63 – Maggio ‘90

maggio , 1990

Qualche autorevole voce si è levata ad esprimere la preoccupazione che le cosiddette «leghe» autonomiste rappresentino un pericolo all’unità nazionale, oltre che un insulto al passato patriottico del Risorgimento e della Resistenza!

Solo casualmente si può far notare che le stesse voci sottolineano il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza delle repubbliche baltiche dell’Unione Sovietica: fin troppo facile infatti è mettere in evidenza la non omogeneità dei due ordini di problemi; meno facile forse sarebbe sostenere la sostanziale uniformità della questione di principio.

I grandi temi dell’unione e della autonomia lacerano la storia dell’est e dell’ovest del mondo da sempre, e il federalismo sembra per il momento la soluzione ottimale, che si tratti di quello degli Stati Uniti d’America, o di quello, geograficamente ristretto, della Confederazione Elvetica. Chi parla di una Germania unita spesso omette di ricordare che una parte di quella stessa Germania è costituita in Repubblica Federale. Per limitarsi alla questione nazionale, sarebbe bene non dimenticare che esistono nella nostra Repubblica regioni «a statuto speciale».

Il fatto è che da noi le spinte autonomiste si sono subito squalificate per i loro contenuti reazionari: campanilismo e razzismo smaccatamente evidenti le hanno caratterizzate. Inoltre, per qualche non strana ragione, sono assenti dal panorama autonomistico vaste aree del Sud Italia, a quanto pare completamente identifica tesi con la cultura centralista del potere e del sotto potere: Bronte è lontana e tanto la Mafia siciliana quanto la ‘ndrangheta calabrese e la Camorra stanno saldamente arroccate attorno ad uno Stato che offre, tra gli altri, il vantaggio di battere una moneta facilmente convertibile.

D’altra parte, come sanno bene Occitani e Ladini, anche lo stato unitario può perpetrare i suoi piccoli genocidi senza dover presentare il conto a nessuno.

Si tranquillizzino gli autorevoli personaggi scesi in campo a difendere l’Unità d’Italia: nessuno ne mette davvero in discussione il principio, proprio allo stesso modo in cui nessuno lo ha mai fatto proprio. In cento cinquant’anni non è maturata una coscienza nazionale più di quanto !’idea non fosse già presente in chi si lamentava d’una «serva Italia, non donna di provincie, ma bordello».

L Italia, allo stesso tempo «espressione geografica» e idea nazionale, passata attraverso tutte le rinascite e tutte le decadenze, reggerà, e non per sola virtù, alle faide che vedono politica, economia e magistratura minarne la stessa ragion d’essere. Popolo di naviga tori, santi e poeti, !’italica gente conosce anche l’arte di convivere coi predatori che la governano, siano essi i piccoli feudatari, attori di un rapinoso e immediato potere, siano i gestori di quel Palazzo che presto sarà federale e transnazionale, veicolo europeo di una identica rapina.

A questo ci hanno ridotto secoli di rivoluzioni fallite e di criminalità impunita o addirittura premiata.

In questo quadro le «leghe» hanno la patetica inefficacia di borseggiatori da sacrestia.