Vincitore di quattro Oscar, tra i quali quello per il miglior attore, il miglior film e la migliore regia, Rain Man è un tipico prodotto della decadenza culturale statunitense e, ci viene il sospetto, anche un sintomo della decadenza universale. Il film è indubbiamente stato confezionato da un gruppo di persone astute ed economicamente avvedute, che hanno saputo offrire al grosso pubblico un bibitone (il film dura più di due ore) coloratissimo, ma assolutamente insipido. Può anche darsi che
ci troviamo di fronte ad una delle tante produzioni elaborate attraverso il computer, poiché gli ingredienti che piacciono, divertono e commuovono questa nostra umanità, moralmente mediocre e mediocremente imbecille, ci sono tutti nelle giuste dosi, tanto che il caso psichiatrico presentato è, per così dire, fasullo in modo geniale. Parrebbe che coloro che hanno fornito le informazioni base alla macchina raccontafiabe conoscessero assai bene il quadro clinico complessivo e molte sfumature sintomatiche di quella terribile situazione psichica diagnosticata come autismo; ma che cosa hanno fatto? Hanno finto di credere che autistico sia colui che ripete sempre le stesse poche frasi, hanno poi estrapolato due gesti ed hanno costretto il povero Dustin Hoffman a presentare sempre lo stesso elementarissimo schema comportamentale. Già questo è un insulto a coloro che (non azzardiamo ipotesi eziiologiche) fin dai primi anni di età sono prigionieri di questa terribile sindrome. L’autodistruttività, gli stereotipi, il negativismo, la violenza, i rituali ossessivi imprigionano certamente chi patisce di questo disagio, ma di rado il comportamento di un autistico è quello del tipico «matto» di avanspettacolo.
Rain Man è soltanto un film comico, per di più abbastanza scadente, con un certo numero di gags (e alcune anche divertenti) monotonamente e, diremmo, autisticamente ripetute. Se chi, per caso, ha in cura qualcuno che soffre di questo male, riconosce la persona di cui si occupa in questo personaggio è meglio che cambi definitivamente mestiere, perché vuol dire che non è in grado di capire alcunché della psiche umana, sana o folle che sia e soprattutto non ne sa cogliere le sfumature.
Come se non bastasse, all’inizio del film, uno psichiatra da operetta spiega che alcuni di questi «malati» hanno le facoltà scisse, per cui, mentre per un verso sono chiusi al mondo, per un altro riescono a cogliere in modo sbalorditivo nessi logici ed hanno una memoria prodigiosa. Il protagonista del film è invece una vera macchietta poiché ha facoltà non solo eccezionali, ma addirittura sovrannaturali. Questa critica serrata all’aspetto per così dire clinico, l’abbiamo fatta anche per giustificare come, a nostro avviso, il film manchi oltre tutto l’obiettivo «artistico».
La trama è questa: un giovinotto, Charles, sta per fallire nella sua impresa commerciale; gli comunicano che il ricchissimo padre con il quale aveva rotto i rapporti da tempo è morto; spera nell’eredità e nella salvezza; ma scopre che tutto il patrimonio paterno è stato dato ad un istituto per malati di mente, in cui viene a sapere che è ricoverato un suo fratello autistico, di cui ignorava l’esistenza, di nome Raymond; lo rapisce nel tentativo di costringere la giustizia ad affidarglielo, ovviamente con tutti i soldi. Qui comincia la parte più consistente del film: il «matto» mette il fratello in una serie di situazioni umoristiche. Charles pensa poi di “sfruttarne le doti per andare a giocare a Las Vegas e ovviamente i due vincono molti quattrini. Lentamente però il cinico Charles si lega sinceramente al fratello, il quale pare che, circondato dall’affetto, incominci a recuperare qualche barlume di ragione. Questo è l’unico assunto che ci troverebbe assolutamente d’accordo, se non fosse immerso nello squallore del contesto. Ma la società spietata divide i due fratelli che, in un liso e lagrimevole finale, si danno l’addio sulla banchina di una stazione. Oltre che i due fratelli ha una parte una giovane fidanzatina di Charles, impersonata magistralmente da Valeria Golino. Anche sfavoriti dal doppiaggio stereotipo e impersonale, i due attori principali escono piuttosto male dall’impresa: Dustin Hoffman ha a sua disposizione il facile escamotage di un personaggio fisso in una sola espressione, con alcuni tic di comportamento e di suo non ha da aggiungere nulla; Tom Cruise esaspera il personaggio arido che si commuove lentamente, eccedendo nei due versanti. Il regista Levinson spreca effetti drammatici e comici, come in una doccia scozzese e condisce il tutto col dovuto pizzico di sesso e volgarità, che fanno cassetta.
La fotografia di J. Sale è patinatissima e la musica di H. Zimmer è soltanto brutta. La sceneggiatura, anch’essa ingiustamente premiata, è di Barry Morrow e Ronald Bass.
Archivio di aprile 1989
52 – Aprile ‘89
sabato, 1 aprile 198952 – Aprile ‘89
sabato, 1 aprile 1989Il concerto di sabato 8 aprile della stagione sinfonica dell’Accademia di S. Cecilia è stato a nostro parere molto ambiguo, crediamo a causa della sovrapposizione di tre interpreti di diversa bravura: l’eccellente Radu Lupu, la brava Victoria Schneider e il pessimo Christian Mandeal.
Certo, al disastro dell’orchestra non sappiamo quanto abbia contribuito la poca cura degli stessi professori.
