Archivio di aprile 1987

31 – Aprile ‘87

mercoledì, 1 aprile 1987

Il Macbeth di Verdi è molto difficile da mettere in scena: non tanto perché presenti difficoltà tecniche, vocali o strumentali, ma perché è un’opera mal riuscita. Il grande musicista di Busseto si rivela in questa sua impresa decisamente al di sotto dell’altrettanto grande drammaturgo di Stratford on Avon cui si ispira. Del Macbeth shakespeariano non c’è qui rimasto quasi più nulla: non tanto per l’insulsaggine del libretto di F.M. Piave, ma proprio perché la musica verdiana non riesce a trovare lo slancio sufficiente a raggiungere la potenza drammatica necessaria ad esprimere sentimenti terribili le cui radici Shakespeare fa affondare nelle misteriose profondità dell’animo umano. Nulla resta neppure dell’inquietante soffio di un mondo arcano e fiabesco, misterioso e terribile, mirabilmente espresso con ricchezza e unità dal poeta inglese.

E difficile metterlo in scena perché è arduo trovare una chiave di lettura che sia unitaria e sensata. L’edizione che abbiamo sentito è quella che Verdi scrisse nel 1865 per l’edizione parigina, realizzata dopo lungo tempo dal debutto di Firenze del 1847. L’ orchestrazione risulta particolarmente sciatta e questa volta i verdiani «zum-pa-pa» non sono neppure illuminati dalle sia pur sporadiche e fugaci idee musicali che altrove Verdi sa inserire e manca totalmente anche lo splendore drammatico dell’insuperabile melodiare verdiano che spesso attinge i vertici del sublime.

Così ad esempio mentre le tre streghe cantano: «Tu dito d’un pargolo/strozzato nel nascere,/Tu labbro d’un Tartaro,/Tu cor d’un eretico,/Va dentro e consolida/La polta infernal» nella prima scena del terzo atto, intorno al ribollente calderone, l’accompagnamento orchestrale è al livello più sciocco che si possa immaginare, degno di una canzoncina al concorso dello Zecchino d’oro. Nella terza scena del quarto atto, poi, nella terribile scena della follia, le parole di Lady Macbeth sono rivestite da una melodiuzza di canzoncina napoletana, che riesce tutt’al più ad esprimere una leggera malinconia, ma è assolutamente inadeguata; e la cosa risulta ancora più evidente se si pensa di confrontarla, per esempio, con la scena della follia nella Lucia di Lammermoor di G. Donizetti!

Certo, ci sono anche alcuni concertati molto ben costruiti e c’è un’aria addirittura splendida, come quella che Macbeth canta nella quinta scena del quarto atto: «Pietà, rispetto, amore,. ..», ma è troppo poco per dare senso complessivo ad un lavoro così articolato come un dramma musicale.

In questo allestimento all’Opera di Roma, capaci, malgrado tutto, di superare le difficoltà e di trovare una chiave plausibile, in reciproco accordo, forse addirittura inconsapevolmente, sono stati soltanto il direttore Giuseppe Patané e il baritono Renato Bruson.

Entrambi sono stati eccezionali nel loro riuscito tentativo di raccontare il Macbeth come fosse una di quelle fiabe ingenue e misteriose che riempiono le lunghe notti d’inverno nei freddi paesi del nord, affascinando grandi e piccini. La stupenda voce di Bruson, duttile, flessuosa, dall’intonazione perfetta, aiutata da una tecnica di respirazione eccezionale che non la rendeva mai sforzata, narrava con semplicità la fiaba di due sposi cattivi, traditori e assassini, che alla fine sono raggiunti dalla punizione divina, in un mondo popolato di streghe, fantasmi e orridi castelli merlati. Ci dava l’impressione che non fosse Macbeth in persona a recitare, ma un antico cantastorie, come se il cantante stesse volontariamente alle spalle del suo personaggio sorvegliandolo sempre con sollecita attenzione.

Patané guidava l’orchestra con equilibrio mirabile: ottimo nell’impasto dei fiati, così brutalmente preponderanti e sciatti in questa partitura, che però, grazie al direttore, non giungevano mai a soverchiare la schematica precisione degli archi.

Contenutissimi, anche, i rataplan di piatti e grancasse.

Tutto il resto pareva invece andare per conto suo: Elizabeth Connell, sebbene a livelli accettabili, era però troppo timida negli inizi di frase e smorzava nelle note basse, come se non sapesse padroneggiarle; nei momenti migliori ricordava piuttosto la parigina Violetta che non una terribile signora della morte; non solo per colpa della musica di Verdi, ma anche perché la sua voce, pur corretta era decisamente troppo flebile ed esile.

Non possiamo tacere dei nitriti stonatissimi di Pietro Jorio il quale è riuscito a sfasciare completamente il concertato finale del primo atto ed è stato inqualificabile nel brano del quarto atto.

Ci è sembrato che le scene di Maurizio Balò abbiano compromesso qualsiasi possibilità di azione alla regia: le intenzioni di Giorgio Pressburger non potevano che affondare nel buio e troppo mobile marchingegno scenico, appena illuminato da grottesche trovate fluorescenti. È meglio tacere delle penose coreografie di Goyo Montero con quei saltelli di bianche pecorelle, là dove si sarebbe dovuto svolgere il sabba del ballo dei demoni al terzo atto. Il lavoro di Ine Meisters ha permesso al coro di essere sempre più che dignitoso.

La situazione si capovolge nel Don Carlo. Nel 1787 Schiller scrive il dramma in cui narra le vicende del figlio infelice di Filippo II e la storia del suo sfortunato amore per la matrigna: intrighi, ragion di stato e ragioni d’altare, misti a romantici aneliti di libertà, ma quanto è più prolissamente debole la pagina di Schiller, confrontata con l’abbagliante bellezza dell’opera verdiana.

Commissionata dall’Opéra di Parigi e andata in scena nella prima versione nel 1867, l’opera di Verdi subì diverse rielaborazioni e revisioni sia del libretto sia della parte musicale ed in epoca moderna si rappresentano per lo più una versione in cinque atti ed una in soli quattro atti; l’Opera di Roma ha messo in scena la revisione che Angelo Zanardini realizzò del libretto di Méry e Du Lode per la Scala nel 1884 in soli quattro atti (anche se in realtà pare che questi siano quattro dei cinque atti messi in scena da Visconti e Giulini nel 1965).

