Archivio di novembre 1987

Psicoanalisi contro n. 37 – La geniale confusione

domenica, 1 novembre 1987

«Sintomo: (symptoma: accidente, caso) Manifestazione di una alterazione organica o funzionale apprezzabile obiettivamente o soggettivamente; più propriamente: i dati obiettivi rilevati dal medico vengono indicati come segni» (cfr. V.E. Lauricella, Dizionario medico, USES, Firenze).

Il sintomo è quindi una manifestazione eccezionale di una alterazione, un segno che può essere visto dall’esterno o un disagio percepito soltanto dal soggetto. Con l’esame obiettivo, il medico ne evidenzierà alcuni aspetti che metterà in relazione tra di loro, tentando di ipotizzarne una causa. Questo almeno avviene di norma per i sintomi organici.
Come ho detto altrove, la separazione tra «soma» e «psiche» è dell’uomo, ma non è nell’uomo. L’uomo l’ha operata perché, in alcune situazioni, distinguere gruppi di manifestazioni sintomatiche da altri, può fare comodo. Questo non vale soltanto per i fenomeni patologici, ma anche per tutto il funzionamento di quella indissolubile unità che è la persona. Scindere l’unità dell’uomo in psiche e soma non ha molto senso, tuttavia ha acquistato un significato, che io ritengo improprio, ma dal quale non è possibile liberarsi con facilità, soprattutto in campo medico. La scienza medica ha assimilato questa pretesa di separazione dalle osservazioni dei filosofi, i quali, a loro volta, l’hanno presa dal senso comune. Forse non sarà mai possibile sgombrare il campo da questa scissione, anche perché in mancanza di essa si rischia di non avere sufficienti parametri di lettura nosografica.
Qualcuno già ha tentato di superare questa separazione applicando una lettura che vorrebbe realizzare l’unione tra ciò che è del corpo e ciò che è psichico e ipotizzando quelli che vengono definiti disturbi «psicosomatici», come se fossero però una particolare famiglia di sintomi.
In realtà tutte le espressioni dell’essere umano, patologiche e non, dovrebbero essere interpretate psicosomaticamente. I gesti, i comportamenti, le parole dell’uomo sono sempre la manifestazione di qualcosa che sta loro dietro e che è assai poco comprensibile.
I sintomi sono, è vero, «manifestazioni», ma tutto l’uomo, nella pienezza del suo essere è una manifestazione: è una «epifania» carica di sacralità, in quanto l’uomo partecipa del divino. L’uomo, come la divinità, è incomprensibile eppure si realizza manifestandosi ad altri esseri che a loro volta esprimono il loro essere nel mondo con segni e sintomi. Voglio con ciò affermare che l’essere umano come epifania di se stesso non è necessariamente manifestazione di una patologia.

2.
Torniamo ora alla perversa, ma indispensabile distinzione tra soma e psiche.
Il sintomo, in senso stretto, è quindi una manifestazione accompagnata da disagio. I sintomi «somatici», seppure con qualche difficoltà, sono abbastanza leggibili: non è difficile avere una percezione oggettiva di un’eruzione cutanea, oppure valutare, per mezzo di esami di laboratorio, un’alterata funzionalità epatica. Sappiamo però che le sensazioni di sofferenza soggettiva non corrispondono quasi mai esattamente al luogo in cui il disagio o la malattia stanno aggredendo la persona. C’è una stupida opinione diffusa, fatta propria anche da qualche medico tardo-romantico, per cui un organismo sarebbe sano e in buone condizioni quando non è percepito. Se così fosse davvero, i sani sarebbero completamente pazzi, immersi in un delirio di depersonalizzazione, incapaci di stare dentro la loro stessa pelle. Sano è piuttosto colui che percepisce in massimo grado tutte le sensazioni che gli provengono non solo dall’esterno, ma anche dall’interno del proprio corpo: una leggera alterazione cardiaca, una piacevole sensazione agli organi genitali, un brivido nella schiena, un gorgoglio intestinale, la secchezza delle fauci, un leggero stordimento, e così via. Sensazioni piacevoli o spiacevoli che diventano sempre anche sensazioni psichiche. Stati di eccitazione, come quella sessuale, per esempio, coinvolgono tutte le componenti fisiche e psichiche della persona. Qualcuna di queste sensazioni, però può essere più dolorosa di altre, violentemente dolorosa, senza che vi debba corrispondere necessariamente dall’esterno un adeguato riscontro obiettivo, eppure non per questo le si deve dare meno ascolto. Il modo stesso di percepire i sintomi è a sua volta sintomatico. I medici ascoltano mal volentieri le querule lamentazioni dei loro pazienti che descrivono sintomatologie improbabili e bizzarre, eppure se superassero la loro boriosa sicumera, potrebbero trarre vantaggio anche da tali assurde descrizioni e saprebbero come inserirle in un quadro sintomatico, insieme con i dati di laboratorio ed i risultati del loro esame obiettivo. Purtroppo i terapeuti del corpo – ed anche quelli della psiche – poco controllano i loro sentimenti di onnipotenza e la loro incapacità di ascoltare gli altri fino in fondo: questa è una delle cause della loro debolezza e spesso della loro impotenza terapeutica.

