Psicoanalisi contro n. 52 – Comare Coletta

aprile , 1989

Gli antichi romani, pragmatici e un po’ ottusi, che passeggiavano nel foro di Cesare, ripetevano nella loro lingua la vecchia frase dell’Ecclesiaste: Nihil sub sole novum. Il sole gira, riscalda, tramonta e risorge. Ogni tramonto è anche un’alba: se il sole sapesse questo impazzirebbe, perché non riuscirebbe più a capire se la sua posizione è quella del tramonto, del mezzodì o del pomeriggio; per fortuna non lo sa e prosegue il suo giro imperterrito; così che i romani, con il loro pragmatismo un po’ ottuso, scaldandosi la schiena, appoggiata ad una colonna, potevano rassicurarsi con il pensiero che nulla di quanto avveniva era nuovo per il sole. Dopo quegli antichi padri togati la frase è stata per secoli ripetuta dai loro posteri, annoiati.

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L’umanità è in buona parte composta da individui eternamente delusi dal fatto che non accada mai nulla di nuovo. Persone sciocche e vuote, che non sanno cogliere la continua diversità di un mondo che esplode ad ogni istante, di un sole che è, contemporaneamente, splendente allo zenith e ricco di sfumature nella luce del crepuscolo, bello in una simultaneità di aurore e tramonti, capace di non impazzire, in questa eternità che cambia ma che anche resta immutabile. É vero che tutto si ripete sempre uguale? Io penso di no. Ci sono coloro, che quando leggono un libro o guardano un quadro, dicono con sufficienza: «interessante!». Costoro sono in genere imbecilli che con un aggettivo coprono la loro profonda incomprensione. L’esclamazione nasconde infatti l’incapacità di avere il coraggio di meravigliarsi davvero, quando qualcosa di nuovo accade. C’è una figura del vecchio presepio piemontese detta il Gelindo, che esprime invece con estrema efficacia poetica quello che deve e può essere il giusto sentimento di meravigliato stupore di fronte ad un evento, che abbia in sé qualcosa dì veramente nuovo, come quello della Natività. I bambini scherzano sull’espressione attonita di Gelindo, ma io penso che avesse ragione un vecchio frate, che ammoniva: «Quello ha veramente capito che una cosa straordinaria è avvenuta in questa notte; così grande che non c’è uomo che non rimanga a bocca aperta nel sentirsela annunziare!» Non la spocchia sufficiente degli scettici, ma l’entusiasmo di chi sa ammettere la propria commozione è la reazione adeguata alle manifestazioni dell’arte, della poesia, della scienza e della fede.

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Per un verso è vero che accadono sempre le stesse cose. Bruto, per invidia e per coraggio, tornerà ad uccidere Cesare, il quale, tiranno e padre addolorato, tornerà a domandargli il perché. Federico Nietzsche diventerà pazzo a causa della sifilide, ma ancora di più perché troverà Torino troppo bella e troppo impenetrabile, tanto che gli verrà voglia di abbracciare un cavallo frustato da un padrone crudele. Nietzsche non poteva che impazzire, lui che aveva teorizzato l’eterno ritorno per cui tutto ritorna immutabile: Nihil sub sole novum.

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Gli esseri umani si sono sempre posti le stesse domande, ma nessuno ha mai posto a se stesso e, agli altri la stessa domanda. Quante domande gli uomini si pongono? Tantissime, ogni giorno ed ogni sera, mentre il sole rotola intorno a loro. E’ una ingenua leggenda modernista quella per cui sarebbe la terra a muoversi intorno ad un sole immobile. Sono certo che la terra è ben ferma, rispetto ad un sole che le ruota vorticosamente intorno. Bisogna credere alla Bibbia che ci racconta che Giosuè fermò il sole nel suo moto. I moderni astronomi sono dei poveri illusi!

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Una domanda mi si annida in testa e nel cuore, una domanda vecchia e risaputa, persino un poco sciocca. La domanda è questa: dove si annida il brutto? È una domanda vecchia e nuova perché da sempre l’umanità si rinnova. Filosofi, politici, scienziati, preti e artisti delle retro-avanguardie sostengono che la domanda non è più alla moda e che solo le questioni alla moda vanno discusse.
Io non sono alla moda, non so esserlo e forse non voglio esserlo e quindi, a costo di essere davvero alla moda mi pongo la domanda: dove si annida il brutto? Dove si nasconde il male? Come al solito, la mia metodologia fa acqua da tutte le parti; la mia etica è sgangherata, per cui senza ragione plausibile ho mescolato insieme i concetti di brutto e di male.
Per me questa unione è inevitabile, persino ovvia. I due concetti di male e di brutto sono per me sovrapponibili. Questo è vero?