L’Ouverture da Il Flauto Magico ci ha fatto drizzare i capelli in testa: era andata completamente perduta la magica atmosfera, misteriosa e sacrale che introduce a questa fiaba che è una parafrasi sublime della vicenda umana. All’inizio i timpani sono entrati macroscopicamente in ritardo, poi il fugato degli archi è risultato insopportabilmente sghembo; per tutto il brano, gli ingressi delle varie famiglie e dei singoli strumenti ha sempre lasciato a desiderare. Nel concerto n.1 in do maggiore, per pianoforte e orchestra di L. van Beethoven l’orchestra ha iniziato senza brio; i punti fermi del do, del re e del mi, nel primo tema, sono risultati di inaccettabile mollezza. Le cose sono cambiate, fortunatamente, fin dal primo intervallo di quarta (sol-do) che ha segnato l’ingresso del pianista Radu Lupu, pulito ed incisivo, capace anche di prendere con bel piglio, giustamente variandone i coloriti, le scale di per sé un po’ ripetitive. Il canto del pianoforte nel bellissimo Largo del secondo tempo si è mantenuto equilibratissimo, raffinato e struggente. Lupu ha poi affrontato il Rondò, un po’ ovvio e pacioccone (che abisso da quelli mozartiani!), cercando di ravvivarlo, anche ricorrendo ad una nota di ironica e arguta sufficienza, che non guastava.
Loneliness, per voce e orchestra, di Riccardo Malipiero, su poesie di John Donne, di un Anonimo contemporaneo e di Oscar Wilde, si compone di tre brani ricchi di intense atmosfere e costruiti con sicurissima solidità compositiva: belli gli intrecci tra gli strumenti, intensissimamente emotivi gli a solo; sapiente è l’uso della voce che risulta una presenza continua, ma non straripante. Nel primo brano, abbiamo apprezzato il bell’impasto timbrico tra archi e fiati, il gioco contrappuntistico e la morbida scaltrezza dei frammenti vocali; il secondo si caratterizzava, oltre che per alcuni intervalli vagamente jazzistici, per una serie di begli incontri armonici sui quali si posavano con delicatezza le brevi melodie che la voce quasi centellinava; nell’ultimo, dall’atmosfera misteriosa, la voce equilibrata della cantante illuminava la reiterazione di agglomerati sonori.
L’orchestra ha affrontato i tre brani finalmente con una certa efficacia e il soprano Victoria Schneider è stata quanto mai espressiva e precisa.
Il Don Juan di Richard Strauss, ben noto e sempre efficace, è stato reso con una esecuzione piuttosto anodina e scialba.
I Farfalloni non sono soliti menzionare i bis però, alla fine del primo tempo hanno assistito ad un gioiello interpretativo di così grande valore che desiderano spendervi almeno due parole. Radu Lupu ha suonato il semplicissimo e stupendo Träumerei dalle Kinderszenen di R. Schumann con una perfezione sbalorditiva: dal suo pianoforte uscivano note di dolcezza incomparabile, di una lievità eterea, non sdolcinata mai, che ha fatto trattenere a tutti il respiro.
52 – Aprile ‘89
sabato, 1 aprile 1989Contro l’aborto
La legge 194 non va difesa: rincresce che una simile affermazione suoni provocatoria in questo momento, ma ciò nonostante bisogna avere il coraggio di dire alle donne che l’interruzione di gravidanza non è un diritto che sia loro interesse tutelare. A dirla tutta non è un loro diritto. Abortire può essere una terribile necessità che l’imprevidenza legislativa ha presunto arbitrariamente di potere in qualche modo punire e contro questo arbitrio le donne si sono giustamente ribellate.
L’aborto però come misura generalizzata di profilassi eugenetica equivale allo sterminio di massa come strumento di risanamento economico e sociale.
Le donne sono state costrette da sempre ad abortire, perché da sempre gli uomini e le donne sono stati abituati ad uccidere per guadagnarsi il loro diritto di sopravvivere. Continuare ad accettare che sia tale principio alla base del sacro diritto della donna di accettare o rifiutare di essere madre consapevole di figli di cui siano garantite condizioni almeno accettabili di sopravvivenza vuol dire continuare ad accettare l’omicidio come mezzo di lotta politica. È una scelta che si può anche fare: molti l’hanno fatta. Purché sia una scelta consapevole!
Chi si rifiuta di fare la stessa scelta deve rifiutare anche l’aborto. Non voler più abortire è un sacrosanto diritto delle donne. Non accettare una maternità imposta è un diritto altrettanto sacro. La legge 194 non è stata capace di garantire nulla e nessuno: né la vita dei figli, né la salute delle donne. Ai medici obiettori si sono mischiati i cucchiai d’oro imbroglioni, e con diagnosi compiacenti la legge è stata violata impunemente. Lo stato e la chiesa hanno operato le loro scelte ed espresso le loro condanne senza curarsi però di offrire alternative.
Un poeta morto troppo presto provò a far sentire la sua voce in difesa della vita, ma l’eco di quella protesta oggi si è persa. Il coito è un problema politico (se non si vuole accettare che sia un problema religioso): gli uomini e le donne debbono sapere che la sessualità può essere agita solo responsabilmente: nessuno può «mettere incinta» o «ritrovarsi incinta» per sbaglio o per caso. Là dove non ci sia l’accettazione della castità, la sessualità ha mille modi di esprimersi; ma nessuno può commettere l’errore di procreare perché ha confuso il suo legittimo desiderio sessuale con un gesto che ha ben altro significato e portata come la procreazione di un altro essere umano.
Se ciò è avvenuto, i diritti di un embrione sono gli stessi di chi lo ha generato.
