Psicoanalisi contro n. 37 – La geniale confusione

novembre , 1987

«Sintomo: (symptoma: accidente, caso) Manifestazione di una alterazione organica o funzionale apprezzabile obiettivamente o soggettivamente; più propriamente: i dati obiettivi rilevati dal medico vengono indicati come segni» (cfr. V.E. Lauricella, Dizionario medico, USES, Firenze).

Il sintomo è quindi una manifestazione eccezionale di una alterazione, un segno che può essere visto dall’esterno o un disagio percepito soltanto dal soggetto. Con l’esame obiettivo, il medico ne evidenzierà alcuni aspetti che metterà in relazione tra di loro, tentando di ipotizzarne una causa. Questo almeno avviene di norma per i sintomi organici.
Come ho detto altrove, la separazione tra «soma» e «psiche» è dell’uomo, ma non è nell’uomo. L’uomo l’ha operata perché, in alcune situazioni, distinguere gruppi di manifestazioni sintomatiche da altri, può fare comodo. Questo non vale soltanto per i fenomeni patologici, ma anche per tutto il funzionamento di quella indissolubile unità che è la persona. Scindere l’unità dell’uomo in psiche e soma non ha molto senso, tuttavia ha acquistato un significato, che io ritengo improprio, ma dal quale non è possibile liberarsi con facilità, soprattutto in campo medico. La scienza medica ha assimilato questa pretesa di separazione dalle osservazioni dei filosofi, i quali, a loro volta, l’hanno presa dal senso comune. Forse non sarà mai possibile sgombrare il campo da questa scissione, anche perché in mancanza di essa si rischia di non avere sufficienti parametri di lettura nosografica.
Qualcuno già ha tentato di superare questa separazione applicando una lettura che vorrebbe realizzare l’unione tra ciò che è del corpo e ciò che è psichico e ipotizzando quelli che vengono definiti disturbi «psicosomatici», come se fossero però una particolare famiglia di sintomi.
In realtà tutte le espressioni dell’essere umano, patologiche e non, dovrebbero essere interpretate psicosomaticamente. I gesti, i comportamenti, le parole dell’uomo sono sempre la manifestazione di qualcosa che sta loro dietro e che è assai poco comprensibile.
I sintomi sono, è vero, «manifestazioni», ma tutto l’uomo, nella pienezza del suo essere è una manifestazione: è una «epifania» carica di sacralità, in quanto l’uomo partecipa del divino. L’uomo, come la divinità, è incomprensibile eppure si realizza manifestandosi ad altri esseri che a loro volta esprimono il loro essere nel mondo con segni e sintomi. Voglio con ciò affermare che l’essere umano come epifania di se stesso non è necessariamente manifestazione di una patologia.

2.
Torniamo ora alla perversa, ma indispensabile distinzione tra soma e psiche.
Il sintomo, in senso stretto, è quindi una manifestazione accompagnata da disagio. I sintomi «somatici», seppure con qualche difficoltà, sono abbastanza leggibili: non è difficile avere una percezione oggettiva di un’eruzione cutanea, oppure valutare, per mezzo di esami di laboratorio, un’alterata funzionalità epatica. Sappiamo però che le sensazioni di sofferenza soggettiva non corrispondono quasi mai esattamente al luogo in cui il disagio o la malattia stanno aggredendo la persona. C’è una stupida opinione diffusa, fatta propria anche da qualche medico tardo-romantico, per cui un organismo sarebbe sano e in buone condizioni quando non è percepito. Se così fosse davvero, i sani sarebbero completamente pazzi, immersi in un delirio di depersonalizzazione, incapaci di stare dentro la loro stessa pelle. Sano è piuttosto colui che percepisce in massimo grado tutte le sensazioni che gli provengono non solo dall’esterno, ma anche dall’interno del proprio corpo: una leggera alterazione cardiaca, una piacevole sensazione agli organi genitali, un brivido nella schiena, un gorgoglio intestinale, la secchezza delle fauci, un leggero stordimento, e così via. Sensazioni piacevoli o spiacevoli che diventano sempre anche sensazioni psichiche. Stati di eccitazione, come quella sessuale, per esempio, coinvolgono tutte le componenti fisiche e psichiche della persona. Qualcuna di queste sensazioni, però può essere più dolorosa di altre, violentemente dolorosa, senza che vi debba corrispondere necessariamente dall’esterno un adeguato riscontro obiettivo, eppure non per questo le si deve dare meno ascolto. Il modo stesso di percepire i sintomi è a sua volta sintomatico. I medici ascoltano mal volentieri le querule lamentazioni dei loro pazienti che descrivono sintomatologie improbabili e bizzarre, eppure se superassero la loro boriosa sicumera, potrebbero trarre vantaggio anche da tali assurde descrizioni e saprebbero come inserirle in un quadro sintomatico, insieme con i dati di laboratorio ed i risultati del loro esame obiettivo. Purtroppo i terapeuti del corpo – ed anche quelli della psiche – poco controllano i loro sentimenti di onnipotenza e la loro incapacità di ascoltare gli altri fino in fondo: questa è una delle cause della loro debolezza e spesso della loro impotenza terapeutica.