3.
Sempre sulla falsariga di questa impropria distinzione tra psiche e soma si pone la cosiddetta medicina psico-somatica quando riconosce in alcune malattie come l’ulcera gastrica, l’ipertensione essenziale, la colite ulcerosa e in molte affezioni reumatoidi un’origine prevalentemente psichica. In questi casi le sensazioni dolorose del soggetto hanno anche un riscontro obiettivo ed è evidente la corruzione di organi e apparati.
Alcuni antichi psicosomatologi hanno parlato addirittura di una vera e propria «induzione psichica» che provoca la malattia di un organo volutamente reso più debole e quindi più facilmente aggredibile dagli agenti patogeni interni o esterni. Questo meccanismo di induzione consisterebbe nella voglia, nel bisogno di ammalarsi: per odio, per ricatto, per fuga, per difesa, per vendetta, per meccanismi psichici insomma, consapevoli o inconsci. Questa concezione, a mio avviso, non è sbagliata, anzi può fornire utili parametri di giudizio; ma è riduttiva e semplicistica, perché fa originare il meccanismo dall’interno del soggetto, senza considerare a sufficienza gli effetti del rapporto tra l’io e gli altri.
Spesso sono infatti gli altri ad indurre la malattia.
A questo proposito, vorrei sfatare un luogo comune: ci si può ammalare per diverse ragioni, ma non si può voler star male per amore.
Questa almeno è la mia convinzione, malgrado quello che cantano i più romantici lieder, malgrado l’amore che porto per la figura della Violetta verdiana, la Margherita Gautier di Dumas, la Alphonsine Duplessis, la cui tomba vado sempre a visitare commosso nel piccolo cimitero di Montmartre.
Se si muore, credendo di morire per amore, non ci si è però resi conto che, ad un certo punto qualcosa è sopravvenuto a uccidere quell’amore, sostituendolo con sentimenti, come la vendetta o il ricatto, che con esso hanno ben poco a che fare. Io sono convinto che nell’amore c’è sempre la possibilità della salute, anzi, che non c’è salvezza al di fuori dell’amore.

4.
Accanto alle malattie considerate finora, vi sono poi alterazioni funzionali degli apparati organici e sensazioni dolorose che non trovano alcun riscontro obiettivo: le cosiddette «conversioni isteriche», come si usava definirle.
Sono queste sensazioni organiche ben descrivibili dal soggetto che le prova: anestesie, parestesie, iperestesie, paralisi, cecità, che non sono «illusioni», ma sono reali sofferenze.
Non risultano però mai negli apparati dolenti alterazioni organiche riscontrabili strumentalmente e si può notare inoltre che le percezioni soggettive non seguono nessun coerente schema anatomo-fisiologico, ma piuttosto disegni fantasiosi che corrispondono all’immaginazione dei pazienti.
Nonostante tutto ciò, è importantissimo ascoltare con attenzione queste descrizioni, perché sono messaggi che, in un modo molto articolato, seppure impreciso, dicono talvolta molto di più di una serie di libere associazioni o del racconto di un sogno.
Quelle che appaiono come assolute menzogne tradiscono la verità cui si contrappongono: la verità è infatti molto spesso complicata e deve essere letta attraverso le contraddizioni e le negazioni.

5.
Ci sono poi i sintomi soltanto psichici: rituali ossessivi, agorafobie, patofobie, improvvise depressioni, esaltazioni maniacali, deliri.
Il corpo sembra assente, ma non è così: negli ossessivi sono riscontrabili contratture muscolari, emicranie, disturbi allergici di ogni tipo e turbe respiratorie. Chi cade in un delirio persecutorio contrae il proprio corpo, possono conseguirne funzionamenti alterati dei meccanismi della vista o degli altri sensi, insonnie o sonnolenze irriducibili.
Il corpo, in verità, segue il processo degenerativo della psiche, rattrappendosi vieppiù o sfasciandosi.
Le persone si distruggono poco a poco, ristupidite in gesti avvilenti, nell’imputridimento compiaciuto e puzzolente di sé. Sdraiate nel letto giacciono, in preda alla depressione, larve di esseri umani, avvolte in cenci, poiché tali sono diventati gli abiti di cui non si liberano più. Sono malattie psichiche o fisiche? La psiche, certo, coinvolge il fisico; chi non è più capace di mangiare vede il proprio corpo deperire per la denutrizione o, nel caso opposto, la bulimia sconvolge il fisico, fino a farlo scoppiare.
Se il sintomo è nella psiche, il corpo che cosa è? Soltanto lo strumento di una demoniaca ed inconscia volontà di distruzione?