Insomma ancor oggi è vero che «Non si possono vedere i segni di una condizione sociale e politica nell’aborto (o nella nascita di nuovi figli) senza vedere gli stessi segni anche nel suo immediato precedente, anzi, ‘nella sua causa’, cioè nel coito». (P. P. Pasolini)
52 – Aprile ‘89
sabato, 1 aprile 1989Il pittore e ceramista spagnolo: Joan Mirò (1893-1983) ha acquistato nel nostro secolo una certa fama, pur essendo stato un artista sempre alla retroguardia. La sua produzione è ovvia, scontata, banale e, spesso, volgare, con qualche trovatina qua e là del tutto priva di interesse, che manca quasi sempre di fantasia e di coraggio. Subito dopo i primi passi post-impressionisti, caratterizzati anche questi da un disegno sciatto e un simbolismo inefficace, il suo è stato uno stupido cubismo d’accatto o un fauvismo per niente fauve.
Quello che soprattutto manca di nerbo nella successiva pittura di Mirò è proprio il segno: vermiciattoli mollicci, svirgolature inerti, ghirigori che non vanno da nessuna parte come si vede già a partire dall’insulso Carnevale d’Arlecchino del 1924.
L’arte di tutta la sua vita non portò Mirò da nessuna parte: sempre brancolante in modo ambiguo tra una tecnica e l’altra (collages, masoniti, ceramiche, etc.), e padrone di nessuna.
Come al solito, quando non si capisce niente, si tira fuori l’inconscio. La nostra personale esperienza ci ha ormai messo sull’avviso e troviamo di questo fatto ogni volta nuove conferme: quanto più gli artisti di cui si parla si esprimono con linguaggi narcisistici ed inefficaci, tanto più critica e pubblico fanno ricorso alle giustificazioni che attingono a una supposta realtà inconscia. L’inconscio di Mirò è ovviamente presente, ma in questo caso bisognerebbe avere l’onestà di ammettere che si tratta di una presenza insignificante. Questa mostra organizzata all’ Accademia Spagnola di Roma, che resterà aperta fino al 4 giugno, porta il titolo I Mirò di Mirò perché è costituita di opere: oli, disegni e ceramiche, per la maggior parte inedite, che il pittore conservò e che sono per lo più non firmate e coprono un arco di tempo che coincide grosso modo con gli ultimi vent’anni di vita del loro autore (ma ben poche sono datate). Proprio in questa sede balza evidente come al segno di Mirò manchino forza e luce, come non sappia indicare e neppure accennare alcunché; paiono succedersi solo piccoli e svogliati fogli d’album, ripieni di scarabocchi infantili. Le linee perdono ogni tentativo di dirigersi da qualche parte, si frammentano, si complicano di interpunzioni, asterischi, iati; e i colori si smarriscono, circoscritti da un nero opprimente per la sua insistenza, opprime restano sospesi come macchie slabbrate; e del bambino, ogni tanto, si vede lo sforzo di ricordare e riprodurre qualcosa che davvero ha visto, ma che né il cervello né la mano riescono a restituire. Mirò pare abbia dichiarato a più riprese di preferire l’indeterminato, l’incompiuto e l’anonimato, ma questo non basta a nostro avviso a giustificare il guazzabuglio di questa mostra, che non segue alcun criterio, né artistico, né cronologico e neppure filologico. Il visitatore ha l’impressione di rivedete sempre la stessa opera ed esce con una gran confusione in testa. Un’esposizione di opere d’arte non può essere affrontata col criterio del bazar, bisogna che chi la cura, pur nel rispetto massimo dello spirito dell’artista, suggerisca qualcosa e magari inviti alla discussione. Comunque è pur sempre meglio un pittore tradito che affossato come questo Mirò.
52 – Aprile ‘89
sabato, 1 aprile 1989«Leggendo le riviste psicoanalitiche internazionali degli ultimi venti anni, sempre più frequentemente si trova il termine Sé. E mentre sulla concezione strutturale della mente, che fa riferimento alle tre istanze psichiche Es, Io, Super-Io, vi è un relativo accordo fra le varie scuole, per lo meno sul piano lessicale, la stessa cosa non si può dire per il Sé.
Vi sono infatti scuole psicoanalitiche che considerano il Sé una struttura della mente, al pari delle altre istanze psichiche, scuole che utilizzano questo termine per designare la totalità bio-psichica della persona o infine per sottolineare la dimensione soggettiva dell’esperienza, evitando di dame una definizione.» Così dice M. Ammanniti nell’introduzione al volume, La nascita del Sé (Laterza, Bari, 1989, pagg. 205, Lit. 28.000).
A parte il fatto che nei confronti di Io, Es, Super-Io, nelle varie scuole psicodinamiche non esiste alcun accordo, neppure sul piano lessicale, è vero che la parolina Sé è usata da buona parte degli studiosi di psicologia e psicoanalisi, e ora persino dagli psico-filosofi (genìa pericolosissima di individui che, in genere, non conoscono né la psicologia né la filosofia) con criteri confusi e assolutamente arbitrari. Tanto che talora ci siamo domandati se non sarebbe più utile sbarazzarsene definitivamente. Perché aggiungere confusione dove ce n’è già tanta? Però, per un altro verso, la comparsa del concetto di Sé, ha in qualche modo stimolato gli studiosi della psiche a tentare di liberare l’essere umano da una frammentazione inverosimile in cui istanze, pulsioni, sovra-istanze e sottoistanze lo avevano, almeno nei libri, ridotto.
