37 – Novembre ‘87

novembre , 1987

Amadeus di Peter Shaffer è un testo ormai persin troppo noto, già visto sulle scene romane al teatro Argentina or non è molto ed oggi riproposto, sulla scia delle glorie cinematografiche, sulla scena del teatro Eliseo, nella traduzione di Masolino D’Amico.
L’idea teatrale è indubbiamente geniale: non è il caso però di andarvi a ricercare una verità storica e neppure discettare su una presunta aderenza al vero delle psicologie dei personaggi il meccanismo si regge esclusivamente su di un nome, quello di Wolfgang Amadeus Mozart. Non c’è persona, anche tra le meno colte del mondo occidentale, che non abbia introiettato il senso della genialità sublime e divina legata a quel nome e a quella musica. Anche il personaggio dell’antagonista di Mozart: l’affermato musicista di corte Antonio Salieri, ha in quest’opera una grandezza teatrale indiscutibile. Non è un mediocre, come afferma di essere, nella sua disperazione, ma è umanamente geniale nell’intuizione esatta della grandezza dell’odiatissimo ed amatissimo rivale. Non per nulla due sono i termini cui fanno costante riferimento le sue passioni: Dio e Mozart. Non potendo nulla contro l’Uno e incapace di amare l’altro non può che volere la sua e la propria distruzione. In alcuni momenti delle battute finali Salieri sembra addirittura assumersi la parte di Giuda.
Molto astuta è la costruzione del personaggio di Mozart, che oscilla tra un bamboleggiante ritratto di coprofilo e lampi di coraggiosa grandezza. Nonostante la profondità degli assunti, non è tutto oro quello che luccica nel teatro di Shaffer; ci sono anche effettacci da drammone popolare e sberleffi volgarotti, che però non ne compromettono l’efficacia drammatica. La regia di Mario Missiroli ha calibrato bene tutti gli elementi, inserendo nel duello principale la vivacità di personaggini minori ben orchestrati. Pessima sotto ogni aspetto ci è parsa l’interpretazione del personaggio del compositore italiano resa da Umberto Orsini, il quale ha dimostrato di avere al suo arco due sole frecce interpretative: l’una, un’accelerazione parossistica delle battute con effetto quasi da scioglilingua e l’altra un’esasperante lentezza nel dire, senza neppure che risultasse chiara la ragione di una o dell’altra scelta. Inqualificabile, perché al di là di qualunque giudizio, il birignao di Valentina Sperlì nel ruolo di Costanza.
La figuretta di Mozart, affidata a Giuseppe Cederna, non ci è parsa del tutto negativa, anche se abbiamo da ridire sull’interpretazione un po’ sgangherata a causa dell’accento meneghino così marcato, e di una petulanza eccessiva nel primo tempo. Nel secondo tempo, invece, l’attore era capace di momenti di efficacia drammatica e di intensa umanità. Gli altri validi collaboratori erano: Remo Foglino, Maurizio Romoli, Paolo Triestino, Guerrino Crivello, Paolo Hermanin e Mario Patanè.
Le musiche scelte da Paolo Terni, qualche brano di Salieri e molti di Mozart, non ci sono parse ben dosate, tanto che sembravano estranee all’azione drammatica; per di più erano emesse da un pessimo apparecchio.
Le scene e i costumi erano di Paolo Tommasi.

Uno spettacolo ben confezionato che però contiene anche qualcosa di più è quello di Peppe e Concetta Barra, Signori, io sono il comico, in scena alla Sala Umberto in Via della Mercede. In due ore si passa dall’umorismo schietto al patetismo strappa-cuore e a momenti di autentica raffinatezza. Si inizia con un colpo di grande effetto: Concetta, sola, quasi al buio, vestita col costume delle donne della sua isola, Procida, canta con la voce suggestiva e profonda, senza alcun accompagnamento strumentale, il Salve Regina, nel latino un po’ sconclusionato che, probabilmente, ha imparato insieme alle sua compagne a cantare in chiesa durante le funzioni nell’antica abbazia di S.Michele.
Con caleidoscopica successione e ritmo ben dosato, seguono situazioni ed atmosfere diversissime: parodie di celebri canzoni, come quella, irresistibile, di Balocchi e Profumi, in cui Peppe Barra, spietato, rende tutta l’insopportabilità di una pestifera bambinaccia querula ed impicciona che, giustamente, la madre non può che, infine, soffocare. E poi poesiole e battute anche un po’ volgarotte, accompagnate da momenti di grande virtuosismo tecnico ed interpretativo, come il duetto rossiniano sul verso del «miao» di due gatti in amore. Concetta è sempre efficacissima quando canta e la sua voce è ricca di effetti, ma quando abbandona il puro canto, per la recitazione da cabaret, non sempre riesce a mantenere il controllo degli effetti e rischia di cadere nell’ovvio. Cosa questa che non succede mai invece a Peppe Barra, che riesce sempre, con estremo buongusto, a controllare qualunque situazione scenica, anche la più ambigua e sboccata. Due volte ci ha regalato qualcosa di veramente prezioso e raffinato. Una volta quando la sua voce ha cantato come meglio non si sarebbe potuto le micro-opere ottocentesche di F.Ricci, ricavate dalle antiche «grida», per noi irrimediabilmente perdute, con cui i venditori ambulanti solevano attirare l’attenzione dei compratori: melopee nate nei vicoli di Napoli, dalle quali il compositore ha saputo trarre, con poche modifiche gustosissime romanze d’opera, tra Donizetti e Verdi, articolate in un linguaggio pre-diatonico, avvolto, sorretto e contraddetto dalle armonie e dalle aggiunte melodiche del linguaggio tonale. Una seconda volta ci ha emozionato con le sue bellissime variazioni su Cecerenella, durante le quali si trasformava in cantore stralunato e poetico, drammatico e folle, di grande sapienza musicale, oltre che interpretativa. Forse qui, per il pubblico romano, Peppe Barra ha purtroppo un po’ smorzato l’arditezza che ci aveva lasciati ammirati la scorsa estate, quando lo stesso spettacolo ci aveva presentato ad Ischia, ma forse era consapevole di giocare questa volta «fuori casa». Parte non secondaria nell’ottima riuscita ha avuto la bravura di un gruppo di strumentisti che hanno eseguito con precisione e buon gusto le musiche orchestrate, arrangiate e parafrasate benissimo da Antonio Florio; con l’ottimo Alfio Antico alle tammorre, essi erano: Arturo Basile Giannini (chitarra), Stefano Bozzoli (fagotto), Antonio Di Francia (violoncello e mandolino), Marco Ferrari (clarinetto), Claudio Mauro (flauto), Angelo Melillo (oboe), Antonio Porpora Anastasio (pianoforte).