Non c’è un momento di stanchezza ispirativa; la sapienza teatrale di Verdi è sbalorditiva, l’orchestrazione, come per incanto (pensiamo appunto al Macbeth) è sapientissima, i moduli verdiani sono tutti presenti: come l’uso talora vagamente bandistico dei fiati e il semplice dipanar. si degli archi, ma quanta ricchezza e buon gusto in tutto questo! Idee continue meravigliosamente semplici, in sbalorditivo accordo con ciò che accade sulla scena.

Armonie piacevoli, senza asperità, che molto spesso si ripetono, però mai per esaurimento creativo, ma per dare continuità drammatica agli eventi. La parte vocale è di bellezza ineguagliabile. Arie possenti, duetti che fanno tremare, concertati disarmanti per la loro semplice e diretta efficacia; arie tenere ed appassionate piene di amore e di forza. Su tutti brilla lo splendido personaggio di Rodrigo, marchese di Posa, amico di Carlo, sua guida politica, suo confidente. L’amore tra i due è disegnato tenerissimo ed eroico, fino a raggiungere il suo culmine nella scena della morte di Rodrigo che è vero sacrificio d’amore, più eroica del pur splendido sacrificio di Aida e Radames e più appassionata della straziante morte di Violetta. L’opera infatti potrebbe finire qui, con questo abbraccio virile, questo tenerissimo addio. Ma ovviamente la pruderie di Verdi e le esigenze del grand opéra non hanno permesso una conclusione così inquietante. Per fortuna, l’ultimo atto è talmente bello, soprattutto per la parte di Elisabetta, che non ci si rammarica troppo.

Renato Bruson, nelle vesti di Rodrigo, ci ha letteralmente entusiasmati; al suo primo apparire in scena siamo rimasti di stucco: forse perché avevamo ancora presente la sua figura nel Macbeth, quasi non lo abbiamo riconosciuto: aitante, giovanile con una voce dalle intonazioni completamente cambiate. È difficilissimo trovare un grande interprete, attore o cantante, che riesca a non interpretare sempre se stesso quale che sia il ruolo che riveste; qui Bruson, pur nella fedeltà e coerenza con i suoi principi estetici è stato un perfetto Rodrigo, ricchissimo di sfumature, solenne, innamorato e struggente; la sua voce non ha mai avuto una esitazione.

Luis Lima è stato un Don Carlo corretto, dalla voce chiara ed incisiva, potente, senza inutili eccessi, dalla recitazione fluida ed adeguata.

Per ragioni di lavoro abbiamo dovuto rinunciare a vedere ed a sentire Katia Ricciarelli, e la sera del 25 marzo il personaggio di Elisabetta era interpretato da Margarita Castro Alberty e ce ne siamo dovuti rammaricare: in lei non c’era nulla né della tenerezza né della forza della sperduta figura della principessa francese: la sua vocalità risultava appena corretta, una voce forte sebbene un po’ in espressiva. Si è impegnata moltissimo nell’ultimo atto nella scena del chiostro riuscendo anche a raggiungere istanti di efficacia, però non è riuscita ad evitare il naufragio nelle ultime frasi melodiche, sfasciandosi; inoltre la sua presenza scenica e la sua recitazione risultavano di rigidezza eccessiva, in grande contrasto con l’impostazione generale.

Il Filippo II di Nicola Ghiuselev è risultato un po’ opaco, di scarsa potenza drammatica e vocale, sebbene la cosa risultasse molto evidente solo nelle scene in cui era a confronto diretto con Rodrigo, mentre per il resto appariva di buona professionalità.

Dimitar Stanchev, il Grande Inquisitore, ha sprigionato una giusta voce, ricca di armonici, profonda ed austera, ma dalla recitazione eccessiva e magniloquente. Dunia Vejzovic ha dato alla principessa di Eboli una voce bella , piena ed espressiva.

Gli altri erano: Gianfranco Casarini, Ilaria Galgani; Pietro Jorio, Yoko Takeda e Carlo Bosi.

Gustav Kuhn ha diretto con precisione e buon gusto; c’è sembrato però stanco negli ultimi due atti, quando gli è sfuggita un po’ di mano l’orchestra nel famoso «Dormirò sol» dove abbiamo notato un disorientamento ritmico. Complessivamente è stata però la sua una guida eccellente per tutti.

Bisogna dire a questo punto che l’allestimento di questo Don Carlo rientra nell’Omaggio a Visconti che circa vent’anni fa, come abbiamo già detto, ne curò la regia e le scene.

Il regista Alberto Fassini riprendendo l’originale ha voluto seguire la via della fedeltà; il risultato è stato più che buono: i personaggi si muovevano all’interno di un piano organico senza vuoti e sbavature, a parte un personaggio la cui drammaticità ci è parsa completamente perduta: quello del frate-fantasma di Carlo V, quasi totalmente annullato, ed un po’ di affollamento eccessivo nelle masse. Le scene erano quasi tutte quelle di allora a parte alcuni elementi che è stato necessario sostituire perché distrutti o inadeguati alle nuove tecniche: spazi sempre enormi, linee architettoniche massicci amene incombenti, luminosità sempre drammatiche anche quando erano sfavillanti.

Psicoanalisi contro n. 31 – Lo stupratore di anime

mercoledì, 1 aprile 1987

«Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa e se tutti fur cherci
questi chercuti a la sinistra nostra.»
Ed egli a me: «Tutti quanti fur guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia
quando vengono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia…»
(Dante, Divina Commedia, Inferno, c. VII, vv. 37-45)

Correttamente Dante coglie il linguaggio dell’inconscio: due sentimenti sono simili appunto nella opposizione della loro specularità; questa intuizione non è esclusivamente dantesca: la «coincidentia oppositorum» ricorre di frequente nelle allegorie medioevali e non soltanto.