6.
Un tempo quindi si parlava di sintomi organici, cioè strettamente legati a patologie causate da agenti, esterni o interni, individuabili e quantificabili; oppure di malattie psicosomatiche; o ancora di sintomi isterici che coinvolgevano la funzionalità degli organi, senza comprometterne l’integrità.
Si parlava anche però di sintomi strettamente psichici, distinti in sintomi nevrotici e sintomi psicotici.
Le nevrosi potevano essere disagi causati da un disturbo libidico, da traumi del momento, o anche venire dalle remote epoche dell’infanzia; disturbi più o meno gravi, che consentivano però all’individuo di mantenere un accettabile, se pure insoddisfacente, contatto con la realtà.
Nelle psicosi invece il mondo diventava una costruzione fantastica e lontana con la quale si stabiliva un rapporto alterato e sconvolgente.
Queste distinzioni oggi hanno perso parte della loro validità, resta comunque nelle teorie di psicologia dinamica, da cento anni a questa parte, un’idea ferma: che il sintomo sia un compromesso: si manifesta cioè un sintomo che, in qualche modo è anche un simbolo del desiderio insoddisfatto.
Per fare un esempio: Freud diceva che l’agorafobia (la paura cioè di attraversare luoghi aperti), nelle donne, nascondeva il desiderio di prostituirsi sulla via; per paura di abbandonarsi a questo desiderio o per vincere l’angoscia che esso procurava si inibiva quindi la possibilità di scendere per strada, per non cedere alla tentazione di comportarsi da «puttana».
A questo punto, io mi domando: allora dove si scarica il desiderio? Nella punizione di se stessi? Questa ipotesi, questa antica costruzione psicoanalitica, non mi pare reggere molto.
Inoltre: il simbolo come simbolo di un desiderio è un’idea troppo in accordo con quelli che erano i fermenti artistici del momento: Maeterlinck e Munch erano artisti o patologi? Lasciamo stare.

7.
Accanto all’idea di sintomo come compromesso convive, quale uno degli elementi fondanti di gran parte delle teorie di psicologia dinamica, l’altra idea: che le origini delle nevrosi si radichino nell’infanzia (benché, come abbiamo visto, già Freud avesse parlato di nevrosi «attuali»).
Per riassumere in grandi linee ciò che dice in proposito la metapsicologia freudiana, diremo quindi che esiste nell’uomo uno sviluppo libidico, che viene diviso in «fasi».
Questo sviluppo deve seguire determinale tappe.
Per diverse ragioni, può accadere che una persona resti fissata ad una fase infantile e quindi continui a desiderare la soddisfazione dei propri desideri sessuali, nei modi connessi a quel periodo. A questo punto si pongono due alternative: la perversione o la nevrosi. L’una è però il contrario dell’altra.
La genesi e il concetto di perversione in Freud sono spiegati in modo chiaro: il bambino è un «perverso polimorfo», perciò se non avverrà la rimozione di uno o più desideri perversi, anche da adulto continuerà a ricercarne la soddisfazione, facendo di questa ricerca l’espressione principale della propria sessualità.
Il concetto di nevrosi è invece già in Freud quanto mai oscuro: sembra anch’essa legata ad una fissazione sessuale infantile che però non si è risolta in una scelta perversa, ma in una serie di sintomi.
Ma i sintomi sono travestimento di desideri che necessariamente debbono essere desideri sessuali, poiché, come Freud ha detto, lo sviluppo fondamentale è libidico. Quali desideri sessuali sono però simbolizzati dai sintomi? Solo quelli perversi? Cosa avviene dei desideri sessuali non perversi, che pure, per qualche ragione, vengono inibiti? Si trasformano sempre in sintomi? Se la perversione è patologica, ma non è nevrosi e neppure psicosi, che cosa è? Solo l’analisi della storia dell’individuo può spiegare il percorso dalla fissazione alla scelta tra nevrosi e perversione.
Però Freud non ne da mai una spiegazione metapsicologica. Per cui il terapeuta freudiano si trova, in ogni analisi, solo, ad inventare. Ancora più oscuri sono il concetto e la genesi delle psicosi: non per nulla Freud ne parla esaurientemente solo nel caso del presidente Schreber (cioè a proposito di un paziente di carta). Freud si è trovato in questo marasma teoretico per mancanza di coraggio; ha voluto operare una rivoluzione, ma ha finito per stabilizzare lo stato di fatto della morale borghese, che sentiva anche propria.
La sua vitalissima scoperta della sessualità polimorfa, così dirompente e che minava alla radice le teorizzazioni psicopedagogiche dei secoli precedenti (bisogna risalire alla paidèia dei greci per trovare una concezione davvero sana) non ha avuto il dovuto sviluppo, perché gli è mancato il coraggio di riconoscere che tutto ciò che fino ad allora era stato considerato sano era in realtà malato, e viceversa.

8.
A complicare il tutto si è anche aggiunto quello che viene definito il problema del trauma successivo.
Le nevrosi di guerra, che derivano da una esperienza traumatica violenta, vissuta in età adulta, su un campo di battaglia, si manifestano con durature conseguenze: chi ne è colpito continua a rivivere il trauma che invece dovrebbe e vorrebbe dimenticare.
Queste nevrosi aprono le prospettive per nuovi parametri clinici sulla comprensione delle sintomatologie.
Che senso ha questo voler ripetere, questa «coazione a ripetere» momenti spiacevoli e tragici della propria esperienza esistenziale? Freud e l’antica psicoanalisi hanno a questo punto sentito la necessità di giustificare questo bisogno inventando ad hoc la favoletta della pulsione di morte.
L’uomo sentirebbe il fascino della morte, proverebbe piacere per la sofferenza, per la distruttività. Sadomasochismo? A questo punto, tutto il catalogo delle perversioni si scombina.

