37 – Novembre ‘87

novembre , 1987

Da Giggetto al Portico di Ottavia è un ristorante da tempo immemorabile inserito nella tradizione romana. Noi siamo affezionati a questo posto che ci ricorda alcune belle sere estive, trascorse sedendo ai suoi tavoli sulla via principale del ghetto, nei primi tempi della nostra vita romana, quando tutto in questa città ci sembrava meraviglioso. Abbiamo avuto perciò molte resistenze prima di deciderci a dire finalmente il vero sulla cucina di questo luogo ed è con molta malinconia nel cuore che confessiamo di aver mangiato malissimo, ed ora più di allora. La nostra ultima visita è capitata in una giornata d’autunno dolcissima, resa appena un po’ triste dalla banalità opprimente della saletta da cui guardavamo fuori il cielo grigio-azzurro. La lista comprendeva tutto ciò che di tipico ci si poteva aspettare, ma non per questo era scoraggiante, anzi, la tradizione ci affascina sempre un po’. Anche il servizio sin da subito sconclusionato – il cameriere destro non sapeva quello che faceva il sinistro – non aveva disturbato il nostro quieto umore.
Il carciofo alla giudia con cui abbiamo incominciato era appena sopportabile, ma il baccalà fritto e i fiori di zucca erano crostolosi e imbevuti d’olio all’inverosimile. Tra i primi, i rigatoni con la pajata sono stati un vero scherzetto: assolutamente crudi, duri stecchiti, sui quali ovviamente non poteva amalgamarsi alcun sugo e tantomeno quello, che oltretutto pareva avere l’età di Matusalemme; il risotto coi porcini era solo anemico; la zuppa di pesce, dall’aspetto trionfale, era ingannatrice: le cozze restavano ostinatamente chiuse e i pochi gamberoni e i pezzetti di scorfano nuotavano nell’acquoso brodetto, stagnante sopra enormi fettone di pane. Per quel che riguarda i secondi, cui bisogna dire che i fegatelli al crostone erano d’equivoco aspetto e suscitavano scatologiche associazioni; mentre la coda alla vaccinare ci ha portato ad una fondamentale scoperta zoologica, che cioè l’appendice posteriore delle vacche è composta quasi al cento per cento di sedano; il bollito guarnito è riuscito ancora a scuoterci: le poche fettine di carne erano semplicemente fritte e la guarnizione consisteva in una gelida cicoria bollita. Abbiamo visto arrivare alcuni dolci dall’esterno, per cui riteniamo che qualche pasticciere dei dintorni sia responsabile degli anodini dessert.
Dopo aver assaggiato e messo da parte il frascataccio della casa, siamo passati ad un Formentino del Collio, banale, ma non sgradevole e profumato; e poi un vino novello di S.Costanza che non aveva però l’allegra vivacità che da questi vini abitualmente ci si aspetta.
Il conto tendeva all’alto, se pur senza esagerazione.

Da quando Pino, il bravo barman nostro amico si è trasferito al Bar dell’albergo Eliseo, in via Pinciana, ci è diventato più scomodo fare da lui le nostre scappatine serali sottocasa, in cerca di qualche goccetto di liquore e simpatia. Però il locale in cui Pino col suo nuovo collaboratore, Sabino, esercita ora le sue funzioni, è un luogo quanto mai accogliente ed intimo, nel quale, la sera, è possibile anche ascoltare un gradevole pianista dalla voce di velluto che, con discrezione tiene compagnia. Gli ingredienti che Pino e Sabino miscelano con tanta perizia sono prodotti della migliore qualità e – oltre ai classici che vanno dal Negroni, al Manhattan, allo Stinger e via dicendo, che, in genere, nei locali romani sono realizzati in modo indecente e che qui sono invece perfetti – Pino sa proporre anche sempre qualcosa di nuovo e d’insolito. Per esempio: l’altra sera abbiamo apprezzato molto un eccellente White spyder, robusto e lievemente aggressivo, molto adatto per il tardo dopocena. Benché incline alla ricerca, Pino non indulge mai a quelle ammucchiate di sapori uniti a tutti i costi, ai quali preferisce l’equilibrio e l’assennatezza di pochi e raffinati accostamenti.

Nel nostro abituale punto di riferimento, il Bar Mastrostefano, al centro della barocca piazza Navona, è rimasto, per nostra fortuna, Claudio, che di Pino è il discepolo e spirituale erede. Noi lo abbiamo visto muovere i primi passi e dare i primi colpi di shaker e lo abbiamo poi visto crescere, passando dalle titubanze iniziali a una sempre maggiore sicurezza, che la timidezza di un carattere gentile non intralcia. Oggi i suoi gesti sono precisi e sicuri, come di chi sa bene officiare un rito in cui crede. I suoi cocktail e i suoi long drink hanno tutti i crismi della classe, che, sul campo, non potrà che affinarsi ulteriormente. Anche Claudio ama tentare qualche esperimento: l’ultima sua proposta l’abbiamo trovata eccezionale: Select, vodka, arancia, angostura e ghiaccio per una bevanda profumatissima, dall’effetto aperitivo o digestivo (a nostro parere) il cui colore ci ha ricordato la tunica di un cardinale seicentesco, così che – dal momento che ancora Claudio non ha trovato il nome – ci è venuto in mente di chiamarlo Mazarino.