È una conferma di quanto essa sia una delle strutture fondamentali del pensiero inconscio. La commedia è divina anche perché parla, con estrema semplicità, della persona umana, pur usando un linguaggio apparentemente astruso. Nelle tre cantiche tutti si possono ritrovare, ma è ingenuo pensare che soltanto l’Inferno, cavità oscura e terribile, simbolizzi l’inconscio; non lo rappresentano meno il diafano Purgatorio o il risplendente Paradiso. L’architettura dell’oltremondo dantesco è trecentescamente gotica e nello stesso tempo spudoratamente atemporale: fuori della storia e dentro di essa. Proprio come l’uomo, che non è nulla al di là delle relazioni, degli accadimenti dell’accidentalità quotidiana; ma è instabilmente rannicchiato in un mondo che nessuno è ancora riuscito a dire con chiarezza di dove venga e dove vada. L’avarizia e la prodigalità sono simili, cozzano l’una contro l’altra solo apparentemente, mentre percorrono eternamente il mezzo cerchio di un anello che le comprende entrambe in una unica realtà. A questo punto, l’allegoria dantesca diventa sghemba proprio come lo è l’apparente simmetria del gotico e come lo sono le inspiegabili capriole dell’inconscio. Avarizia e prodigalità sono infatti due espressioni della stessa avarizia. Questo è possibile per il linguaggio dell’inconscio, secondo il quale due può essere uno. Se questo uno è fondamento della coppia, l’altro allora sarà l’ombra del primo. Per il momento ammettiamo che sia così. Questa coppia esprime l’incapacità di dare e di darsi, che è la caratteristica essenziale dell’avarizia e della prodigalità, insieme con la lontananza da Eros, che è il bene o il sole. L’erotismo è la capacità di cogliere noi stessi e il mondo con gusto e con allegria, anche se per ora questa però è soprattutto una possibilità abbastanza remota. Gli esseri umani sono molto malati. e la guarigione può passare anche attraverso le fantasie del «ghibellin fuggiasco».

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Ho parlato dell’avarizia in generale e del suo doppio: la prodigalità, cercando anche di snidarla in alcuni dei luoghi in cui si nasconde tentando di camuffarsi. Come mai è così facile per questo sentimento umano trovare tante possibilità di travestimento? E ancora: perché l’avarizia non si trova mai allo stato puro? Tutti i sentimenti dell’uomo sono sempre mescolati ad altri e sembra impossibile riuscire a districare questa matassa così arruffata e poter osservare il colorato filo di una passione, preso isolatamente. E un vizio di tutta la ricerca scientifica, quello di voler isolare un fenomeno, per poterlo meglio osservare, studiare, prevedere. Questo metodo però mina, a mio avviso, le fondamenta stesse della ricerca scientificamente corretta. Le astrazioni e i modelli sono estremamente utili, ma è molto importante che si osservi l’affollarsi dei fenomeni sul campo, così come si presentano all’osservazione umana. Gli strumenti di laboratorio sono costruiti dagli uomini e quindi sono ciechi e sordi a tutta una gran quantità di sollecitazioni e presentano soltanto un pezzo isolato di realtà, rafforzando spesso la stupidità e la pigrizia del ricercatore o sperimentatore. Ritorniamo ora alle due domande che mi ero posto: come mai i sentimenti possono così facilmente travestirsi e non si trovano mai per così dire «allo stato puro»? La seconda domanda è già in parte una risposta alla prima: proprio perché sono sempre mescolati e sfumano indistintamente l’uno nell’altro è possibile che un tratto caratteristico di una persona, particolarmente rifiutato, possa trasformarsi in qualcosa di apparentemente molto diverso, per agire, muovere e realizzare obiettivi indisturbatamente. Talvolta proprio il travestimento dà ad un sentimento la capacità di un impatto ancora maggiore sul reale. È fin troppo facile spiegare questo facendo ricorso alle difese fondamentali del narcisismo e
sadomasochismo. È esperienza di tutti l’osservazione di comportamenti estremamente sadici che tendono esclusivamente a scaricare l’aggressività e il desiderio di distruggere l’altro, travestiti sapientemente da altruismo e da compassionevole abnegazione. Non mi riferisco soltanto ai gesti clamorosi che possiamo riscontrare in luoghi particolari come gli ospedali, i collegi, oppure le carceri, parlo anche di gesti quotidiani, apparentemente innocui: la madre che truce, forza il figlio a mangiare: «per il tuo bene», anche se il bambino, come può capitare, quel giorno, non ne ha voglia. Pianti e disperazione del piccolo, spesso, non smuovono la madre, anzi, brilla, nei suoi occhi la scintilla di un sadico piacere.

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Così pure atteggiamenti squallidamente narcisistici vengono contrabbandati come manifestazioni di una mente superiore, tutta tesa alla ricerca ed alla risoluzione di problemi scientifici o filosofici di stratosferica elevatezza o abissale profondità. Una persona di mia conoscenza, quando era in presenza di altri, assumeva abitualmente un atteggiamento assorto e assente, solo ogni tanto apriva bocca per sentenziare brevemente, dopo di che pareva tornare ad un suo astratto mondo incomprensibile per il resto dell’umanità. Ogni tanto confidava di star pensando alla pubblicazione di un libro importantissimo, che avrebbe senz’altro avuto un grande impatto sulla cultura nazionale ed internazionale. Era guardato con reverenza. Taceva e l’unica concessione che faceva alla vita sociale era di bere e mangiare moltissimo nei pranzi e nelle cene. Dapprima pensavo che si fosse costruito addosso quel personaggio del filosofo un po’ folle per poter recitare un ruolo di prestigio nel gruppo degli amici. Forse così era stato al principio, ma mi sono poi reso conto, ad un certo punto, che ormai non era più così. Mi accorsi infatti di un suo assoluto progressivo disinteresse per tutti gli altri che lo faceva essere costantemente immerso in un rimuginio mentale quanto mai pericoloso. Un giorno ebbe un grave crollo psichico e quel libro, ovviamente, non è stato mai scritto.