9.
Riepilogando, si dice che esistano: sintomi organici, sintomi psicosomatici, sintomi soggettivi, psico-fisici che coinvolgono la funzionalità degli organi pur senza distruggerne l’integrità; si dice inoltre che esistano sintomi strettamente psichici che avrebbero origine da un compromesso tra la pulsione che tende a manifestarsi ed esigenze esterne che tentano di inibirla. Su questo schema nosografico si innesta il quadro evolutivo delle fasi, che portano l’individuo verso quello che è considerato il punto di maturità; sviluppo che può essere bloccato da eventi traumatici che fissano uno di questi momenti di passaggio. Questo tipo di trauma e l’eventuale conflitto di forze possono dar luogo ad una nevrosi o perversione, secondo l’azione di agenti molto complessi. Alla critica già fatta voglio aggiungere che questo schema non rispetta quel principio economico delle forze in gioco che Freud, richiamandosi ad Occam, ipotizzava con tanta convinzione. Perché distinguere i sintomi, nevrotici e anche psicotici, dalle perversioni? In che rapporto stanno tra loro il sintomo come compromesso e il sintomo come soddisfacimento di un piacere infantile non superato? Il castello costruito con molta attenzione e grande genialità a questo punto non regge più. È inutile portare elementi di supporto, fare revisioni, aggiustare il tiro; bisogna abbattere la costruzione freudiana.

10.
Formazione di sintomi, fissazioni che producono patologie psichiche o nevrosi sono descrizioni troppo sconnesse e scollate tra loro: la persona viene dispersa in una simile, se pur geniale, descrizione, che è oltretutto scientificamente ed economicamente inutile.
Ancor più che inutile: dannosa.
Freud è stato un danno per il progresso scientifico? Io rispondo decisamente di no.
Freud ha tentato di comprendere, aveva la sua psiche, la sua personale vicenda, i suoi limiti, la sua cultura; però aveva anche la sua genialità e la sua spudoratezza insieme con la sua ingenuità.
La sua costruzione, malgrado tutta la stima che ho per lui però oggi non regge più: ogni terapeuta della psiche deve essere oggi antifreudiano. Non importa attaccare Jung, Reich, Lacan: piccoli e balbettanti al confronto di quel genio che ha avuto il coraggio di fare di tutta la sua vita un’epifania.

11
Io disprezzo coloro che sono venuti dopo Freud, che sono rimasti a mezzo, li ritengo vili parassiti.
Stimo invece coloro che onestamente, all’interno del pensiero freudiano o altrove, lavorano, senza pudori. Il pudore è stato sempre dannoso alla scienza. Io stimo Galilei perché è stato spudorato e lo stimo anche perché ha avuto il coraggio di aver paura.

37 – Novembre ‘87

domenica, 1 novembre 1987

Da Giggetto al Portico di Ottavia è un ristorante da tempo immemorabile inserito nella tradizione romana. Noi siamo affezionati a questo posto che ci ricorda alcune belle sere estive, trascorse sedendo ai suoi tavoli sulla via principale del ghetto, nei primi tempi della nostra vita romana, quando tutto in questa città ci sembrava meraviglioso. Abbiamo avuto perciò molte resistenze prima di deciderci a dire finalmente il vero sulla cucina di questo luogo ed è con molta malinconia nel cuore che confessiamo di aver mangiato malissimo, ed ora più di allora. La nostra ultima visita è capitata in una giornata d’autunno dolcissima, resa appena un po’ triste dalla banalità opprimente della saletta da cui guardavamo fuori il cielo grigio-azzurro. La lista comprendeva tutto ciò che di tipico ci si poteva aspettare, ma non per questo era scoraggiante, anzi, la tradizione ci affascina sempre un po’. Anche il servizio sin da subito sconclusionato – il cameriere destro non sapeva quello che faceva il sinistro – non aveva disturbato il nostro quieto umore.
Il carciofo alla giudia con cui abbiamo incominciato era appena sopportabile, ma il baccalà fritto e i fiori di zucca erano crostolosi e imbevuti d’olio all’inverosimile. Tra i primi, i rigatoni con la pajata sono stati un vero scherzetto: assolutamente crudi, duri stecchiti, sui quali ovviamente non poteva amalgamarsi alcun sugo e tantomeno quello, che oltretutto pareva avere l’età di Matusalemme; il risotto coi porcini era solo anemico; la zuppa di pesce, dall’aspetto trionfale, era ingannatrice: le cozze restavano ostinatamente chiuse e i pochi gamberoni e i pezzetti di scorfano nuotavano nell’acquoso brodetto, stagnante sopra enormi fettone di pane. Per quel che riguarda i secondi, cui bisogna dire che i fegatelli al crostone erano d’equivoco aspetto e suscitavano scatologiche associazioni; mentre la coda alla vaccinare ci ha portato ad una fondamentale scoperta zoologica, che cioè l’appendice posteriore delle vacche è composta quasi al cento per cento di sedano; il bollito guarnito è riuscito ancora a scuoterci: le poche fettine di carne erano semplicemente fritte e la guarnizione consisteva in una gelida cicoria bollita. Abbiamo visto arrivare alcuni dolci dall’esterno, per cui riteniamo che qualche pasticciere dei dintorni sia responsabile degli anodini dessert.
Dopo aver assaggiato e messo da parte il frascataccio della casa, siamo passati ad un Formentino del Collio, banale, ma non sgradevole e profumato; e poi un vino novello di S.Costanza che non aveva però l’allegra vivacità che da questi vini abitualmente ci si aspetta.
Il conto tendeva all’alto, se pur senza esagerazione.