I saggi raccolti nel volume in oggetto sono divisi in quattro gruppi: Il Sé nella teoria clinica, Le radici biologiche del Sé, Il sé nello sviluppo infantile e Il sé nel processo adolescenziale.
La scelta è stata operata con estrema cura ed intelligenza: in ognuno dei brevi saggi vi sono spunti di riflessione quanto mai stimolanti, anche perché le varie opinioni messe a confronto servono al lettore per farsi una sua personale concezione di questo «Sé», che si aggiungerà alle altre, senza coincidervi e aumentando quindi la confusione, però la ricerca, come è noto, si nutre anche delle ambiguità e delle imprecisioni. A nostro personale giudizio, ottimo è il breve saggio introduttivo del curatore, sintetico e lucido, utilissimo per la lettura dei brani successivi. Il più stimolante contributo, per noi, è quello di Daniel Stern, autore anche del bel libro pubblicato nell’87, nella traduzione italiana, da Bollati-Boringhieri col titolo Il mondo interpersonale del bambino, il quale, in poche righe, qui, dimostra, anche attraverso il resoconto di elementari esperimenti, come il bambino acquisisca una unità conoscitiva ed emotiva precocissima, che si può addirittura far risalire alla vita intrauterina. Certo, alcuni biologismi troppo meccanici tolgono nerbo alle intuizioni dello statunitense e per di più l’ombra malefica delle aride, meccanicistiche, piccoloborghesi teorie winnicottiane gli tolgono molto coraggio; però, con estrema semplicità e buon senso, riesce a mettere in ridicolo il concetto di narcisismo primario di Freud, il bambino inventato da Piaget o la mamma kleiniana, grottescamente spaccata in due, con una mammella buona da una parte e una cattiva dall’altra.
52 – Aprile ‘89
sabato, 1 aprile 1989Il ristorante Paris in piazza S. Calisto è abbastanza noto in Trastevere e gode anche di un certo prestigio malgrado il traffico che assedia, d’estate, i tavoli all’aperto e la convenzionalità folcloristica delle due sale sempre troppo affollate. La cucina vi viene fatta all’insegna del «tipico romanesco».
Qualche sera fa, i due Farfalloni, accompagnati da alcuni amici disposti a correre con loro l’avventura di un’uscita «di servizio», hanno lì vissuto una bizzarra e tragica avventura. Gli antichi teorici dei «generi» teatrali affermavano infatti che una caratteristica della tragedia deve essere quella di incominciare bene e finire male, ma male che peggio non si può! Così ci accadde di trovarci nel bel mezzo di una vicenda il cui sviluppo sarebbe stato degno di una tragedia neoclassica. Il prologo della serata fu invero gradevole e leggiadro: alicette piccanti in olio d’oliva, giustamente aggressive e con buon equilibrio tra olio, aceto ed aglio, arzilla bollita di delicata fragranza, bresaola e carne secca morbide e umide, una minestra d’arzilla saporita, profumata, dal ricco brodo e con una buona pasta casalinga; il tutto innaffiato da un’ottima bottiglia di Cervaro, Castello della sala 1985, un bianco di barrique, dal bel colore biondo oro, armonico, muschiato e ben costruito. Ma con l’arrivo in tavola degli agnolotti al ragù, comparvero in cielo le prime nuvole: pasta sottile ma spenta, un sopportabile ripieno, con un ragù però decisamente più lento del consentito; lo stesso potrebbe dirsi dei ravioli al burro e salvia, con la differenza che anziché acquosi risultavano unti di un burro troppo «nocciolato»; peggiori decisamente, in ogni caso, i tagliolini, sia quelli alle vongole, la cui pasta asciutta appariva una massa compatta e pesante, sia quelli alla crema di porcini, nei quali la panna avviliva e disperdeva il ricordo dei funghi; per eccesso di sventura la seconda bottiglia dello stesso Cervaro, per infortuni di cantina, era rovinata da un sentore di madera e da un sapore troppo acido. Tutto precipitava con l’arrivo dei secondi: un disgustoso ed unto fritto vegetale che ad ogni boccone sprizzava schizzi di olio maleodorante, tanto che non si distingueva nemmeno il sapore delle verdure; una piccatina al limone acida e scialba; straccetti alla rughetta che avevano la consistenza di presine cadute per sbaglio nella padella, scaloppine al porto di una caramellosa viscidità e il cui vino non sfumato mal si amalgamava con la fecola addensante; persino la coda alla vaccinara riusciva ad essere un piatto sbiadito. Il rosso Tignanello del 1982 ormai stanco e polveroso serbava solo più poche tracce dell’antico meraviglioso profumo. La mousse al cioccolato, la crème brulée, la ricotta fritta e la zuppa inglese furono i pastrocchi infantili coi quali si compì la tragedia. Fuori scena, ci racconsolò appena un minuscolo bicchierozzo, quasi una lacrima, di splendida Malvasia di Lipari, trionfante nel suo primaverile profumo di rose.
Il servizio fu gentile, pur nella confusione dell’insieme, e il prezzo mantenuto nei limiti di una sostenuta medietà trasteverina.
52 – Aprile ‘89
sabato, 1 aprile 1989I 7 Re di Roma è il titolo di una commedia musicale, col testo di Luigi Magni, le musiche di Nicola Piovani e la debordante interpretazione di Gigi Proietti, messa in scena il tredici febbraio scorso al Teatro Sistina, dove sarà replicata ancora a lungo, come è consuetudine delle produzioni firmate «Garinei & Giovannini».
