52 – Aprile ‘89

aprile , 1989

I 7 Re di Roma è il titolo di una commedia musicale, col testo di Luigi Magni, le musiche di Nicola Piovani e la debordante interpretazione di Gigi Proietti, messa in scena il tredici febbraio scorso al Teatro Sistina, dove sarà replicata ancora a lungo, come è consuetudine delle produzioni firmate «Garinei & Giovannini».
Come dice il titolo, si racconta la storia di Roma dalla fondazione all’avvento dell’era repubblicana. Tutte le commedie musicali hanno come loro caratteristica di essere un po’ un minestrone: musiche di ogni genere, canto, danza, scenette comiche e i famigerati «momenti sentimentali» ed anche un intento moralistico. È inutile piangere, lamentando che queste figlie dell’operetta abbiano oggi perso in grazia, buon gusto e si rivestano in genere di musiche scadenti. È inutile anche perché ci è accaduto di assistere a commedie italiane di questo genere, di ottima fattura, argute, sentimentali senza essere sdolcinate, con interpreti validissimi e musiche eccellenti.
Elogi che non si possono fare a questo spettacolo del Sistina. Analizziamo, anche se fugacemente, i vari elementi di cui risulta composto: il copione si sviluppa su due piani, assolutamente non in accordo tra loro: da un lato v’è infatti la storia dei Sette Re, raccontata in modo sciatto, senza tensione drammatica. con un affastellarsi di scene sgangherate, degne del peggior teatro leggero; dall’altro, l’autore ogni tanto sale in cattedra e propina piccole lezioni sui problemi della storiografia romana, con accenni, semi-eruditi (anche non sbagliati) che tentano di demitizzare le favolette raccontate sui libri delle elementari. Con il risultato che le favolette si inflaccidiscono e i momenti saccenti danno fastidio. Le battute umoristiche sono quasi tutte scontate e il velleitarismo moralizzatore è di un qualunquismo privo di arguzia, demagogicamente volto a strappare l’applauso. Ciò che soprattutto però ci ha irritato di questo testo è stata la lingua usata: non ci aspettavamo certo l’arcaico splendore del Belli, ma quel brutto romanesco da portieria ministeriale, laido, tronfio e allo stesso tempo debolissimo, ci ha nauseato. Non sarebbe male che in un teatrone che richiama tanto pubblico come questo si cercasse di tenere viva anche una tradizione linguistica popolare, come quella «romanesca», purché fosse genuina e,a costo di apparire arcaicizzanti, conservasse la bella struttura del dialetto di questa città e tramandasse molti modi di dire, che è ancora possibile apprezzare, malgrado la pigrizia dilagante e il cattivo gusto tendano a lasciarli cadere.
Le musiche di Nicola Piovani, nonostante gli apporti di rock e di jazz, rugantineggiano in modo spudorato; l’orchestrazione non è scorretta, ma le melodie sono troppo simili le une alle altre e cadenzano sempre con quello stesso modulo lazial-campano; a tutto questo si aggiunge la pessima inserzione delle musiche dal vivo sulla banda registrata. Le coreografie di Micha Van Hoecke riprendono gli stereotipi dell’avanspettacolo di sempre: con pochi passi di danza mischIati a gesti e sberleffi sdolcinati o pesantemente allusivi. Le scene di Uberto Bertacca sono ridotte ad una scatola semicircolare pratica ed economica e concedono al pubblico due «effetti» a sorpresa, costituiti da un dorato carro del sole e da una prora di nave troiana. I costumi, fantasiosi per alcuni personaggi, scontati per altri, sono di Lucia Mirisola.
Gli interpreti, nel loro complesso, non hanno dimostrato né doti canore né capacità recitative. Nel canto le intonazioni erano imprecise, le battute erano dette in modo inespressivo. Abbastanza bravo, sebbene un po’ troppo grigiastro e querulo, è stato Gianni Bonagura nel controruolo del dio Giano. Molto deludente infine ci è parsa la prestazione di Gigi Proietti: si intravede che è un attore che potrebbe fare del corpo e della voce quello che vuole, ma qui ha solo scelto di compiacere il grosso pubblico, ricorrendo ai più facili effettacci di mestiere: non calibrava i gesti, che risultavano troppo pesanti o non erano incisivi; non abbiamo ritrovato nessuna delle raffinatezze che gli erano abituali una volta; il suo vocione tuonava sgraziatamente in cattivo romanesco, scaraventato sul pubblico da una pessima e fastidiosissima amplificazione.
La regia di Pietro Garinei non toglieva e non aggiungeva niente a nulla e a nessuno.