Da quando Pino, il bravo barman nostro amico si è trasferito al Bar dell’albergo Eliseo, in via Pinciana, ci è diventato più scomodo fare da lui le nostre scappatine serali sottocasa, in cerca di qualche goccetto di liquore e simpatia. Però il locale in cui Pino col suo nuovo collaboratore, Sabino, esercita ora le sue funzioni, è un luogo quanto mai accogliente ed intimo, nel quale, la sera, è possibile anche ascoltare un gradevole pianista dalla voce di velluto che, con discrezione tiene compagnia. Gli ingredienti che Pino e Sabino miscelano con tanta perizia sono prodotti della migliore qualità e – oltre ai classici che vanno dal Negroni, al Manhattan, allo Stinger e via dicendo, che, in genere, nei locali romani sono realizzati in modo indecente e che qui sono invece perfetti – Pino sa proporre anche sempre qualcosa di nuovo e d’insolito. Per esempio: l’altra sera abbiamo apprezzato molto un eccellente White spyder, robusto e lievemente aggressivo, molto adatto per il tardo dopocena. Benché incline alla ricerca, Pino non indulge mai a quelle ammucchiate di sapori uniti a tutti i costi, ai quali preferisce l’equilibrio e l’assennatezza di pochi e raffinati accostamenti.

Nel nostro abituale punto di riferimento, il Bar Mastrostefano, al centro della barocca piazza Navona, è rimasto, per nostra fortuna, Claudio, che di Pino è il discepolo e spirituale erede. Noi lo abbiamo visto muovere i primi passi e dare i primi colpi di shaker e lo abbiamo poi visto crescere, passando dalle titubanze iniziali a una sempre maggiore sicurezza, che la timidezza di un carattere gentile non intralcia. Oggi i suoi gesti sono precisi e sicuri, come di chi sa bene officiare un rito in cui crede. I suoi cocktail e i suoi long drink hanno tutti i crismi della classe, che, sul campo, non potrà che affinarsi ulteriormente. Anche Claudio ama tentare qualche esperimento: l’ultima sua proposta l’abbiamo trovata eccezionale: Select, vodka, arancia, angostura e ghiaccio per una bevanda profumatissima, dall’effetto aperitivo o digestivo (a nostro parere) il cui colore ci ha ricordato la tunica di un cardinale seicentesco, così che – dal momento che ancora Claudio non ha trovato il nome – ci è venuto in mente di chiamarlo Mazarino.

37 – Novembre ‘87

domenica, 1 novembre 1987

La stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale diS. Cecilia è stata inaugurata da un concerto blasfemo. Nell’auditorium di via della Conciliazione il 17/18 e 19 di ottobre è stata orrendamente scempiata dal signor Wolfgang Sawallisch (ci rifiutiamo di riconoscergli il titolo di Maestro) la musica di Mozart.

Indubbiamente anche orchestra e coro hanno contribuito al delitto. Il primo tempo del concerto era costituito dalla Sinfonia in Do maggiore K.551 («Jupiter» ), opera sovrannaturale e umanissima che può da sola rendere immortale non solo il suo compositore ma tutta la cultura occidentale. L’allegro iniziale, fin dal rotolio delle prime cinque note, è stato reso con opacità; poi le smagliature si sono fatte sempre più evidenti, gli attacchi venivano dati in ritardo, regnava la più assoluta incapacità a rendere le coloriture; gli archi stridevano rincorsi disperatamente dai fiati, in un insieme che ha completamente sfasciato la possente e sottilissima trama dei meravigliosi temi e del loro prodigioso sviluppo. L’andante è risultato opaco e melenso; addirittura raccapricciante una macroscopica stonatura di tutta l’orchestra in un passaggio ascendente in cui tutti gli strumenti zompettavano con un ridicolo effetto enarmonico. Il minuetto è stato interpretato in modo rigido e pesante, come un valzeruccio di balera.

Un imprecisissimo Do Re Fa Mi ha dato inizio al disastro del finale. Mozart ha lasciato con questo finale la sintesi assoluta della «musica»: melodie perfette intrecciate in un contrappunto irraggiungibile. Fuga, fugato? È inutile far l’analisi di questo brano universalmente noto: le nostre orecchie hanno soltanto percepito però brandelli cincischiati di quello che avrebbe dovuto essere il gioiello mozartiano. Stonature, tempi imprecisi, tutto sempre troppo lento o troppo veloce. Il poliedrico unirsi e sciogliersi delle varie linee veniva troppo spesso interpretato come pesante successione di accordi.

Né le sorti del concerto si sono risollevate nel secondo tempo. La fresca sacralità della Messa in Do maggiore K.317, non certo opera minore (ammesso che esistano di Mozart opere minori) come alcuni dicono, è stata completamente distrutta da un’esecuzione da fanfara dei bersaglieri, cui si è aggiunto anche il coro assolutamente opaco e strillante. I solisti, il soprano Gunnel Bohman, il contralto Hanna Schwarz, il tenore Alejandro Ramírez e il basso Kurt Moli sono stati totalmente sommersi e hanno disperatamente annaspato con la gola strozzata per cercare di farsi percepire. Il signor Sawallisch e tutti i suoi compagni avrebbero fatto meglio ad infilare la porta, uscire dalla sala e correre per via della Conciliazione.

Per onestà precisiamo che quanto sopra si riferisce all’esecuzione di domenica 18 ottobre!