Come dice il titolo, si racconta la storia di Roma dalla fondazione all’avvento dell’era repubblicana. Tutte le commedie musicali hanno come loro caratteristica di essere un po’ un minestrone: musiche di ogni genere, canto, danza, scenette comiche e i famigerati «momenti sentimentali» ed anche un intento moralistico. È inutile piangere, lamentando che queste figlie dell’operetta abbiano oggi perso in grazia, buon gusto e si rivestano in genere di musiche scadenti. È inutile anche perché ci è accaduto di assistere a commedie italiane di questo genere, di ottima fattura, argute, sentimentali senza essere sdolcinate, con interpreti validissimi e musiche eccellenti.
Elogi che non si possono fare a questo spettacolo del Sistina. Analizziamo, anche se fugacemente, i vari elementi di cui risulta composto: il copione si sviluppa su due piani, assolutamente non in accordo tra loro: da un lato v’è infatti la storia dei Sette Re, raccontata in modo sciatto, senza tensione drammatica. con un affastellarsi di scene sgangherate, degne del peggior teatro leggero; dall’altro, l’autore ogni tanto sale in cattedra e propina piccole lezioni sui problemi della storiografia romana, con accenni, semi-eruditi (anche non sbagliati) che tentano di demitizzare le favolette raccontate sui libri delle elementari. Con il risultato che le favolette si inflaccidiscono e i momenti saccenti danno fastidio. Le battute umoristiche sono quasi tutte scontate e il velleitarismo moralizzatore è di un qualunquismo privo di arguzia, demagogicamente volto a strappare l’applauso. Ciò che soprattutto però ci ha irritato di questo testo è stata la lingua usata: non ci aspettavamo certo l’arcaico splendore del Belli, ma quel brutto romanesco da portieria ministeriale, laido, tronfio e allo stesso tempo debolissimo, ci ha nauseato. Non sarebbe male che in un teatrone che richiama tanto pubblico come questo si cercasse di tenere viva anche una tradizione linguistica popolare, come quella «romanesca», purché fosse genuina e,a costo di apparire arcaicizzanti, conservasse la bella struttura del dialetto di questa città e tramandasse molti modi di dire, che è ancora possibile apprezzare, malgrado la pigrizia dilagante e il cattivo gusto tendano a lasciarli cadere.
Le musiche di Nicola Piovani, nonostante gli apporti di rock e di jazz, rugantineggiano in modo spudorato; l’orchestrazione non è scorretta, ma le melodie sono troppo simili le une alle altre e cadenzano sempre con quello stesso modulo lazial-campano; a tutto questo si aggiunge la pessima inserzione delle musiche dal vivo sulla banda registrata. Le coreografie di Micha Van Hoecke riprendono gli stereotipi dell’avanspettacolo di sempre: con pochi passi di danza mischIati a gesti e sberleffi sdolcinati o pesantemente allusivi. Le scene di Uberto Bertacca sono ridotte ad una scatola semicircolare pratica ed economica e concedono al pubblico due «effetti» a sorpresa, costituiti da un dorato carro del sole e da una prora di nave troiana. I costumi, fantasiosi per alcuni personaggi, scontati per altri, sono di Lucia Mirisola.
Gli interpreti, nel loro complesso, non hanno dimostrato né doti canore né capacità recitative. Nel canto le intonazioni erano imprecise, le battute erano dette in modo inespressivo. Abbastanza bravo, sebbene un po’ troppo grigiastro e querulo, è stato Gianni Bonagura nel controruolo del dio Giano. Molto deludente infine ci è parsa la prestazione di Gigi Proietti: si intravede che è un attore che potrebbe fare del corpo e della voce quello che vuole, ma qui ha solo scelto di compiacere il grosso pubblico, ricorrendo ai più facili effettacci di mestiere: non calibrava i gesti, che risultavano troppo pesanti o non erano incisivi; non abbiamo ritrovato nessuna delle raffinatezze che gli erano abituali una volta; il suo vocione tuonava sgraziatamente in cattivo romanesco, scaraventato sul pubblico da una pessima e fastidiosissima amplificazione.
La regia di Pietro Garinei non toglieva e non aggiungeva niente a nulla e a nessuno.