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Rimane in piedi il secondo interrogativo: perché le passioni e i sentimenti umani sono così ingarbugliati? Forse perché è vera la vecchia frase: «natura non facit saltus».
Le teorie della percezione ci dimostrano come noi cogliamo sempre una forma e mai un singolo elemento isolato dal contesto; e no» soltanto lo cogliamo noi, ma così è anche in realtà: ogni cosa scaturisce dall’altra e in qualche modo deve partecipare dell’altra.
La percezione e la realtà si confondono in un’unica situazione. L’esistenza umana, tolemaicamente situata al centro dell’universo, si costruisce insieme con il mondo e costruisce il mondo; ma il mondo non è un’illusione e l’uomo non è la fantasia di un uomo. Ci siamo trovati addosso questa vita, senza averla scelta; questo modo di orientarci nel mondo non è stato scelto da noi; eppure abbiamo in parte anche scelto questa vita e questo modo di orientarci nel mondo; io non penso che si possa andare oltre: bisogna accontentarsi di rimanere qui, circoscritti nel cerchio dell’universo e della nostra psiche.
Cos’è l’universo? Lo sfero di Parmenide? Le sfere di Aristotele? Energia in espansione? Tutti questi modelli sono compresi nella sfera della psiche, che ingloba e circonda tutto ciò che riesce a raggiungere con la sua comprensione. Oltre è il mistero; che però non appena è pronunciato viene assimilato, entrando a far parte dell’universo psichico.
Io, allora, riduco tutto; stelle, scienza, vita, ad uno squallido psicologismo? Spero di no. So però che l’uomo, per l’uomo, è tutto.

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Forse qualcuno potrebbe essersi turbato nel sentirmi definire l’avarizia un sentimento; ma con ciò io intendo significare che tutti i contenuti psichici, tutte le convinzioni, anche le più razionali, di un essere umano, sono, di fatto, sentimenti. Possono avere coloriture, strutture e origini diverse ma sono e restano sentimenti. Mi si domanderà allora se per me l’uomo sia solo un fascio di sentimenti. Io rispondo che è proprio così: è l’emozione che costituisce l’essere umano. Quando si parla di emozione, in genere, si presenta alla mente qualcosa di molto particolare: la sfera emozionale costituisce, secondo molti, quella parte dell’uomo in cui risiedono i sentimenti; ben separata, secondo il senso comune e anche per tanta scienza psicologica e filosofica, da quell’altra parte che costituirebbe la sfera razionale.
Secondo me, questo discorso è ormai vecchio e superato e le persone assennate dovrebbero definitivamente sbarazzarsi dell’antica contrapposizione tra emotivo e razionale. La ragione non è che un aspetto dell’emozione. Gli uomini così detti razionali sono solo persone molto tese, irrigidite nello sforzo di controllare tutto, ossessivamente spaventate dal mondo, anche se non lo ammettono neppure con se stessi. Sono individui incapaci di cogliere, perché non vogliono percepirla, la ricchezza complessiva dell’esistenza umana. Le persone che si dicono razionali sono, in realtà, miserabili sciocchi, che non si accorgono di quanto il loro sforzo verso la razionalità sia un’espressione delle loro emozioni, con tutte le caratteristiche della tensione emotiva. Indubbiamente, esiste anche un’emozione che viene più facilmente e comunemente riconosciuta come tale, in cui si percepisce con intensità il sommovimento delle passioni. Non è però più incontrollabile un’emozione violenta di quanto lo sia una altrettanto violenta determinazione razionalizzatrice.
La psicoanalisi ha usato il termine «razionalizzazione» per spiegare e definire l’atteggiamento di tutti gli uomini quando cercano di capire qualcosa di ciò che accade dentro ed intorno a loro, senza avventurarsi nei meandri oscuri dell’inconscio.
L’inconscio è una realtà troppo inquietante: è dentro e fuori di noi, ci avvolge e costruisce, ma ci fa paura, per cui preferiamo talora rapide spiegazioni. La razionalizzazione è quasi sempre una falsa spiegazione di un fenomeno psichico; mentre invece non bisogna aver paura di comprendere ciò che accade, di rendere conscio parte di ciò che è nell’inconscio. Ciò non significa che si debba sempre interpretare: sono insopportabili quelli che interpretano ogni gesto, tentando di darne tutte le motivazioni inconsce. Sono in genere orecchianti della psicoanalisi, individui castrati che, attraverso lo sproloquio, sperano di appropriarsi di un mondo che sta loro sfuggendo e con il quale non riescono ad entrare in autentico rapporto.
Ogni tentativo di capire è utilissimo e sano, se è fatto con la consapevolezza che non si capirà mai tutto e che, talvolta, è persino giusto non volere capire. Le persone che amano definirsi razionali sono, troppo spesso, nella loro miseria spirituale e nella loro ottusità, chiuse in un gioco che è un’ossessiva prova del nove.