37 – Novembre ‘87

domenica, 1 novembre 1987

In un linguaggio laccato, prezioso e semi-inventato Vincenzo Consolo costruisce immagini luccicanti e variopinte, cloisonneés, nel suo Retablo (Sellerio ed. Palermo, 1987, pagg. 161, Lit. 8.000) che segue ed insegue le vicende immaginose del pittore Don Fabrizio Clerici e del suo servo Isidoro in una Sicilia settecentesca stipata di altari, ruderi, topi e briganti. Un capriccio rococò del letterato vuole trasportare in quel tempo e in quell’atmosfera la persona e l’opera del pittore nostro contemporaneo Fabrizio Clerici, milanese di nascita e romano d’adozione. Il racconto è illustrato dallo stesso Clerici (quello vero) il quale già con le essenziali linee dei suoi schizzi sbuca dalle pagine del libro con l’incisività del suo segno ammiccante e autoironico. Quello che vogliamo dire è che la pittura e la persona di Clerici hanno anche maggiore solidità del personaggio un po’ manierato che si è preteso di ricavarne; e la sua forza vien fuori subito fin da quel particolare della Grande confessione palermitana (1954) riprodotto sulla copertina del volumetto. Noi abbiamo visto questa grande tela esposta in questi giorni insieme con le altre opere del periodo 1955-1985 nel Palazzo Reale di Caserta in una mostra di rara suggestione. La rivisitazione del barocco e della classicità compiuta da Clerici in questa tela e nelle due tele del Sonno romano (1955-1985) ha un respiro ben più profondo del prurito pseudo-illuministico del suo omonimo di carta. Anche l’archeologica passione di Clerici tradotta sulle tele in spaventose immagini di labirinti e di città deserte sovrastate da trombe d’aria rivela un’ansia di penetrare il mistero e insieme la disperazione di non poterlo fare, che sono molto più vicine alla sensibilità contemporanea che non la baldanzosa superiorità del superficiale emulo di Winckelmann davanti a Selinunte.
La stessa vicenda della statua dell’efebo di Mozia, così come è narrata, risulta esile se confrontata coi fogli sui quali la mano di Fabrizio Clerici ha cercato di raccontare l’emozione che un corpo di pietra può trasmettere a chi ne sa vedere la bellezza e leggere la storia. È chiaro a questo punto che non ci è importato tanto di parlare del libro di Consolo, quanto di prendere da esso il pretesto per mettere a confronto due modi diversi di raccontare il mondo: uno con parole, che forse troppo si perdono nell’inseguimento di uno stile e l’altro con segni e colori, sempre essenziali e convincenti, che non hanno bisogno di descrivere un mondo, credibile o incredibile che sia, perché lo creano.

La musica e il cervello (Piccin ed., 1987, pagg. 475, Lit. 50.000) curato da Macdonald Critchley e R. A. Henson, raccoglie una serie di «studi sulla neurologia della musica» di autori vari, non recentissimi, anche se appena tradotti, piuttosto male, da Daniela Tarquini. Le ricerche sulla psicologia della musica non sono molte. Dalla fine dell’Ottocento a oggi i pochi volumi ad esse dedicate sono però o cretini o totalmente inutili. I cosiddetti scienziati sperimentali non sono mai riusciti a dire qualcosa di appena sensato intorno all’arte. Qualche banalità, imprecisi cincischiamenti anatomo-fisiologici, riguardanti il sistema nervoso e gli organi di senso che non sono mai stati di qualche utilità né per il ricercatore né per l’artista. Anche questo volume segue lo stesso filone. I titoli dei vari capitoli sarebbero allettanti: L’ereditarietà del talento musicale, Talento musicale: un’interpretazione neuro psicologica, La musica e i disturbi mentali, etc. a scorrerli si ha l’impressione di avere a disposizione una vera e propria summa di quanto si è detto sui rapporti tra musica e neurofisiologia umana. Purtroppo però assolutamente tutti gli interventi si concludono con un

«… però non si hanno elementi certi…».

Indubbiamente Socrate ci ha insegnato che la consapevolezza di non sapere è già qualcosa, ma quando il non sapere è frutto di indagini sgangherate, ridicole e incompetenti, diventa inutile raccoglierlo in costosi volumi. Si spendono pagine e pagine per descrivere analiticamente gli apparati dell’udito e della fonazione, non meglio di quanto faccia qualunque testo universitario in uso; però poi la percezione ed elaborazione di quei dati e del loro rapporto con la musica vengono svolte in modo discontinuo e impreciso, sempre riprese da capo e ripetute.

Così pure avviene col problema dei rapporti tra linguaggio parlato e linguaggio musicale, a proposito dei quali gli autori ignoranti musicalmente, risultano anche epigoni tardivi delle più viete teorie linguistiche. Il fondo della vacuità è toccato proprio dal capitolo sui disturbi mentali in cui W. H. Trethowan dice che i grandi musicisti non necessariamente sono matti, sebbene qualcuno lo sia stato. Oltre non si va, a parte l’annotazione gratuitamente buttata lì che i musicisti si sono sposati poco.

Affermazioni gratuite e grottesche come questa sono disseminate in tutto il libro. Si dice, come se fosse una grande scoperta, che tra i compositori solo qualcuno è geniale. Ci sono anche affermazioni del tipo:

«…per continuare a sviluppare il talento personale, il musicista deve usare il suo tempo nel modo più redditizio e questo comporta l’esclusione di altri interessi.» (!) (pag. 193). Vengono date per scontate affermazioni deliranti come quella attribuita a Lehman a proposito della quantificazione e della valutazione dell’abilità musicale: «l’intelligenza potrebbe essere misurata prima che definita e lo stesso vale per l’attitudine alla musica».

