37 – Novembre ‘87

novembre , 1987

In un linguaggio laccato, prezioso e semi-inventato Vincenzo Consolo costruisce immagini luccicanti e variopinte, cloisonneés, nel suo Retablo (Sellerio ed. Palermo, 1987, pagg. 161, Lit. 8.000) che segue ed insegue le vicende immaginose del pittore Don Fabrizio Clerici e del suo servo Isidoro in una Sicilia settecentesca stipata di altari, ruderi, topi e briganti. Un capriccio rococò del letterato vuole trasportare in quel tempo e in quell’atmosfera la persona e l’opera del pittore nostro contemporaneo Fabrizio Clerici, milanese di nascita e romano d’adozione. Il racconto è illustrato dallo stesso Clerici (quello vero) il quale già con le essenziali linee dei suoi schizzi sbuca dalle pagine del libro con l’incisività del suo segno ammiccante e autoironico. Quello che vogliamo dire è che la pittura e la persona di Clerici hanno anche maggiore solidità del personaggio un po’ manierato che si è preteso di ricavarne; e la sua forza vien fuori subito fin da quel particolare della Grande confessione palermitana (1954) riprodotto sulla copertina del volumetto. Noi abbiamo visto questa grande tela esposta in questi giorni insieme con le altre opere del periodo 1955-1985 nel Palazzo Reale di Caserta in una mostra di rara suggestione. La rivisitazione del barocco e della classicità compiuta da Clerici in questa tela e nelle due tele del Sonno romano (1955-1985) ha un respiro ben più profondo del prurito pseudo-illuministico del suo omonimo di carta. Anche l’archeologica passione di Clerici tradotta sulle tele in spaventose immagini di labirinti e di città deserte sovrastate da trombe d’aria rivela un’ansia di penetrare il mistero e insieme la disperazione di non poterlo fare, che sono molto più vicine alla sensibilità contemporanea che non la baldanzosa superiorità del superficiale emulo di Winckelmann davanti a Selinunte.
La stessa vicenda della statua dell’efebo di Mozia, così come è narrata, risulta esile se confrontata coi fogli sui quali la mano di Fabrizio Clerici ha cercato di raccontare l’emozione che un corpo di pietra può trasmettere a chi ne sa vedere la bellezza e leggere la storia. È chiaro a questo punto che non ci è importato tanto di parlare del libro di Consolo, quanto di prendere da esso il pretesto per mettere a confronto due modi diversi di raccontare il mondo: uno con parole, che forse troppo si perdono nell’inseguimento di uno stile e l’altro con segni e colori, sempre essenziali e convincenti, che non hanno bisogno di descrivere un mondo, credibile o incredibile che sia, perché lo creano.

La musica e il cervello (Piccin ed., 1987, pagg. 475, Lit. 50.000) curato da Macdonald Critchley e R. A. Henson, raccoglie una serie di «studi sulla neurologia della musica» di autori vari, non recentissimi, anche se appena tradotti, piuttosto male, da Daniela Tarquini. Le ricerche sulla psicologia della musica non sono molte. Dalla fine dell’Ottocento a oggi i pochi volumi ad esse dedicate sono però o cretini o totalmente inutili. I cosiddetti scienziati sperimentali non sono mai riusciti a dire qualcosa di appena sensato intorno all’arte. Qualche banalità, imprecisi cincischiamenti anatomo-fisiologici, riguardanti il sistema nervoso e gli organi di senso che non sono mai stati di qualche utilità né per il ricercatore né per l’artista. Anche questo volume segue lo stesso filone. I titoli dei vari capitoli sarebbero allettanti: L’ereditarietà del talento musicale, Talento musicale: un’interpretazione neuro psicologica, La musica e i disturbi mentali, etc. a scorrerli si ha l’impressione di avere a disposizione una vera e propria summa di quanto si è detto sui rapporti tra musica e neurofisiologia umana. Purtroppo però assolutamente tutti gli interventi si concludono con un

«… però non si hanno elementi certi…».

Indubbiamente Socrate ci ha insegnato che la consapevolezza di non sapere è già qualcosa, ma quando il non sapere è frutto di indagini sgangherate, ridicole e incompetenti, diventa inutile raccoglierlo in costosi volumi. Si spendono pagine e pagine per descrivere analiticamente gli apparati dell’udito e della fonazione, non meglio di quanto faccia qualunque testo universitario in uso; però poi la percezione ed elaborazione di quei dati e del loro rapporto con la musica vengono svolte in modo discontinuo e impreciso, sempre riprese da capo e ripetute.

Così pure avviene col problema dei rapporti tra linguaggio parlato e linguaggio musicale, a proposito dei quali gli autori ignoranti musicalmente, risultano anche epigoni tardivi delle più viete teorie linguistiche. Il fondo della vacuità è toccato proprio dal capitolo sui disturbi mentali in cui W. H. Trethowan dice che i grandi musicisti non necessariamente sono matti, sebbene qualcuno lo sia stato. Oltre non si va, a parte l’annotazione gratuitamente buttata lì che i musicisti si sono sposati poco.

Affermazioni gratuite e grottesche come questa sono disseminate in tutto il libro. Si dice, come se fosse una grande scoperta, che tra i compositori solo qualcuno è geniale. Ci sono anche affermazioni del tipo:

«…per continuare a sviluppare il talento personale, il musicista deve usare il suo tempo nel modo più redditizio e questo comporta l’esclusione di altri interessi.» (!) (pag. 193). Vengono date per scontate affermazioni deliranti come quella attribuita a Lehman a proposito della quantificazione e della valutazione dell’abilità musicale: «l’intelligenza potrebbe essere misurata prima che definita e lo stesso vale per l’attitudine alla musica».

Il colmo si tocca quando riferendo il caso di John Stanley, organista cieco del XVIII secolo, si dice che «…spesso diresse degli oratorii senza guardare lo spartito» (pag. 14; citazione da Body 1974).