sono ambiguo e circospetto per due ragioni, alle quali ho forse già accennato: la prima è che non sono assolutamente certo della validità delle mie ipotesi: sento l’insufficienza della vecchia impostazione della psicosomatica, ma non sono ancora capace di riformularne una nuova; la seconda ragione è che dopo tanto congetturare temo di finire col ricadere nell’ambito di una semplice tautologia, espressa con un nebuloso concetto di «Io» indistinto.
Mi domando ancora se, piuttosto di lasciare tutto così sospeso, non farei meglio a proseguire sulla linea di chi indaga dividendo e separando i problemi e le funzioni, operando suddivisioni e delimitazioni di campi specifici. Eppure io credo che sia importante e doveroso, da parte mia, insistere nel porre l’accento sul concetto di unità dell’essere vivente, di proporre questo «Io» come centro di irradiazione e di condensazione.
Io sono «Io» che parlo sentendo la fatica di parlare, che ho sulle spalle il peso di una ricerca che, per mia scelta, non avrà mai termine; anche se potrebbe alla fine rivelarsi inutile.