Il colmo si tocca quando riferendo il caso di John Stanley, organista cieco del XVIII secolo, si dice che «…spesso diresse degli oratorii senza guardare lo spartito» (pag. 14; citazione da Body 1974).

37 – Novembre ‘87

domenica, 1 novembre 1987

Antonio Salieri fu un compositore molto noto ai suoi contemporanei; nacque a Legnago in provincia di Verona nel 1750 e morì a Vienna nel 1825. Compositore di corte e maestro di cappella dell’imperatore asburgico, ebbe una vita artistica e organizzativa molto vivace; inaugurò il Teatro alla Scala con la sua opera «Europa riconosciuta» nel 1778 e fu tra i fondatori del Conservatorio musicale di Vienna. Si dedicò con molta cura all’insegnamento ed ebbe tra i suoi allievi Beethoven e Schubert. Le sue composizioni teatrali, religiose e strumentali molto note ai suoi tempi caddero poi nell’oblio. Noi abbiamo ascoltato qualcosa e letto poco di più delle sue composizioni, restando a dire il vero completamente indifferenti: un po’ di Gluck affiorante qua e là, ma per il resto nulla ci parve mai essere particolarmente apprezzabile. La potenza dei mass-media ha fatto parlare e straparlare di questo opaco compositore di tanti anni fa, dopo il film di Milos Forman «Amadeus» che lo vede terribile e spietato assassino di Mozart. Al teatro Olimpico, L’Accademia Filarmonica ha realizzato per il ciclo «Vienna: capitale della musica italiana» una rappresentazione de La Grotta di Trofonio opera comica in due atti, su libretto di G. B. Casti, con la regia di Sandro Sequi.
La trama consiste in un piccolo gioco meccanico basato sulle arti magiche di Trofonio capaci di far cambiare carattere e umore ai personaggi. Così le due figlie di Aristone la compassata Ofelia e la leggera Dori, fidanzate l’una al saggio Artemidoro e l’altra al libertino Plistene, si trovano mutate d’animo ed insofferenti dei loro spasimanti: questo nel primo atto. Nel secondo atto, mentre le fanciulle sono tornate al primitivo umore i fidanzati hanno subìto lo stesso mutamento per cui ancora le coppie risultano scombinate. Ci vorrà l’intervento diretto di Trofonio per spiegare ogni cosa e far tornare tutto al suo posto. La musica che riveste questo misero libretto è ancora più miserevole; per Antonio Salieri non c’è proprio salvezza; non è un compositore mediocre: è un pessimo e volgare, oltre che monotonissimo, musicante.

Le sue sono melodiuzze prive di respiro: la tonica e la dominante regnano incontrastate e qua e là affiorano banalissime modulazioni; l’orchestrazione è quanto di più stantìo e convenzionale si possa immaginare; indubbiamente l’armonizzazione è corretta, anzi è persino troppo corretta. Questa è musica che al massimo potrebbe sostenere uno spettacolo per burattini. Salieri si rivela completamente privo di sapienza teatrale: tutto è statico e le note non permettono di costruire nessuna atmosfera scenicamente valida. L’orchestra dell’Amit è stata diretta da Franco Petracchi in modo rigido e inespressivo, senza alcun tentativo di colorire o ravvivare una partitura così spenta. I cantanti han fatto del loro meglio: Angelo Nardinocchi nelle vesti del vecchio padre e Martin Egel in quelle di Trofonio hanno cercato di fare il possibile per dare una esecuzione pulita e sensata; più opachi benché nei limiti di una accettabile correttezza i quattro giovani: Daniela Mazzucato, Elisabeth Norberg-Schulz, Mario Bolognesi e Lucio Gallo. Il coro maschile era diretto da Pablo Colino e al cembalo siedeva Alessandro De Marchi. Le scene preziose e i costumi divertenti erano di Giuseppe Crisolini Malatesta.