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Perciò io mi sento di poter tranquillamente definire l’avarizia come sentimento: talvolta mi accade di definirla anche come pulsione; ma, per me, non c’è alcuna differenza nella sostanza dei due termini. Ho parlato degli avari, in generale, e poi ho parlato anche degli effetti dell’ avarizia dei pazienti coinvolti nel trattamento psicoanalitico; ora vorrei trattare invece dell’avarizia del terapeuta.
Prima di tutto, dichiaro che, secondo me, un buon analista non può essere particolarmente avaro. Il lavoro di analisi che deve aver compiuto su di sé gli ha dato la possibilità e la capacità di snidare fantasie ed atteggiamenti suggeriti dalla propria avarizia, permettendogli di superarli in buona parte e di gestire l’altra parte, diventando, di fatto, meno avaro. Il verbo gestire è stato consunto da un cattivo uso che tutti, e anche la psicoanalisi, ne hanno fatto, ma riesce ad indicare ancora abbastanza bene la possibilità che resta a chi, pur riconoscendo in sé la presenza di un sentimento indesiderato, vuole però vivere senza lasciarsene troppo condizionare.
Come si riconosce un terapeuta avaro? Sembra molto difficile, soprattutto per il paziente, che, in genere, conosce poco o nulla del proprio analista. Ci sono però due particolarità abbastanza evidenti che anche le persone più sprovvedute e più intimidite dalla figura del terapeuta possono cogliere.
La prima è l’ossessiva reverenza per quello che è definito il «setting» analitico. Mentre ci sono terapeuti volgari che rispondono addirittura al telefono, abitualmente, quando la seduta è in corso, rivelandosi così semplicemente molto maleducati, gli psicoanalisti avari paiono letteralmente terrorizzati se qualcuno, accidentalmente od eccezionalmente, bussa alla porta o rivolge una domanda, magari urgente. L’analista avaro ha il terrore che gli si rubi anche solo una piccola fetta del suo spazio. Poiché è sempre troppo pronto a calcolare il dare e l’avere, non sa guidare il gioco del suo paziente, per cui non lo accetta mai: ha paura di andare a prendere un caffè con lui, di confessare un mal di testa, come se l’acquisita confidenza potesse privarlo di qualcosa. Il terapeuta avaro non spartisce nulla con il paziente, neppure la guarigione, perché egli stesso è ancora gravemente malato.
Io penso che un certo rispetto per l’assetto analitico possa essere di qualche utilità nel dare all’analisi ritmo ed armonia. Per esempio, giova che il paziente si sdrai sul lettino: per ragioni umane e tecniche.
È infatti faticoso per l’analista essere incessantemente scrutato dai molti pazienti di ogni giorno, questa fatica può disturbare il suo lavoro ed è importante che anche il paziente desideri che lo psicoanalista non sia a disagio.
Io personalmente reggo abbastanza bene questi sguardi che mi si fissano addosso insistenti, li percepisco senza molto fastidio e qualche volta mi fanno perfino piacere, anche se talora mi sento un po’ aggredito.
La posizione sdraiata, inoltre, può favorire nel paziente, proprio per l’affinità con la situazione del sonno, il rilassamento mentale e permettere lo sprofondamento nel tempo del ricordo.
Così più facilmente avviene che al terapeuta il paziente sovrapponga altre figure, in quello che è l’utile ed inevitabile meccanismo del «transfert».
È importante anche fidarsi del proprio analista: avere il coraggio di sdraiarsi, e non pretendere di controllarlo costantemente con lo sguardo, è un segno di fiducia.
Un paziente che per tutta la durata dell’analisi non abbia mai voluto sdraiarsi sul lettino in realtà non ha fatto una vera psicoanalisi ed è comunque rimasto molto lontano da ogni possibilità di guarigione.
Nonostante queste mie convinzioni, io invito i pazienti a ribellarsi all’assoluto divieto di guardare in faccia l’analista e li esorto a non accettare passivamente l’uso del lettino.
È infatti altrettanto importante non rimanere costantemente sdraiati, con gli occhi chiusi, in un atteggiamento che, protratto troppo a lungo finisce per diventare una negazione del mondo e della persona reale del terapeuta e rende i pazienti narcisisticamente prigionieri delle proprie fantasie.
Bisogna saper giocare, anche, con colui che ti ha preso in cura; è bello imparare a non temere il suo sguardo, a non avere paura del suo corpo; ed egli non deve temere lo sguardo di chi si affida a lui.

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L’altra caratteristica del terapeuta avaro è quella di voler essere «serio». Di fronte ai pazienti è compassato, affettato nei gesti, abbigliato in modo vagamente anonimo, corretto ed opaco: mai una gonna sgargiante o una camicia aperta sul torace.
Gli analisti seri perché avari (ci sono anche persone serie le quali non sono avare) sono sempre deleteri.

Io ritengo del resto che siano nocive tutte le persone che si reputano serie, che sono cioè individui ben pensanti. I ben pensanti sono l’impiegato che fa male il proprio lavoro, l’artigiano incapace e truffaldino, il medico ignorante e brutale: tutte persone che però continuamente pontificano e lamentano l’inefficienza dei servizi, i malanni sociali, protestando contro omosessuali, drogati e preti (i ben pensanti si permettono il vezzo di essere un po’ anticlericali poiché il sacerdozio è una situazione «irregolare» che, a suo modo, turba l’ordine normale delle cose).
Lucifero tradì e si ribellò nel momento in cui diventò un ben pensante.

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Un terapeuta avaro, inoltre, comunica la sua avarizia: non la insegna esplicitamente ma appesta il suo paziente, gliela appiccica addosso, con la sua rancida correttezza, con la sua finta giustizia, con quel suo modo di lavorare meticolosamente ottuso.
I terapeuti particolarmente avari hanno sempre rifiutato di imparare in una scuola, qualunque essa sia, non hanno mai accettato di avere un maestro che artigianalmente trasmettesse loro una tecnica e una teoria cui fare riferimento.
L’analista avaro è sempre teso nella ricerca della propria indipendenza intellettuale. Non da e non si da, perché teme di essere derubato e perciò tiene a debita distanza affettiva anche i suoi pazienti.

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Potrebbe sembrare che l’analista avaro sia anche taciturno, ma non è così.
Può invece indifferentemente essere uno che sta sempre in silenzio o che parla moltissimo, comunque da generalmente l’impressione di essere uno che vuol dire solo quanto deve essere detto, ne più ne meno. In realtà, il suo terrore di venire espropriato di qualcosa da parte del proprio paziente lo fa sempre eccedere in loquacità o taciturnità, costantemente sfasato rispetto ai tempi emotivi della persona che si affida a lui. Può ricorrere tanto a difese narcisistiche quanto a difese sadomasochistiche, ma se è «un selvaggio», cioè uno di coloro che non hanno mai avuto il coraggio di accettare un maestro, di uniformarsi ad una tecnica e di seguire una scuola o un fondamento metapsicologico, non sarà di ciò neppure consapevole e le sue difese rafforzeranno progressivamente ed incessantemente la tendenza all’avarizia portandolo al disastro completo suo e dei suoi pazienti, facendone un vero e proprio stupratore d’anime.

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L’avarizia del prodigo si manifesta in analisi più o meno con gli stessi sintomi, anche se è rilevabile una caratteristica di discontinuità: non c’è l’ostentata pacatezza, ma un’ansia di coinvolgere che contagia i pazienti, travolgendoli e portandoli a dire cose senza senso, vorticosamente involgendosi e reciprocamente involgendo, senza capire più nulla.