Un luogo comune molto ripetuto sostiene che sia difficile dare un giudizio attendibile sui personaggi e i fatti della storia più recente, perché il coinvolgimento in quegli avvenimenti pregiudica la possibilità di essere obiettivi. Stranamente, e ciò dimostra che historia non è magistra vitae, lungo i secoli, artisti e scrittori hanno parlato in modo efficace, sufficientemente obiettivo, della loro epoca, mentre, a distanza di millenni, sono state dette le idiozie più gigantesche su figure ed avvenimenti remoti. Certamente, tutti coloro che hanno un impegno morale, sociale o politico, quando si confrontano con uomini o idee del loro presente o del passato , mettono molto di sé. Non è vero che i fatti più vicini temporalmente siano più scottanti di quelli più lontani, forse perché ognuno riferisce sempre tutto a sé, tanto che si vive, emotivamente, in un eterno presente. Chi lotta per la libertà di pensiero si può commuovere quanto Platone sulla figura di Socrate, certo più di quanto non sia stato capace di commuoversi Senofonte, che pure fu loro contemporaneo. Perciò noi abbiamo assistito alla rappresentazione di Stalin dell’autore cileno Gastòn Salvatore, messo in scena al Delle Arti dal Teatro di Sardegna, senza andare alla ricerca dello Stalin vero o falso e senza voler mettere in discussione la legittimità di trattare un argomento così «scottante». Stalin, per noi, è stato un tiranno; però il suo comportamento, talvolta palesemente delirante, non ci è parso mai stupido. La sua figura non può non suscitare emozioni e a ciò contribuiscono anche i molti inquietanti ed oscuri aspetti della sua biografia: dalla vita in seminario alla sua ambiguità sessuale; dai suoi gesti demagogici ed astuti al suo bizantinismo misto a rozzezza nella politica interna ed estera; dall’alternarsi di ottusità e genialità in economia alle sue ingenuità in materia di arte e di cultura e chissà quante altre cose ancora. Salvatore ha costruito un testo di grande efficacia drammatica: sullo sfondo degli avvenimenti dell’ultimo periodo di vita del dittatore, riferiti con la scarna e schematica semplicità di un libro di scuola, il passato dell’uomo riempie la scena. A resuscitarlo Stalin chiama nella sua dacia il vecchio e famoso attore ebreo Icik Sager, letteralmente prelevato dal teatro in cui stava recitando il Re Lear di Shakespeare, i cui panni ancora veste, quando si ritrova alla presenza del terribile «capo». Usando lo stratagemma di parafrasare il dialogo tra Re Lear e il matto i due uomini, per giorni e giorni, si smascherano e si accusano reciprocamente scambiandosi di tanto in tanto il ruolo di «voce della verità». Entrambi escono con le ossa spezzate: il dittatore con uno dei suoi attacchi cardiaci, tragicamente premonitore e l’attore distrutto dalla notizia che il figlio è stato ucciso, mentre si trovava in carcere, accusato di complotto sionista anti-sovietico. Motivi di riflessione lo spettacolo ne dà molti: la verità dell’arte e la falsità del potere; la disperata volontà di far sì che il delitto non sia delitto; la giustificazione della paura e il significato di essa. Re Lear e Stalin sono uguali e opposti: il primo poeticamente disperato non vuole il potere, il secondo crudele e spietato non sa bene cosa il potere sia, ma sa che per lui è un dovere.
Lo spettatore poi ancora si perde con i due personaggi nella nebbia dei ricordi: in fondo ai quali ciascuno ritrova un attore e, un dittatore uguali a quelli che ora vede sulla scena. I due interpreti sono stati ottimi: si contrapponevano senza sopraffarsi.
Il giovane Luigi Mezzanotte nei panni di Sager-Lear ha saputo esprimere con grandissima efficacia l’istrionismo che si trasforma in dolore, paura, disperazione e rassegnazione. Raf Vallone è stato uno Stalin eccezionale: un carattere e una figura credibili, dai gesti e dalle intonazioni sempre ricchi e appropriati, ora trasognato, tenero e distratto; poi sapeva irrigidirsi in una durezza quasi incomprensibile, lasciando aleggiare su di sé perennemente il potere della vita e della morte; lo stesso attore ha curato con sapienza la regia. La scena, giustamente opprimente, era di Alessandro Chiti e così i costumi.