3.
Sempre sulla falsariga di questa impropria distinzione tra psiche e soma si pone la cosiddetta medicina psico-somatica quando riconosce in alcune malattie come l’ulcera gastrica, l’ipertensione essenziale, la colite ulcerosa e in molte affezioni reumatoidi un’origine prevalentemente psichica. In questi casi le sensazioni dolorose del soggetto hanno anche un riscontro obiettivo ed è evidente la corruzione di organi e apparati.
Alcuni antichi psicosomatologi hanno parlato addirittura di una vera e propria «induzione psichica» che provoca la malattia di un organo volutamente reso più debole e quindi più facilmente aggredibile dagli agenti patogeni interni o esterni. Questo meccanismo di induzione consisterebbe nella voglia, nel bisogno di ammalarsi: per odio, per ricatto, per fuga, per difesa, per vendetta, per meccanismi psichici insomma, consapevoli o inconsci. Questa concezione, a mio avviso, non è sbagliata, anzi può fornire utili parametri di giudizio; ma è riduttiva e semplicistica, perché fa originare il meccanismo dall’interno del soggetto, senza considerare a sufficienza gli effetti del rapporto tra l’io e gli altri.
Spesso sono infatti gli altri ad indurre la malattia.
A questo proposito, vorrei sfatare un luogo comune: ci si può ammalare per diverse ragioni, ma non si può voler star male per amore.
Questa almeno è la mia convinzione, malgrado quello che cantano i più romantici lieder, malgrado l’amore che porto per la figura della Violetta verdiana, la Margherita Gautier di Dumas, la Alphonsine Duplessis, la cui tomba vado sempre a visitare commosso nel piccolo cimitero di Montmartre.
Se si muore, credendo di morire per amore, non ci si è però resi conto che, ad un certo punto qualcosa è sopravvenuto a uccidere quell’amore, sostituendolo con sentimenti, come la vendetta o il ricatto, che con esso hanno ben poco a che fare. Io sono convinto che nell’amore c’è sempre la possibilità della salute, anzi, che non c’è salvezza al di fuori dell’amore.

4.
Accanto alle malattie considerate finora, vi sono poi alterazioni funzionali degli apparati organici e sensazioni dolorose che non trovano alcun riscontro obiettivo: le cosiddette «conversioni isteriche», come si usava definirle.
Sono queste sensazioni organiche ben descrivibili dal soggetto che le prova: anestesie, parestesie, iperestesie, paralisi, cecità, che non sono «illusioni», ma sono reali sofferenze.
Non risultano però mai negli apparati dolenti alterazioni organiche riscontrabili strumentalmente e si può notare inoltre che le percezioni soggettive non seguono nessun coerente schema anatomo-fisiologico, ma piuttosto disegni fantasiosi che corrispondono all’immaginazione dei pazienti.
Nonostante tutto ciò, è importantissimo ascoltare con attenzione queste descrizioni, perché sono messaggi che, in un modo molto articolato, seppure impreciso, dicono talvolta molto di più di una serie di libere associazioni o del racconto di un sogno.
Quelle che appaiono come assolute menzogne tradiscono la verità cui si contrappongono: la verità è infatti molto spesso complicata e deve essere letta attraverso le contraddizioni e le negazioni.

5.
Ci sono poi i sintomi soltanto psichici: rituali ossessivi, agorafobie, patofobie, improvvise depressioni, esaltazioni maniacali, deliri.
Il corpo sembra assente, ma non è così: negli ossessivi sono riscontrabili contratture muscolari, emicranie, disturbi allergici di ogni tipo e turbe respiratorie. Chi cade in un delirio persecutorio contrae il proprio corpo, possono conseguirne funzionamenti alterati dei meccanismi della vista o degli altri sensi, insonnie o sonnolenze irriducibili.
Il corpo, in verità, segue il processo degenerativo della psiche, rattrappendosi vieppiù o sfasciandosi.
Le persone si distruggono poco a poco, ristupidite in gesti avvilenti, nell’imputridimento compiaciuto e puzzolente di sé. Sdraiate nel letto giacciono, in preda alla depressione, larve di esseri umani, avvolte in cenci, poiché tali sono diventati gli abiti di cui non si liberano più. Sono malattie psichiche o fisiche? La psiche, certo, coinvolge il fisico; chi non è più capace di mangiare vede il proprio corpo deperire per la denutrizione o, nel caso opposto, la bulimia sconvolge il fisico, fino a farlo scoppiare.
Se il sintomo è nella psiche, il corpo che cosa è? Soltanto lo strumento di una demoniaca ed inconscia volontà di distruzione?