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Quali possono essere le conseguenze di una simile affermazione, se presa per buona? Cercherò di spiegare, in parte, le ragioni che mi spingono verso questo atteggiamento.
Il male, secondo me, nessun uomo lo vuole veramente ritrovare in sé, né vorrebbe avere a che farci. Già lo sosteneva Socrate ed io l’ho sempre creduto, con fermezza e convinzione. Coloro che adorano il male hanno semplicemente sbagliato etichetta: hanno messo sul vaso del male l’etichetta del bene e questo è certo un grave errore. Sostengono il valore di un’etichetta e non si curano di verificare il contenuto.

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Nessun uomo persegue, consapevolmente, il male, perché nessuno è sorto dal male.
A questa affermazione si può contrapporre che ogni uomo nasce dal male. Le due affermazioni hanno in linea di principio, almeno all’apparenza, la stessa validità.
Io credo a quello che vado affermando e penso di essere una persona intelligente, per cui mi arrogo il diritto di far partire le mie successive considerazioni dall’affermazione che il bene è l’origine dell’uomo; perché l’origine sta in Dio, in Eros, nell’Amore.

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Rimane il problema di dare giustificazione all’insorgere del male. Io credo che sia nato dalla negazione di questi tre princìpi. Non andiamo oltre. Il demonio siede su di un trono dorato, sotto un ricco baldacchino, ma lo stesso diavolo non ha il coraggio di essere nudo. I pittori, che, quando sono veri artisti, sono anche buoni, hanno cercato di salvarlo, esponendolo nudo, con le natiche tonde e i pettorali possenti, nelle loro rappresentazioni; in realtà egli è coperto da una lunga cappa grigia, perché preferisce non vedersi nudo: è casto e pudico. Solo Dio non ha paura dell’amore, né del proprio e altrui corpo.

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L’uomo dunque è nato nel bene; ma quando prova a pronunziarlo si smarrisce. Eppure sente dentro di sé che questa è l’unica sua possibilità di esistere. Il male è ciò che si contrappone al bene, per questo l’uomo non può desiderarlo. Così è per il brutto; se è veramente tale non può essere desiderato dall’uomo. Queste sembrano soltanto frasi fatte, filosofia spicciola; ma sono terribilmente vere, e per capirne i significati possibili bisogna sapere andare oltre. Il brutto è una presenza costante, benché rifiutata, come è giusto; eppure viene realizzato allo stesso modo in cui viene operato il male, che ci sopraffà e ci vince.
Da tanti secoli si dice che solo gli artisti sappiano parlare del bello e del brutto; mentre noi non riusciamo più neppure a percepirli con chiarezza.
Sarebbe importante saper rifuggire da ciò che è brutto ed avvicinarsi a ciò che è bello.

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I lettori più accorti avranno notato come, inavvertitamente e forse subdolamente, io sia passato da un discorso in cui contrapponevo il bene al male, alla contrapposizione del bello e del brutto. Il mio tentativo è forse quello di condizionare, come uno sciocco psicologo ingenuamente comportamentista; ma, essendo sicuro di essere scoperto, ho preferito esplicitarlo a costo di perdere un po’ della mia credibilità. Prima ho detto che l’uomo nasce dal bene, poi ho detto che bene e male, bello e brutto si sovrappongono. Mi domando per quanto ancora dovrò andare avanti per affermazioni perentorie e indimostrabili. lo ritengo però che si possa dimostrare, perché è immediatamente evidente, che l’uomo non desidera il brutto e ricerca il bello.

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L’arte vuole esprimere, comunicare e costruire il bello. Come può quindi parlare del brutto e del male senza farlo attraverso opere che siano brutte o cattive? Sono gli interrogativi che ci fanno ripensare alle stesse cose da sempre, eternamente riproposti sotto lo stesso sole. Quando un musicista nella sua opera vuole segnalare la presenza di un personaggio «brutto» e cattivo deve forse scrivere una musica brutta? Che costringa chi ascolta ad inorridire? Se così facesse, non esprimerebbe né il brutto né il male, ma si esprimerebbe male; poiché anche la peggiore delle prerogative umane ha bisogno dell’arte migliore per essere espressa adeguatamente. L’arte quindi si esprime solo attraverso il bello e può rievocare il brutto con quello che non dice; ciò è possibile solo se chi fruisce del linguaggio dell’opera d’arte ha orecchie per intendere.