37 – Novembre ‘87

domenica, 1 novembre 1987

Amadeus di Peter Shaffer è un testo ormai persin troppo noto, già visto sulle scene romane al teatro Argentina or non è molto ed oggi riproposto, sulla scia delle glorie cinematografiche, sulla scena del teatro Eliseo, nella traduzione di Masolino D’Amico.
L’idea teatrale è indubbiamente geniale: non è il caso però di andarvi a ricercare una verità storica e neppure discettare su una presunta aderenza al vero delle psicologie dei personaggi il meccanismo si regge esclusivamente su di un nome, quello di Wolfgang Amadeus Mozart. Non c’è persona, anche tra le meno colte del mondo occidentale, che non abbia introiettato il senso della genialità sublime e divina legata a quel nome e a quella musica. Anche il personaggio dell’antagonista di Mozart: l’affermato musicista di corte Antonio Salieri, ha in quest’opera una grandezza teatrale indiscutibile. Non è un mediocre, come afferma di essere, nella sua disperazione, ma è umanamente geniale nell’intuizione esatta della grandezza dell’odiatissimo ed amatissimo rivale. Non per nulla due sono i termini cui fanno costante riferimento le sue passioni: Dio e Mozart. Non potendo nulla contro l’Uno e incapace di amare l’altro non può che volere la sua e la propria distruzione. In alcuni momenti delle battute finali Salieri sembra addirittura assumersi la parte di Giuda.
Molto astuta è la costruzione del personaggio di Mozart, che oscilla tra un bamboleggiante ritratto di coprofilo e lampi di coraggiosa grandezza. Nonostante la profondità degli assunti, non è tutto oro quello che luccica nel teatro di Shaffer; ci sono anche effettacci da drammone popolare e sberleffi volgarotti, che però non ne compromettono l’efficacia drammatica. La regia di Mario Missiroli ha calibrato bene tutti gli elementi, inserendo nel duello principale la vivacità di personaggini minori ben orchestrati. Pessima sotto ogni aspetto ci è parsa l’interpretazione del personaggio del compositore italiano resa da Umberto Orsini, il quale ha dimostrato di avere al suo arco due sole frecce interpretative: l’una, un’accelerazione parossistica delle battute con effetto quasi da scioglilingua e l’altra un’esasperante lentezza nel dire, senza neppure che risultasse chiara la ragione di una o dell’altra scelta. Inqualificabile, perché al di là di qualunque giudizio, il birignao di Valentina Sperlì nel ruolo di Costanza.
La figuretta di Mozart, affidata a Giuseppe Cederna, non ci è parsa del tutto negativa, anche se abbiamo da ridire sull’interpretazione un po’ sgangherata a causa dell’accento meneghino così marcato, e di una petulanza eccessiva nel primo tempo. Nel secondo tempo, invece, l’attore era capace di momenti di efficacia drammatica e di intensa umanità. Gli altri validi collaboratori erano: Remo Foglino, Maurizio Romoli, Paolo Triestino, Guerrino Crivello, Paolo Hermanin e Mario Patanè.
Le musiche scelte da Paolo Terni, qualche brano di Salieri e molti di Mozart, non ci sono parse ben dosate, tanto che sembravano estranee all’azione drammatica; per di più erano emesse da un pessimo apparecchio.
Le scene e i costumi erano di Paolo Tommasi.

Uno spettacolo ben confezionato che però contiene anche qualcosa di più è quello di Peppe e Concetta Barra, Signori, io sono il comico, in scena alla Sala Umberto in Via della Mercede. In due ore si passa dall’umorismo schietto al patetismo strappa-cuore e a momenti di autentica raffinatezza. Si inizia con un colpo di grande effetto: Concetta, sola, quasi al buio, vestita col costume delle donne della sua isola, Procida, canta con la voce suggestiva e profonda, senza alcun accompagnamento strumentale, il Salve Regina, nel latino un po’ sconclusionato che, probabilmente, ha imparato insieme alle sua compagne a cantare in chiesa durante le funzioni nell’antica abbazia di S.Michele.
Con caleidoscopica successione e ritmo ben dosato, seguono situazioni ed atmosfere diversissime: parodie di celebri canzoni, come quella, irresistibile, di Balocchi e Profumi, in cui Peppe Barra, spietato, rende tutta l’insopportabilità di una pestifera bambinaccia querula ed impicciona che, giustamente, la madre non può che, infine, soffocare. E poi poesiole e battute anche un po’ volgarotte, accompagnate da momenti di grande virtuosismo tecnico ed interpretativo, come il duetto rossiniano sul verso del «miao» di due gatti in amore. Concetta è sempre efficacissima quando canta e la sua voce è ricca di effetti, ma quando abbandona il puro canto, per la recitazione da cabaret, non sempre riesce a mantenere il controllo degli effetti e rischia di cadere nell’ovvio. Cosa questa che non succede mai invece a Peppe Barra, che riesce sempre, con estremo buongusto, a controllare qualunque situazione scenica, anche la più ambigua e sboccata. Due volte ci ha regalato qualcosa di veramente prezioso e raffinato. Una volta quando la sua voce ha cantato come meglio non si sarebbe potuto le micro-opere ottocentesche di F.Ricci, ricavate dalle antiche «grida», per noi irrimediabilmente perdute, con cui i venditori ambulanti solevano attirare l’attenzione dei compratori: melopee nate nei vicoli di Napoli, dalle quali il compositore ha saputo trarre, con poche modifiche gustosissime romanze d’opera, tra Donizetti e Verdi, articolate in un linguaggio pre-diatonico, avvolto, sorretto e contraddetto dalle armonie e dalle aggiunte melodiche del linguaggio tonale. Una seconda volta ci ha emozionato con le sue bellissime variazioni su Cecerenella, durante le quali si trasformava in cantore stralunato e poetico, drammatico e folle, di grande sapienza musicale, oltre che interpretativa. Forse qui, per il pubblico romano, Peppe Barra ha purtroppo un po’ smorzato l’arditezza che ci aveva lasciati ammirati la scorsa estate, quando lo stesso spettacolo ci aveva presentato ad Ischia, ma forse era consapevole di giocare questa volta «fuori casa». Parte non secondaria nell’ottima riuscita ha avuto la bravura di un gruppo di strumentisti che hanno eseguito con precisione e buon gusto le musiche orchestrate, arrangiate e parafrasate benissimo da Antonio Florio; con l’ottimo Alfio Antico alle tammorre, essi erano: Arturo Basile Giannini (chitarra), Stefano Bozzoli (fagotto), Antonio Di Francia (violoncello e mandolino), Marco Ferrari (clarinetto), Claudio Mauro (flauto), Angelo Melillo (oboe), Antonio Porpora Anastasio (pianoforte).