6.
Un tempo quindi si parlava di sintomi organici, cioè strettamente legati a patologie causate da agenti, esterni o interni, individuabili e quantificabili; oppure di malattie psicosomatiche; o ancora di sintomi isterici che coinvolgevano la funzionalità degli organi, senza comprometterne l’integrità.
Si parlava anche però di sintomi strettamente psichici, distinti in sintomi nevrotici e sintomi psicotici.
Le nevrosi potevano essere disagi causati da un disturbo libidico, da traumi del momento, o anche venire dalle remote epoche dell’infanzia; disturbi più o meno gravi, che consentivano però all’individuo di mantenere un accettabile, se pure insoddisfacente, contatto con la realtà.
Nelle psicosi invece il mondo diventava una costruzione fantastica e lontana con la quale si stabiliva un rapporto alterato e sconvolgente.
Queste distinzioni oggi hanno perso parte della loro validità, resta comunque nelle teorie di psicologia dinamica, da cento anni a questa parte, un’idea ferma: che il sintomo sia un compromesso: si manifesta cioè un sintomo che, in qualche modo è anche un simbolo del desiderio insoddisfatto.
Per fare un esempio: Freud diceva che l’agorafobia (la paura cioè di attraversare luoghi aperti), nelle donne, nascondeva il desiderio di prostituirsi sulla via; per paura di abbandonarsi a questo desiderio o per vincere l’angoscia che esso procurava si inibiva quindi la possibilità di scendere per strada, per non cedere alla tentazione di comportarsi da «puttana».
A questo punto, io mi domando: allora dove si scarica il desiderio? Nella punizione di se stessi? Questa ipotesi, questa antica costruzione psicoanalitica, non mi pare reggere molto.
Inoltre: il simbolo come simbolo di un desiderio è un’idea troppo in accordo con quelli che erano i fermenti artistici del momento: Maeterlinck e Munch erano artisti o patologi? Lasciamo stare.

7.
Accanto all’idea di sintomo come compromesso convive, quale uno degli elementi fondanti di gran parte delle teorie di psicologia dinamica, l’altra idea: che le origini delle nevrosi si radichino nell’infanzia (benché, come abbiamo visto, già Freud avesse parlato di nevrosi «attuali»).
Per riassumere in grandi linee ciò che dice in proposito la metapsicologia freudiana, diremo quindi che esiste nell’uomo uno sviluppo libidico, che viene diviso in «fasi».
Questo sviluppo deve seguire determinale tappe.
Per diverse ragioni, può accadere che una persona resti fissata ad una fase infantile e quindi continui a desiderare la soddisfazione dei propri desideri sessuali, nei modi connessi a quel periodo. A questo punto si pongono due alternative: la perversione o la nevrosi. L’una è però il contrario dell’altra.
La genesi e il concetto di perversione in Freud sono spiegati in modo chiaro: il bambino è un «perverso polimorfo», perciò se non avverrà la rimozione di uno o più desideri perversi, anche da adulto continuerà a ricercarne la soddisfazione, facendo di questa ricerca l’espressione principale della propria sessualità.
Il concetto di nevrosi è invece già in Freud quanto mai oscuro: sembra anch’essa legata ad una fissazione sessuale infantile che però non si è risolta in una scelta perversa, ma in una serie di sintomi.
Ma i sintomi sono travestimento di desideri che necessariamente debbono essere desideri sessuali, poiché, come Freud ha detto, lo sviluppo fondamentale è libidico. Quali desideri sessuali sono però simbolizzati dai sintomi? Solo quelli perversi? Cosa avviene dei desideri sessuali non perversi, che pure, per qualche ragione, vengono inibiti? Si trasformano sempre in sintomi? Se la perversione è patologica, ma non è nevrosi e neppure psicosi, che cosa è? Solo l’analisi della storia dell’individuo può spiegare il percorso dalla fissazione alla scelta tra nevrosi e perversione.
Però Freud non ne da mai una spiegazione metapsicologica. Per cui il terapeuta freudiano si trova, in ogni analisi, solo, ad inventare. Ancora più oscuri sono il concetto e la genesi delle psicosi: non per nulla Freud ne parla esaurientemente solo nel caso del presidente Schreber (cioè a proposito di un paziente di carta). Freud si è trovato in questo marasma teoretico per mancanza di coraggio; ha voluto operare una rivoluzione, ma ha finito per stabilizzare lo stato di fatto della morale borghese, che sentiva anche propria.
La sua vitalissima scoperta della sessualità polimorfa, così dirompente e che minava alla radice le teorizzazioni psicopedagogiche dei secoli precedenti (bisogna risalire alla paidèia dei greci per trovare una concezione davvero sana) non ha avuto il dovuto sviluppo, perché gli è mancato il coraggio di riconoscere che tutto ciò che fino ad allora era stato considerato sano era in realtà malato, e viceversa.