Sia l’analista avaro, sia l’analista prodigo, se sono stati sufficientemente onesti con la loro professione da avere accettato di lavorare con un supervisore, hanno però con lui un rapporto pessimo: o lo percepiscono come potenziale espropriatore, tanto che sono persino reticenti nell’esporgli un «caso», preoccupati di tenersi almeno qualcosina per sé; o, all’opposto, annotano minuziosamente tutto quello che il supervisore dice, ma si guardano dall’applicarlo, perché i pazienti sono proprietà loro.

Ancora: alcuni altri esigono le supervisioni, perché le considerano loro dovute e pensano di pretenderle, giustamente, per allargare la loro capacità di intervento, ma in realtà le esigono perché queste permettono loro di essere mentalmente inerti, giustificando così la pigrizia: più elementi sono regalati dalla supervisione, minore sarà il dispendio di energie.
Ho detto molto e molto avrei ancora da dire, ma forse la mia avarizia e un eccesso di senso del pudore — per me inconsueto — mi fanno, per il momento, tacere.

31 – Aprile ‘87

mercoledì, 1 aprile 1987

Piaceri

Pare che Rosanna Benzi abbia fatto l’amore!
La scrittrice genovese da venticinque anni chiusa in in polmone artificiale ha manifestato nei modi più disparati la propria capacità di condurre una vita straordinariamente anormale – come pochi riescono ad immaginare – scambiando la propria condizione di dipendenza con una capacità di produrre lavoro utile a sé e agli altri decisamente fuori dal comune. Quello però che permette ai giornalisti di scordare il tono lacrimevole e deamicisiano sembra essere solo il fatto che la signorina Benzi rivendichi ad alta voce il diritto alla sessualità, inteso anche come diritto al piacere! Al di là del problema specifico, si ripropone la questione del diritto al piacere sessuale dei malati e del dovere di terapeuti, famigliari e conoscenti di riconoscere o negare il diritto al piacere sessuale. Il desiderio sessuale coinvolge, molto più spesso di quanto si creda, i malati e le persone a loro più vicine. Questo vale per le malattie occasionali e vale anche per !e situazioni di invalidità permanente più o meno grave. Immediatamente, di fronte ad una prospettiva generale, l’incapacità di comprendere dei più vede la soddisfazione di questo desiderio come atto di perversione o di assurda abnegazione. Si cerca cioè di negare che nel rapporto sessuale con un malato possa esserci nel partner un sano ed analogo piacere, un desiderio ugualmente forte. A questo proposito starebbe forse allo psicoanalista dire qualcosa sulla ferita narcisistica provocata all’individuo «sano» dall’idea che qualcuno così diverso da lui e dal suo concetto di bello possa invece sembrare ad altri bello e desiderabile (oppure brutto e desiderabile, se volessimo negare l’argomentazione che: bello è sempre ciò che piace). Diventa quindi importante evidenziare, per quanto possibile, l’importanza della sessualità per tutti gli esseri umani. Chi è malato partecipa a titolo intero del concetto di essere umano, e chi è a contatto con il malato è fortunato se riesce a desiderarne il corpo. Fondamentale è però che la sessualità sia agita da persone nel reciproco e totale rispetto di sé e degli altri. In questi casi rispettarsi significa non imporsi e non imporre un rapporto sessuale; ma anche nel permetterlo e permetterselo. La cattiva coscienza si compiace di esaltare differenza e ricatto nei casi di invalidità clamorose o di stati fisici o psichici clamorosamente diversi dal canone abituale. Se qualcuno accenna con orrore a quei genitori che si sono sacrificati perché i loro figli potessero soddisfare un desiderio tanto urgente, è importante replicare che di orrendo c’è solo l’ipotesi che l’abbiano fatto senza desiderarlo e in preda al ricatto della disperazione, senza gioire dì una possibilità di dare a avere insieme piacere. Certo, è difficile giudicare dall’esterno se il portantino, il volontario o il terapeuta vìolino con atti di libidine corpi che non sanno difendersi, oppure se diano, con il loro piacere, piacere a chi prova lo stesso desiderio. Questo dovrebbe solo insegnare a non giudicare mai dal di fuori. La libertà di disporre di sé può avere come solo limite il rispetto della libertà dell’altro. Norme, regole e anche leggi debbono governare e punire tutelando la libertà di ciascuno – il principio è valido malgrado i disastrosi errori nell’applicazione di ogni legge, anche giusta -. Il moralismo invece deve solo tacere, perché è ignorante di troppa parte della realtà che ha creato le condizioni di un rapporto sessuale così particolare. Ogni rapporto, sessuale e non sessuale, è «particolare», perché ogni individuo è particolare. Siamo tutti diversi e solo in questo siamo uguali!

31 – Aprile ‘87

mercoledì, 1 aprile 1987

L’arte di Luce Balla è senza tempo, ma non al di fuori del tempo. Ognuna infatti delle venti opere esposte alla Galleria Due C di Piazza Mignanelli 3, col titolo «Trasparenze di Luce», esprime un istante: non c’è evoluzione tecnica, stilistica e addirittura quasi inavvertibile è il tragitto dell’esistenza. Con astuta mossa, quasi teatrale, i curatori del catalogo, introdotto da Cleto Polcina e Alessandro Balla, non dicono nulla della vita della Pittrice, se non che è figlia di Giacomo.
E bene così, privilegiando il suo lavoro: tenace, intenso, poetico ed artigianale, costruito da mani invisibili e presenti allo stesso tempo, con interventi che travalicano i limiti del dipinto, per costruirne talvolta le stesse cornici, impreziosite ingenuamente dalla laccatura a finto marmo, come resti di rustico barocco di campagna, e, talvolta, che alternano all’uso del pennello quello dell’ago che ricama e cuce e della forbice.
La semplicità è però solo apparente: dietro ai colori e alle forme il pensiero affonda e chi guarda non trova punti di riferimento; allora per non smarrirsi ne stabilisce qualcuno: il genere, i luoghi…
ma presto si accorge di essere in cattiva coscienza; è come se Luce Balla dicesse frasi solide e ferme, ma troppo sottovoce per chi passa di fretta. Così si isola qualche frammento: i vasi di fiori, sempre annegati nella luce, ripetuti negli anni da Semplicità del 1943 alla Mimosa nella luce di Primavera del 1984; oppure i paesaggi, quasi sempre notturni, che si possono sintetizzare nel gusto che si prova per Il silenzio delle cose della notte, come suggerisce il titolo di un pastello del 1985.
Ancora, ci si interroga sul perché di un ricamo in lana o di un autoritratto di lieve vanità e ci si commuove sul disegno a matita che è La mano di papà mentre dorme del 1952 dove l’occasione intima rubata appare tanto diversa da quella più ufficiale e compiaciuta del Ritratto del padre di nove anni prima.