Un luogo comune molto ripetuto sostiene che sia difficile dare un giudizio attendibile sui personaggi e i fatti della storia più recente, perché il coinvolgimento in quegli avvenimenti pregiudica la possibilità di essere obiettivi. Stranamente, e ciò dimostra che historia non è magistra vitae, lungo i secoli, artisti e scrittori hanno parlato in modo efficace, sufficientemente obiettivo, della loro epoca, mentre, a distanza di millenni, sono state dette le idiozie più gigantesche su figure ed avvenimenti remoti. Certamente, tutti coloro che hanno un impegno morale, sociale o politico, quando si confrontano con uomini o idee del loro presente o del passato , mettono molto di sé. Non è vero che i fatti più vicini temporalmente siano più scottanti di quelli più lontani, forse perché ognuno riferisce sempre tutto a sé, tanto che si vive, emotivamente, in un eterno presente. Chi lotta per la libertà di pensiero si può commuovere quanto Platone sulla figura di Socrate, certo più di quanto non sia stato capace di commuoversi Senofonte, che pure fu loro contemporaneo. Perciò noi abbiamo assistito alla rappresentazione di Stalin dell’autore cileno Gastòn Salvatore, messo in scena al Delle Arti dal Teatro di Sardegna, senza andare alla ricerca dello Stalin vero o falso e senza voler mettere in discussione la legittimità di trattare un argomento così «scottante». Stalin, per noi, è stato un tiranno; però il suo comportamento, talvolta palesemente delirante, non ci è parso mai stupido. La sua figura non può non suscitare emozioni e a ciò contribuiscono anche i molti inquietanti ed oscuri aspetti della sua biografia: dalla vita in seminario alla sua ambiguità sessuale; dai suoi gesti demagogici ed astuti al suo bizantinismo misto a rozzezza nella politica interna ed estera; dall’alternarsi di ottusità e genialità in economia alle sue ingenuità in materia di arte e di cultura e chissà quante altre cose ancora. Salvatore ha costruito un testo di grande efficacia drammatica: sullo sfondo degli avvenimenti dell’ultimo periodo di vita del dittatore, riferiti con la scarna e schematica semplicità di un libro di scuola, il passato dell’uomo riempie la scena. A resuscitarlo Stalin chiama nella sua dacia il vecchio e famoso attore ebreo Icik Sager, letteralmente prelevato dal teatro in cui stava recitando il Re Lear di Shakespeare, i cui panni ancora veste, quando si ritrova alla presenza del terribile «capo». Usando lo stratagemma di parafrasare il dialogo tra Re Lear e il matto i due uomini, per giorni e giorni, si smascherano e si accusano reciprocamente scambiandosi di tanto in tanto il ruolo di «voce della verità». Entrambi escono con le ossa spezzate: il dittatore con uno dei suoi attacchi cardiaci, tragicamente premonitore e l’attore distrutto dalla notizia che il figlio è stato ucciso, mentre si trovava in carcere, accusato di complotto sionista anti-sovietico. Motivi di riflessione lo spettacolo ne dà molti: la verità dell’arte e la falsità del potere; la disperata volontà di far sì che il delitto non sia delitto; la giustificazione della paura e il significato di essa. Re Lear e Stalin sono uguali e opposti: il primo poeticamente disperato non vuole il potere, il secondo crudele e spietato non sa bene cosa il potere sia, ma sa che per lui è un dovere.
Lo spettatore poi ancora si perde con i due personaggi nella nebbia dei ricordi: in fondo ai quali ciascuno ritrova un attore e, un dittatore uguali a quelli che ora vede sulla scena. I due interpreti sono stati ottimi: si contrapponevano senza sopraffarsi.
Il giovane Luigi Mezzanotte nei panni di Sager-Lear ha saputo esprimere con grandissima efficacia l’istrionismo che si trasforma in dolore, paura, disperazione e rassegnazione. Raf Vallone è stato uno Stalin eccezionale: un carattere e una figura credibili, dai gesti e dalle intonazioni sempre ricchi e appropriati, ora trasognato, tenero e distratto; poi sapeva irrigidirsi in una durezza quasi incomprensibile, lasciando aleggiare su di sé perennemente il potere della vita e della morte; lo stesso attore ha curato con sapienza la regia. La scena, giustamente opprimente, era di Alessandro Chiti e così i costumi.
Psicoanalisi contro n. 52 – Comare Coletta
sabato, 1 aprile 1989Gli antichi romani, pragmatici e un po’ ottusi, che passeggiavano nel foro di Cesare, ripetevano nella loro lingua la vecchia frase dell’Ecclesiaste: Nihil sub sole novum. Il sole gira, riscalda, tramonta e risorge. Ogni tramonto è anche un’alba: se il sole sapesse questo impazzirebbe, perché non riuscirebbe più a capire se la sua posizione è quella del tramonto, del mezzodì o del pomeriggio; per fortuna non lo sa e prosegue il suo giro imperterrito; così che i romani, con il loro pragmatismo un po’ ottuso, scaldandosi la schiena, appoggiata ad una colonna, potevano rassicurarsi con il pensiero che nulla di quanto avveniva era nuovo per il sole. Dopo quegli antichi padri togati la frase è stata per secoli ripetuta dai loro posteri, annoiati.
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L’umanità è in buona parte composta da individui eternamente delusi dal fatto che non accada mai nulla di nuovo. Persone sciocche e vuote, che non sanno cogliere la continua diversità di un mondo che esplode ad ogni istante, di un sole che è, contemporaneamente, splendente allo zenith e ricco di sfumature nella luce del crepuscolo, bello in una simultaneità di aurore e tramonti, capace di non impazzire, in questa eternità che cambia ma che anche resta immutabile. É vero che tutto si ripete sempre uguale? Io penso di no. Ci sono coloro, che quando leggono un libro o guardano un quadro, dicono con sufficienza: «interessante!». Costoro sono in genere imbecilli che con un aggettivo coprono la loro profonda incomprensione. L’esclamazione nasconde infatti l’incapacità di avere il coraggio di meravigliarsi davvero, quando qualcosa di nuovo accade. C’è una figura del vecchio presepio piemontese detta il Gelindo, che esprime invece con estrema efficacia poetica quello che deve e può essere il giusto sentimento di meravigliato stupore di fronte ad un evento, che abbia in sé qualcosa dì veramente nuovo, come quello della Natività. I bambini scherzano sull’espressione attonita di Gelindo, ma io penso che avesse ragione un vecchio frate, che ammoniva: «Quello ha veramente capito che una cosa straordinaria è avvenuta in questa notte; così grande che non c’è uomo che non rimanga a bocca aperta nel sentirsela annunziare!» Non la spocchia sufficiente degli scettici, ma l’entusiasmo di chi sa ammettere la propria commozione è la reazione adeguata alle manifestazioni dell’arte, della poesia, della scienza e della fede.