8.
A complicare il tutto si è anche aggiunto quello che viene definito il problema del trauma successivo.
Le nevrosi di guerra, che derivano da una esperienza traumatica violenta, vissuta in età adulta, su un campo di battaglia, si manifestano con durature conseguenze: chi ne è colpito continua a rivivere il trauma che invece dovrebbe e vorrebbe dimenticare.
Queste nevrosi aprono le prospettive per nuovi parametri clinici sulla comprensione delle sintomatologie.
Che senso ha questo voler ripetere, questa «coazione a ripetere» momenti spiacevoli e tragici della propria esperienza esistenziale? Freud e l’antica psicoanalisi hanno a questo punto sentito la necessità di giustificare questo bisogno inventando ad hoc la favoletta della pulsione di morte.
L’uomo sentirebbe il fascino della morte, proverebbe piacere per la sofferenza, per la distruttività. Sadomasochismo? A questo punto, tutto il catalogo delle perversioni si scombina.

9.
Riepilogando, si dice che esistano: sintomi organici, sintomi psicosomatici, sintomi soggettivi, psico-fisici che coinvolgono la funzionalità degli organi pur senza distruggerne l’integrità; si dice inoltre che esistano sintomi strettamente psichici che avrebbero origine da un compromesso tra la pulsione che tende a manifestarsi ed esigenze esterne che tentano di inibirla. Su questo schema nosografico si innesta il quadro evolutivo delle fasi, che portano l’individuo verso quello che è considerato il punto di maturità; sviluppo che può essere bloccato da eventi traumatici che fissano uno di questi momenti di passaggio. Questo tipo di trauma e l’eventuale conflitto di forze possono dar luogo ad una nevrosi o perversione, secondo l’azione di agenti molto complessi. Alla critica già fatta voglio aggiungere che questo schema non rispetta quel principio economico delle forze in gioco che Freud, richiamandosi ad Occam, ipotizzava con tanta convinzione. Perché distinguere i sintomi, nevrotici e anche psicotici, dalle perversioni? In che rapporto stanno tra loro il sintomo come compromesso e il sintomo come soddisfacimento di un piacere infantile non superato? Il castello costruito con molta attenzione e grande genialità a questo punto non regge più. È inutile portare elementi di supporto, fare revisioni, aggiustare il tiro; bisogna abbattere la costruzione freudiana.

10.
Formazione di sintomi, fissazioni che producono patologie psichiche o nevrosi sono descrizioni troppo sconnesse e scollate tra loro: la persona viene dispersa in una simile, se pur geniale, descrizione, che è oltretutto scientificamente ed economicamente inutile.
Ancor più che inutile: dannosa.
Freud è stato un danno per il progresso scientifico? Io rispondo decisamente di no.
Freud ha tentato di comprendere, aveva la sua psiche, la sua personale vicenda, i suoi limiti, la sua cultura; però aveva anche la sua genialità e la sua spudoratezza insieme con la sua ingenuità.
La sua costruzione, malgrado tutta la stima che ho per lui però oggi non regge più: ogni terapeuta della psiche deve essere oggi antifreudiano. Non importa attaccare Jung, Reich, Lacan: piccoli e balbettanti al confronto di quel genio che ha avuto il coraggio di fare di tutta la sua vita un’epifania.

11
Io disprezzo coloro che sono venuti dopo Freud, che sono rimasti a mezzo, li ritengo vili parassiti.
Stimo invece coloro che onestamente, all’interno del pensiero freudiano o altrove, lavorano, senza pudori. Il pudore è stato sempre dannoso alla scienza. Io stimo Galilei perché è stato spudorato e lo stimo anche perché ha avuto il coraggio di aver paura.