La Galleria dei Banchi Nuovi di Marcello Silva è uno spazio messo a disposizione dell’arte e dei suoi riti solo da pochi giorni. Al numero 37 della via da cui prende il nome, si colloca in uno dei luoghi privilegiati di una «romanità» intensamente frequentata da turisti ed esteti, ma anche da bottegai ed artigiani che la mantengono più viva che mai.
L’inizio dell’attività è avvenuto con una mostra di opere di Piero Gilardi, tutte molto recenti e la gran parte eseguite per l’occasione. Usando un materiale spugnoso qual è il poliuretano espanso, l’artista ha costruito una serie di «tappeti-natura», variopinti appezzamenti di diversa grandezza su cui giacciono sparsi elementi naturali: frutti campagnoli come i cachi oppure esotici come i cacao e ancora tronchi bruciati o verdi bambù e palmeti, funghi o pesci, foreste pluviali o spiagge, tutte cose che fa una certa impressione vedere lì appese alle pareti, tanto ricordano quei pratini di plastica che addobbano i bordi di californiane piscine o i più modesti giardinetti di tante villette di periferia, nel qual caso i funghi sono quelli bianchi e rossi di «Biancaneve e i sette nani». Un’intera sala è dedicata ai Mutanti: neri mosconi di ferro, reticella e gommapiuma, schierati come due eserciti contrapposti ad assediare il breve spazio che resta al visitatore, il quale, cercando scampo, guarda in alto e invidia coloro che hanno lasciato sul bianco lenzuolo sospeso le variopinte impronte di un viaggio verso la salvezza (ma forse quelle impronte vogliono drammaticamente ricordare che d’abitudine sono le mosche a camminare sui bianchi soffitti). Un gioco, anche questo, con un po’ di brivido e tanta ingenuità, cui Achille Bonito Oliva, nel catalogo, trova tante estetistiche giustificazioni.

31 – Aprile ‘87

mercoledì, 1 aprile 1987

Non è facile capire chi abbia materialmente scritto il libro Il dilemma nucleare (Sperling e Kupfer, pagg. 185, Lit. 18.500) poiché la copertina dice «Carlo Rubbia con Nino Criscenti», mentre il discorso all’interno è sempre condotto in prima persona ‘dallo scienziato italiano; ma la cosa è di secondaria importanza. Molto importante invece è la chiarezza e l’onestà con cui sono rese le idee del premio Nobel per la fisica per il 1984.
Che gli scienziati abbiano il coraggio di parlare chiaro è cosa piuttosto rara: in genere preferiscono nascondersi dietro linguaggi tecnici, e quindi astrusi per i più, lasciando la divulgazione scientifica a personaggi di dubbia preparazione che in genere o risultano essere ridicolmente dogmatici o tradiscono e banalizzano il senso delle stesse teorie scientifiche.
Questo volumetto dimostra invece che è possibile farsi capire da tutti mantenendo un ottimo livello di rigore scientifico.
Sulla questione nucleare è particolarmente importante che tutti siano adeguatamente informati; è inutile infatti strillare: nucleare sì, oppure nucleare no, senza conoscere nemmeno approssimativamente i termini della questione; specialmente in questi tempi in cui l’energia sprigionata dagli atomi viene descritta in termini quasi soprannaturali di volta in volta espressione demoniaca di distruzione o angelica promessa di salvamento e di progresso.
Anche per la sua chiarezza, Rubbia non dà scampo: bisogna avere il coraggio di prendere posizione dopo che si sono conosciuti i termini del problema. Prendere posizione non significa essere esenti da contraddizioni e la contraddizione fondamentale di Rubbia si esprime così: prima dichiarando che: «Lo scienziato si sente veramente tale solo quando è completamente libero (…) come professore alla Harvard University sono protetto da qualunque pressione e condizionamento (…) La libertà della scienza è parallela alla libertà del mondo accademico (…) Nella Scienza contano solo le idee, i fatti.» Poi dimostra, raccontando i fatti della ricerca scientifica nel mondo, che le scelte energetiche dipendono soprattutto da ragioni politiche, ideologiche e dalle esigenze belliche. Innanzi tutto a pagina 12 già dice:«Il quadro non è incoraggiante se è vero che i quattro quinti degli scienziati di tutto il mondo lavorano direttamente o indirettamente in ricerche applicative orientate verso l’industria bellica». Per concludere poi alla pagina 178: «Per ottenere grandi risultati scientifici e tecnologici non sarebbe necessario passare per la guerra. Nella realtà dei grandi progetti è spesso così (…) oggi sono le prospettive di utilizzazione in campo militare che offrono le opportunità, i migliori pretesti per sbloccare gli enormi capitali necessari a sviluppare la ricerca, se non quella di base, sicuramente quella applicata».
Dopo la bellissima, perché molto chiara, descrizione, resa senza retorica alcuna, della tragedia di Chernobyl, Rubbia spiega bene quelle che sono le conseguenze immediate, ma dice anche molto chiaramente come sia difficile prevedere gli effetti a lungo termine e quindi prevenirli. Prosegue poi parlando della ricerca delle energie alternative con inferiore potenziale distruttivo e che anche non siano economicamente troppo svantaggiose, cioè che non richiedano più consumo energetico di quanta energia possono mettere a disposizione: «La società moderna è basata sullo spreco energetico (…): una bottiglia di Coca Cola contiene una decina di calorie; ce ne sono volute almeno cento volte tanto per fare il vetro, produrre il liquido, bollirlo, distillarlo. L’apporto energetico di un bicchiere di Coca Cola è solo l’uno per cento di quanto si è speso per farlo (…) Quando passiamo (…) alla produzione agricola intensiva, si scopre che, per produrre i cereali, l’investimento energetico sotto forma di concimi e lavoro meccanico, può essere persino dieci volte la quantità di energia che ne ricaviamo in termini calorici».
La lettura di questo libro inoltre mette addosso una sottile angoscia poiché costringe a prendere atto del fatto che non si può più tornare indietro; il processo disruttivo ha intaccato così profondamente il nostro habitat che le ferite non si potranno mai più rimarginare completamente. «Tanto più bruciamo carbone, petrolio, gas o combustibile nucleare, utilizziamo le risorse termiche generate dal sistema naturale e trasformiamo una energia nobile in calore, tanto più avanziamo in un processo degenerativo irreversibile.
Queste energie non sono rinnovabili, e cioè non saranno mai più recuperate in termini meccanici o elettrici.
L’entropia è una variabile di stato, è la misura scientifica di tutte le cose che non possono più essere come erano prima, della energia che resta conservata ma finisce in uno stato irreversibile di calore, è la misura del nostro invecchiamento e di quello dell’Universo.» Balza anche evidente che il nucleare non è il peggiore di tutti i mali, la combustione del carbone, degli idrocarburi e dei loro derivati intossica ed inquina; l’anidride carbonica circonda la terra come una sfera aristotelica, producendo quell’effetto serra che tra non molto ci manderà tutti arrosto per il continuo aumento della temperatura sul pianeta; le piogge acide hanno irrimediabilmente distrutto immense foreste millenarie ed è perciò ridicolo fare le feste degli alberi in cui ignari bambini mettono a dimora alberelli alti un palmo che, come loro, hanno così scarse probabilità di futuro.
Dopo aver detto esplicitamente: «Se dovessi votare io voterei decisamente contro il rischio del nucleare» (p. 18) e aver dimostrato la pericolosità suicida della scelta energetica basata sul processo di fissione nucleare, Rubbia dice però anche molto chiaramente: «Se dovessi votare io voterei decisamente contro il rischio del carbone e del petrolio.» Soggiunge: «E allora?» Allora, come scienziato propone la sua alternativa: «C’è un’altra energia solare, è quella che anima l’universo, fa brillare le stelle, permette la vita. Si chiama fusione nucleare e non è altro che una forma naturale di combustione, ma di innesco molto difficile appunto perché avviene tra nuclei e non tra atomi, come nel caso della combustione ordinaria. Perché non ispirarci al processo energetico dell’universo e creare sulla terra, in laboratorio, un sole che potremo accendere e spegnere a volontà, liberandoci dai «capricci» dell’energia solare? Con la fusione nucleare controllata, un giorno sarà forse possibile disporre di energia sicura, pulita, economica, inesauribile. Sarà quindi probabilmente questa la soluzione definitiva del dilemma energetico per il genere umano.» (p. 147).