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L’arte ha sempre parlato della follia: il teatro, la letteratura, l’arte figurativa hanno tentato spesso di rappresentare i folli e lo ha tentato persino la musica (talvolta con l’aiuto di libretti come quello della Lucia di Lammermoor, con il divagare trasognato e disperante di una melodia vocale in bilico sull’impressionante rito sonoro degli strumenti). Ci sono a mio giudizio due modi fondamentali con cui l’arte tenta di parlare della follia o di descriverla. Il primo è un modo legato all’inganno e alla falsa coscienza con cui alcuni grandi artisti riescono a trasformare la rappresentazione della follia in una stupenda rappresentazione della disperazione umana e del disorientamento; nel tentativo di dire una verità che sta oltre la realtà quotidiana; ma questa non è follia.
Filottete non è folle, né lo è Ofelia, né Re Lear; non c’é follia negli occhi del Van Gogh degli autoritratti e non lo è neppure la disperata comare Coletta di palazzeschiana memoria che «saltella e balletta».
Tutti questi sono personaggi che appartengono ad un mondo ricco emotivamente, che l’artista rappresenta con efficacia e poesia.
L’inconscio sociale tende però trappole continue agli artisti, per cui costoro si compiacciono dell’esaltazione dei tratti di follia di alcune loro creature. Su questi prodotti dell’arte talora si accaniscono come sciacalli psicologi, psichiatri e psicoanalisti «rivoluzionari».

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Artisti e antipsichiatri hanno spesso congiurato nell’esaltazione comune della follia, indicata come segnale di libertà assoluta, di spontaneità creativa, di poesia senza condizionamenti, attribuendo al matto comportamenti che la vacuità borghese condanna, ma si compiace di ritrovare come curiosità negli altri, che ha emarginato e segnato come sconfitti. Tanto sconfitti che sono diventati cattivi e stupidi, come i borghesi volevano che fossero.
Del resto oggi tutte le società sono per gran parte cattive e stupide! Così è potuto avvenire che gli artisti siano stati traviati dagli assassini della bellezza in vesti antipsichiatriche ed abbiano contribuito all’invenzione di esempi di follia retorica e funzionale agli interessi della prevaricazione e dell’ignoranza.
Svilendo così la meravigliosa prerogativa dell’arte, di inventare fantasticamente la verità.

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C’è nell’arte la follia poetica e trasfigurata di comare Coletta, che è indice di salute e di poesia, così come la descrive il poeta; e c’è la follia di quello che comare Coletta potrebbe diventare, nella realtà, abbandonata a se stessa, piena di una cattiveria nella quale nessun artista, probabilmente, sarebbe capace di ritrovare bellezza poetica. Questo tipo di follia è quella terribile del reietto, quando è sconfitto, o del nazista, quando è vincente: la follia di chi si fa paralumi coi resti delle vittime dei forni crematori.

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Gli antichi poeti dell’Ellade e la fantasia popolare di allora hanno fatto molta fatica a concepire la follia, che manca negli antichi miti quasi completamente. Incontravano spesso la violenza, la cattiveria e la disperazione, ma raramente la follia.
Forse l’unica figura di folle è quella di Tersite, troppo brutto e – meschino e per non essere anche pazzo oltreché un vinto. Per me la follia è allontanamento da Eros, lontananza dall’amore per noi – stessi e per gli altri; la chiusura nelle barriere del narcisismo . e del sadomasochismo, lo sprofondamento nell’abisso del delirio e della depressione. Tutto il resto non è follia. La disperazione, disorientamento, angoscia, ma anche speranza e lotta.

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Io vorrei invitare gli artisti a non cadere nella rete delle sciocchezze che si dicono sulla follia.
Non bisogna aver paura di ammettere che i pazzi sono persone stanche, distrutte e frantumate; bisogna accettare che quello che magari si può rintracciare in loro di poesia o di amore è un resto della salute perduta: grazie al cielo nessuno riesce ad essere completamente annientato dalla follia; perché un segno sia pur labile di Eros rimane in ciascuno, anche se contraddetto e contraddittorio.
Riconosco che è molto affascinante esaltare la follia; ma è un ingiusto modo di divertirsi alle spalle di chi soffre. Un’identificazione vile con chi ha rinunciato alla lotta.
È bene che gli artisti e i terapeuti cerchino di unire i loro sforzi per aiutare coloro che sono troppo cattivi, troppo soli, troppo deboli e troppo poveri ed egoisti a ricominciare la lotta contro il male. Solo così potremo sperare di evitare l’abisso mortale in cui ciascuno è solo, lontano e disperato. Il brutto, il male e la follia, non appartengono né all’arte né all’artista. La buona arte ne può però dare, una rappresentazione verosimile attraverso il bello, il buono e la saggezza. L’artista è il punto d’incontro – più o meno sano – capace però di riconoscere e descrivere il male, il brutto e la follia che ciascuno porta anche in sé.