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Per un verso è vero che accadono sempre le stesse cose. Bruto, per invidia e per coraggio, tornerà ad uccidere Cesare, il quale, tiranno e padre addolorato, tornerà a domandargli il perché. Federico Nietzsche diventerà pazzo a causa della sifilide, ma ancora di più perché troverà Torino troppo bella e troppo impenetrabile, tanto che gli verrà voglia di abbracciare un cavallo frustato da un padrone crudele. Nietzsche non poteva che impazzire, lui che aveva teorizzato l’eterno ritorno per cui tutto ritorna immutabile: Nihil sub sole novum.
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Gli esseri umani si sono sempre posti le stesse domande, ma nessuno ha mai posto a se stesso e, agli altri la stessa domanda. Quante domande gli uomini si pongono? Tantissime, ogni giorno ed ogni sera, mentre il sole rotola intorno a loro. E’ una ingenua leggenda modernista quella per cui sarebbe la terra a muoversi intorno ad un sole immobile. Sono certo che la terra è ben ferma, rispetto ad un sole che le ruota vorticosamente intorno. Bisogna credere alla Bibbia che ci racconta che Giosuè fermò il sole nel suo moto. I moderni astronomi sono dei poveri illusi!
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Una domanda mi si annida in testa e nel cuore, una domanda vecchia e risaputa, persino un poco sciocca. La domanda è questa: dove si annida il brutto? È una domanda vecchia e nuova perché da sempre l’umanità si rinnova. Filosofi, politici, scienziati, preti e artisti delle retro-avanguardie sostengono che la domanda non è più alla moda e che solo le questioni alla moda vanno discusse.
Io non sono alla moda, non so esserlo e forse non voglio esserlo e quindi, a costo di essere davvero alla moda mi pongo la domanda: dove si annida il brutto? Dove si nasconde il male? Come al solito, la mia metodologia fa acqua da tutte le parti; la mia etica è sgangherata, per cui senza ragione plausibile ho mescolato insieme i concetti di brutto e di male.
Per me questa unione è inevitabile, persino ovvia. I due concetti di male e di brutto sono per me sovrapponibili. Questo è vero?
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Quali possono essere le conseguenze di una simile affermazione, se presa per buona? Cercherò di spiegare, in parte, le ragioni che mi spingono verso questo atteggiamento.
Il male, secondo me, nessun uomo lo vuole veramente ritrovare in sé, né vorrebbe avere a che farci. Già lo sosteneva Socrate ed io l’ho sempre creduto, con fermezza e convinzione. Coloro che adorano il male hanno semplicemente sbagliato etichetta: hanno messo sul vaso del male l’etichetta del bene e questo è certo un grave errore. Sostengono il valore di un’etichetta e non si curano di verificare il contenuto.
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Nessun uomo persegue, consapevolmente, il male, perché nessuno è sorto dal male.
A questa affermazione si può contrapporre che ogni uomo nasce dal male. Le due affermazioni hanno in linea di principio, almeno all’apparenza, la stessa validità.
Io credo a quello che vado affermando e penso di essere una persona intelligente, per cui mi arrogo il diritto di far partire le mie successive considerazioni dall’affermazione che il bene è l’origine dell’uomo; perché l’origine sta in Dio, in Eros, nell’Amore.
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Rimane il problema di dare giustificazione all’insorgere del male. Io credo che sia nato dalla negazione di questi tre princìpi. Non andiamo oltre. Il demonio siede su di un trono dorato, sotto un ricco baldacchino, ma lo stesso diavolo non ha il coraggio di essere nudo. I pittori, che, quando sono veri artisti, sono anche buoni, hanno cercato di salvarlo, esponendolo nudo, con le natiche tonde e i pettorali possenti, nelle loro rappresentazioni; in realtà egli è coperto da una lunga cappa grigia, perché preferisce non vedersi nudo: è casto e pudico. Solo Dio non ha paura dell’amore, né del proprio e altrui corpo.
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L’uomo dunque è nato nel bene; ma quando prova a pronunziarlo si smarrisce. Eppure sente dentro di sé che questa è l’unica sua possibilità di esistere. Il male è ciò che si contrappone al bene, per questo l’uomo non può desiderarlo. Così è per il brutto; se è veramente tale non può essere desiderato dall’uomo. Queste sembrano soltanto frasi fatte, filosofia spicciola; ma sono terribilmente vere, e per capirne i significati possibili bisogna sapere andare oltre. Il brutto è una presenza costante, benché rifiutata, come è giusto; eppure viene realizzato allo stesso modo in cui viene operato il male, che ci sopraffà e ci vince.
Da tanti secoli si dice che solo gli artisti sappiano parlare del bello e del brutto; mentre noi non riusciamo più neppure a percepirli con chiarezza.
Sarebbe importante saper rifuggire da ciò che è brutto ed avvicinarsi a ciò che è bello.
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I lettori più accorti avranno notato come, inavvertitamente e forse subdolamente, io sia passato da un discorso in cui contrapponevo il bene al male, alla contrapposizione del bello e del brutto. Il mio tentativo è forse quello di condizionare, come uno sciocco psicologo ingenuamente comportamentista; ma, essendo sicuro di essere scoperto, ho preferito esplicitarlo a costo di perdere un po’ della mia credibilità. Prima ho detto che l’uomo nasce dal bene, poi ho detto che bene e male, bello e brutto si sovrappongono. Mi domando per quanto ancora dovrò andare avanti per affermazioni perentorie e indimostrabili. lo ritengo però che si possa dimostrare, perché è immediatamente evidente, che l’uomo non desidera il brutto e ricerca il bello.
