63 – Maggio ‘90

maggio , 1990

Dalle due chiese di piazza del Popolo: S. Maria dei Miracoli e S. Maria in Montesanto, si diparte il Tridente Romano, formato dalle tre vie, del Corso, del Babuino e di Ripetta, da qualche tempo anche caratterizzato come uno dei cuori artistici della città. Questa edizione del Tridente cinque, che ha per argomento «L’Artista e lo Spazio» vede riunite, oltre alle dieci gallerie della zona, la Galleria Giulia, che ha sede nell’omonima via.
L’arte figurativa ha sempre avuto uno stretto rapporto, oltre che con la vista, con lo spazio. L’illusione della bidimensionalità, il trompe l’oeil e il volumetrico distendersi di oggetti chiamati «sculture», si dispongono nello spazio appropriandosene. Le facoltà percettive colgono questa presenza sensuale e talvolta lo spettatore si abbandona, mentre altre volte rifugge da quelle che gli sembrano aggressioni.
Bidimensionalità e tridimensionalità si richiamano l’una all’altra in un gioco di specchi indefinito e indefinibile. Ogni opera d’arte figurativa occupa e violenta uno spazio, perciò nei giochi, più o meno intelligenti ed efficaci, mostrati nei diversi luoghi di questa rassegna d’arte contemporanea, lo spazio è ovviamente strumentalizzato in funzione di presenze che sono comunque spaziali, rendendo così l’inganno palese. L’arte tende alla verità, però, come ben sapeva Platone, è anche mistificazione e truffa. In queste esibizioni noi abbiamo soprattutto riscontrato una enorme tendenza al kitsch: mucchi di paccottiglia mortifera, desolante ed amorfa si accumulano in installazioni e fotografie di installazioni, residui di tutta la schifezza di cui può compiacersi l’immaginario. In questo articolato deposito di inutilità senza significati abbiamo solo apprezzato la potenza creativa di Mario Ceroli che, con classica armonia e gusto del gioco, sa alludere alla pittura e alla scultura come possibilità narrative che si svolgono in uno spazio e in un tempo scelti e definiti.
Per dovere d’informazione diamo conto delle gallerie e degli artisti banalmente perdenti di fronte all’assunto proposto.
Hidetoshi Nagasawa allo Studio Arco d’Alibert; Fabio Mauri alla Galleria Anna D’Ascanio; Giuseppe Maraniello allo studio d’Arte Contemporanea Giuliana De Crescenzo; Michelangelo Pistoletto alla Galleria del Cortile; il già menzionato Mario Ceroli era ospitato dalla Galleria Editalia; Grazia Varisco, Carlo Lorenzetti e Guido Strazza esponevano insieme negli spazi della Galleria Giulia; Luca Maria Patella alla Galleria Il Millennio; Enzo Cucchi al Segno; Antonio Trotta alla Galleria Oddi Baglioni; Maurizio Mochetto alla Galleria Milena Ugolini. Un discorso a parte merita, invece, Sinisca allo Studio S Arte Contemporanea, che a nostro parere ha fallito nel progetto di allestimento tutto dedicato all’America, ma che ha trovato ampio riscatto collaborando a una operazione editoriale che ci ha particolarmente colpito: un volume, intitolato appunto: All’America delle edizioni La Bautta, composto a sei mani da Sinisca, Furio Colombo e Maria Luisa Spaziani. Il libro è di quelli pregiatissimi, con una tiratura limitata di 1.500 copie numerate e rilegate in brossura; arricchita da altri trecento ancor più preziosi esemplari, rilegati in tela impressionata in oro, tutti oggetti belli da vedere e da toccare, prima ancora che da leggere e studiare.
Noi questo libro ci siamo imposti di leggerlo e studiarlo anche se per far ciò abbiamo dovuto superare il fastidio procuratoci della pretenziosa presentazione di Maristella Lorch, mal scritta ed eccessivamente autocentrica.
Abbiamo molto apprezzato invece le qualità letterarie e poetiche di Maria Luisa Spaziani e Furio Colombo, capaci in poche pagine di dare il succo della comprensione di un mondo e di una civiltà.
La Spaziani, in Cantari, un tenero e delicato poemetto, contrappone un cantastorie siciliano, semi-acculturato e tenerissimo, ai versi intensi e drammatici di una schiava negra diventata una grande poetessa: Phillis Wheatley. Le semplici e sparute parole dell’uno hanno come contrappunto la robusta poeticità della seconda, che esplode, passando attraverso bagliori successivi, dalla sbalordita paura alla consapevolezza fortemente lirica.
Furio Colombo descrive i misteri di New York in un «saggio immaginario» in quattro capitoli: La città verticale, La città orizzontale, La città si muove e Le porte della città. Come si può evincere già dal titolo, soltanto un europeo profondamente radicato in una cultura europea può capire gli Stati Uniti; gli indigeni dal canto loro per lo più ne hanno una comprensione di sciocchi ed esitanti bambini. Forse gli statunitensi riescono ad intuire qualcosa dell’Europa, anche se mangiano spaghetti alle vongole bevendo cappuccino. Ne è una prova per tutte quell’arguta e stupenda analisi di Gershwin nel suo Un Americano a Parigi, così acuto ed anche autoironico. Colombo, come Eugène Sue, affonda lo sguardo e le mani in una New York imprevedibilmente prevista: nulla di retorico nelle sue parole, ma una grande capacità di cogliere atmosfere, ambienti, situazioni umane, anche quelle più disperate. Una intensa sensualità è presente, ma velata ed ammiccante: il mistero è sempre lì dietro l’angolo e propone la sua cifra inquietante, Colombo ne raccoglie lo stimolo, ma ne rispetta la grandezza. Le parole di M. Luisa Spaziani e di Furio Colombo trovano il loro opposto speculare nelle immagini di Sinisca che ci rendono le verticalità specchianti di New York in un incalzare ossessivo e trascinante verso abissi di depressione, che comunicano efficacemente una delle letture possibili di una città che si presenta come una parafrasi del mondo.