52 – Aprile ‘89

aprile , 1989

Vincitore di quattro Oscar, tra i quali quello per il miglior attore, il miglior film e la migliore regia, Rain Man è un tipico prodotto della decadenza culturale statunitense e, ci viene il sospetto, anche un sintomo della decadenza universale. Il film è indubbiamente stato confezionato da un gruppo di persone astute ed economicamente avvedute, che hanno saputo offrire al grosso pubblico un bibitone (il film dura più di due ore) coloratissimo, ma assolutamente insipido. Può anche darsi che
ci troviamo di fronte ad una delle tante produzioni elaborate attraverso il computer, poiché gli ingredienti che piacciono, divertono e commuovono questa nostra umanità, moralmente mediocre e mediocremente imbecille, ci sono tutti nelle giuste dosi, tanto che il caso psichiatrico presentato è, per così dire, fasullo in modo geniale. Parrebbe che coloro che hanno fornito le informazioni base alla macchina raccontafiabe conoscessero assai bene il quadro clinico complessivo e molte sfumature sintomatiche di quella terribile situazione psichica diagnosticata come autismo; ma che cosa hanno fatto? Hanno finto di credere che autistico sia colui che ripete sempre le stesse poche frasi, hanno poi estrapolato due gesti ed hanno costretto il povero Dustin Hoffman a presentare sempre lo stesso elementarissimo schema comportamentale. Già questo è un insulto a coloro che (non azzardiamo ipotesi eziiologiche) fin dai primi anni di età sono prigionieri di questa terribile sindrome. L’autodistruttività, gli stereotipi, il negativismo, la violenza, i rituali ossessivi imprigionano certamente chi patisce di questo disagio, ma di rado il comportamento di un autistico è quello del tipico «matto» di avanspettacolo.
Rain Man è soltanto un film comico, per di più abbastanza scadente, con un certo numero di gags (e alcune anche divertenti) monotonamente e, diremmo, autisticamente ripetute. Se chi, per caso, ha in cura qualcuno che soffre di questo male, riconosce la persona di cui si occupa in questo personaggio è meglio che cambi definitivamente mestiere, perché vuol dire che non è in grado di capire alcunché della psiche umana, sana o folle che sia e soprattutto non ne sa cogliere le sfumature.
Come se non bastasse, all’inizio del film, uno psichiatra da operetta spiega che alcuni di questi «malati» hanno le facoltà scisse, per cui, mentre per un verso sono chiusi al mondo, per un altro riescono a cogliere in modo sbalorditivo nessi logici ed hanno una memoria prodigiosa. Il protagonista del film è invece una vera macchietta poiché ha facoltà non solo eccezionali, ma addirittura sovrannaturali. Questa critica serrata all’aspetto per così dire clinico, l’abbiamo fatta anche per giustificare come, a nostro avviso, il film manchi oltre tutto l’obiettivo «artistico».
La trama è questa: un giovinotto, Charles, sta per fallire nella sua impresa commerciale; gli comunicano che il ricchissimo padre con il quale aveva rotto i rapporti da tempo è morto; spera nell’eredità e nella salvezza; ma scopre che tutto il patrimonio paterno è stato dato ad un istituto per malati di mente, in cui viene a sapere che è ricoverato un suo fratello autistico, di cui ignorava l’esistenza, di nome Raymond; lo rapisce nel tentativo di costringere la giustizia ad affidarglielo, ovviamente con tutti i soldi. Qui comincia la parte più consistente del film: il «matto» mette il fratello in una serie di situazioni umoristiche. Charles pensa poi di “sfruttarne le doti per andare a giocare a Las Vegas e ovviamente i due vincono molti quattrini. Lentamente però il cinico Charles si lega sinceramente al fratello, il quale pare che, circondato dall’affetto, incominci a recuperare qualche barlume di ragione. Questo è l’unico assunto che ci troverebbe assolutamente d’accordo, se non fosse immerso nello squallore del contesto. Ma la società spietata divide i due fratelli che, in un liso e lagrimevole finale, si danno l’addio sulla banchina di una stazione. Oltre che i due fratelli ha una parte una giovane fidanzatina di Charles, impersonata magistralmente da Valeria Golino. Anche sfavoriti dal doppiaggio stereotipo e impersonale, i due attori principali escono piuttosto male dall’impresa: Dustin Hoffman ha a sua disposizione il facile escamotage di un personaggio fisso in una sola espressione, con alcuni tic di comportamento e di suo non ha da aggiungere nulla; Tom Cruise esaspera il personaggio arido che si commuove lentamente, eccedendo nei due versanti. Il regista Levinson spreca effetti drammatici e comici, come in una doccia scozzese e condisce il tutto col dovuto pizzico di sesso e volgarità, che fanno cassetta.
La fotografia di J. Sale è patinatissima e la musica di H. Zimmer è soltanto brutta. La sceneggiatura, anch’essa ingiustamente premiata, è di Barry Morrow e Ronald Bass.