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L’arte vuole esprimere, comunicare e costruire il bello. Come può quindi parlare del brutto e del male senza farlo attraverso opere che siano brutte o cattive? Sono gli interrogativi che ci fanno ripensare alle stesse cose da sempre, eternamente riproposti sotto lo stesso sole. Quando un musicista nella sua opera vuole segnalare la presenza di un personaggio «brutto» e cattivo deve forse scrivere una musica brutta? Che costringa chi ascolta ad inorridire? Se così facesse, non esprimerebbe né il brutto né il male, ma si esprimerebbe male; poiché anche la peggiore delle prerogative umane ha bisogno dell’arte migliore per essere espressa adeguatamente. L’arte quindi si esprime solo attraverso il bello e può rievocare il brutto con quello che non dice; ciò è possibile solo se chi fruisce del linguaggio dell’opera d’arte ha orecchie per intendere.
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L’arte ha sempre parlato della follia: il teatro, la letteratura, l’arte figurativa hanno tentato spesso di rappresentare i folli e lo ha tentato persino la musica (talvolta con l’aiuto di libretti come quello della Lucia di Lammermoor, con il divagare trasognato e disperante di una melodia vocale in bilico sull’impressionante rito sonoro degli strumenti). Ci sono a mio giudizio due modi fondamentali con cui l’arte tenta di parlare della follia o di descriverla. Il primo è un modo legato all’inganno e alla falsa coscienza con cui alcuni grandi artisti riescono a trasformare la rappresentazione della follia in una stupenda rappresentazione della disperazione umana e del disorientamento; nel tentativo di dire una verità che sta oltre la realtà quotidiana; ma questa non è follia.
Filottete non è folle, né lo è Ofelia, né Re Lear; non c’é follia negli occhi del Van Gogh degli autoritratti e non lo è neppure la disperata comare Coletta di palazzeschiana memoria che «saltella e balletta».
Tutti questi sono personaggi che appartengono ad un mondo ricco emotivamente, che l’artista rappresenta con efficacia e poesia.
L’inconscio sociale tende però trappole continue agli artisti, per cui costoro si compiacciono dell’esaltazione dei tratti di follia di alcune loro creature. Su questi prodotti dell’arte talora si accaniscono come sciacalli psicologi, psichiatri e psicoanalisti «rivoluzionari».
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Artisti e antipsichiatri hanno spesso congiurato nell’esaltazione comune della follia, indicata come segnale di libertà assoluta, di spontaneità creativa, di poesia senza condizionamenti, attribuendo al matto comportamenti che la vacuità borghese condanna, ma si compiace di ritrovare come curiosità negli altri, che ha emarginato e segnato come sconfitti. Tanto sconfitti che sono diventati cattivi e stupidi, come i borghesi volevano che fossero.
Del resto oggi tutte le società sono per gran parte cattive e stupide! Così è potuto avvenire che gli artisti siano stati traviati dagli assassini della bellezza in vesti antipsichiatriche ed abbiano contribuito all’invenzione di esempi di follia retorica e funzionale agli interessi della prevaricazione e dell’ignoranza.
Svilendo così la meravigliosa prerogativa dell’arte, di inventare fantasticamente la verità.
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C’è nell’arte la follia poetica e trasfigurata di comare Coletta, che è indice di salute e di poesia, così come la descrive il poeta; e c’è la follia di quello che comare Coletta potrebbe diventare, nella realtà, abbandonata a se stessa, piena di una cattiveria nella quale nessun artista, probabilmente, sarebbe capace di ritrovare bellezza poetica. Questo tipo di follia è quella terribile del reietto, quando è sconfitto, o del nazista, quando è vincente: la follia di chi si fa paralumi coi resti delle vittime dei forni crematori.
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Gli antichi poeti dell’Ellade e la fantasia popolare di allora hanno fatto molta fatica a concepire la follia, che manca negli antichi miti quasi completamente. Incontravano spesso la violenza, la cattiveria e la disperazione, ma raramente la follia.
Forse l’unica figura di folle è quella di Tersite, troppo brutto e – meschino e per non essere anche pazzo oltreché un vinto. Per me la follia è allontanamento da Eros, lontananza dall’amore per noi – stessi e per gli altri; la chiusura nelle barriere del narcisismo . e del sadomasochismo, lo sprofondamento nell’abisso del delirio e della depressione. Tutto il resto non è follia. La disperazione, disorientamento, angoscia, ma anche speranza e lotta.
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Io vorrei invitare gli artisti a non cadere nella rete delle sciocchezze che si dicono sulla follia.
Non bisogna aver paura di ammettere che i pazzi sono persone stanche, distrutte e frantumate; bisogna accettare che quello che magari si può rintracciare in loro di poesia o di amore è un resto della salute perduta: grazie al cielo nessuno riesce ad essere completamente annientato dalla follia; perché un segno sia pur labile di Eros rimane in ciascuno, anche se contraddetto e contraddittorio.
Riconosco che è molto affascinante esaltare la follia; ma è un ingiusto modo di divertirsi alle spalle di chi soffre. Un’identificazione vile con chi ha rinunciato alla lotta.
È bene che gli artisti e i terapeuti cerchino di unire i loro sforzi per aiutare coloro che sono troppo cattivi, troppo soli, troppo deboli e troppo poveri ed egoisti a ricominciare la lotta contro il male. Solo così potremo sperare di evitare l’abisso mortale in cui ciascuno è solo, lontano e disperato. Il brutto, il male e la follia, non appartengono né all’arte né all’artista. La buona arte ne può però dare, una rappresentazione verosimile attraverso il bello, il buono e la saggezza. L’artista è il punto d’incontro – più o meno sano – capace però di riconoscere e descrivere il male, il brutto e la follia che ciascuno porta anche in sé.