31 – Aprile ‘87

mercoledì, 1 aprile 1987

Il rione Monti ha caratteristiche decisamente popolari da sempre e anche la abbastanza recente colonizzazione di stranieri e intellettuali ha quasi rispettato un tono vagamente «rustico» di luoghi e cose per cui suscita una certa meraviglia l’aspetto del ristorante «di pesce» Bonne Nouvelle di via del Boschetto 73, con le sue colonne doriche stampate sul menù e la grande profusione di delicate tinte, rosa e giallino, su pareti e tovaglie, con l’aggiunta di candidi stucchi e lucenti ottoni che gli danno un tono più da boudoir di Maria Antonietta che non da locale di pubblica ristorazione. L’accoglienza è cortese, anche se non proprio professionale e viene subito offerto il bicchiere di frizzantino come propiziatorio al pasto. Dalla lista risultano non più disponibili alcuni piatti, allora optiamo per un sauté di tartufi di mare, un gratin di cozze e due diverse preparazioni di salmone: non male il sauté, anche se il sugo risente ancora del vino con cui è stata fatta la salsa, peggio il gratin, forse perché preparato da molto tempo e le cozze sono quindi troppo asciutte; il salmone all’arancio risulta un piatto abbastanza divertente, anche se elementare come un giochino, il salmone marinato invece è tagliato a fette troppo spesse, mortificando così l’eccellenza della carne che il limone non è riuscito ad ammorbidire uniformemente. Con i «primi» il discorso si fa insidioso: gli spaghetti al capriccio al cartoccio annegano in una quantità di panna che avvilisce la pasta, contraddice il sugo di pesce e litiga con il gusto piccante delle spezie; il riso agli asparagi e le crespelle sono conformi all’infantile propensione per i derivati del latte materno già manifestata dal cuoco e qui espressa senza pudore alcuno. Di quello che è seguito non fa molto conto parlare: spiedini di scampi e mazzancolle bruciacchiati e di qualità scadente e una trancia di spigola all’isola, uccisa la seconda volta dall’acido della salsa al limone, che non permette a nessun altro sapore di sopravvivere. Il carciofo alla romana è privo di qualunque gusto e profumo. I dolci, più scontati che mai e mediocri, sono un tiramisù éd una crème brulée. Dei vini non ci è stata presentata una carta, così che in un primo tempo siamo stati invitati a scegliere tra i soliti Pinot, Rapitalà, Aragosta ecc. oppure ad adattarci al vino della casa. Noi abbiamo preferito provare quest’ultimo e ci è stato portato in tavola un esile, seppur non sgradevole, bianco da tavola La Rocca, di Rocca di Papa, vinoso, fresco e acidulo. In un secondo tempo, viste le nostre perplessità, sono uscite dal cilindro del gestore nuove proposte, questa volta decisamente più accettabili, tanto che ci siamo potuti rallegrare di un ottimo Greco di Tufo del 1986, brillante e profumatissimo. Col tempo la disponibilità ad occuparsi di noi è notevolmente migliorata, per cui a fine pasto, oltre ai soliti, anche se fuori posto qui, cantucci col Vin santo, ci sono stati offerti un «puro malto» di dieci anni e gli ovetti di cioccolato accompagnati da un conto quasi modesto.

Le Streghe è il nome del ristorante aperto da poco in Vicolo del Curato 13, in Borgo S. Spirito. L’interno è in quello stile rustico-moderato caro alle nonne: tovaglie color salmone e sedie impagliate, un pendolo alla parete, una vecchia credenza. Ai tavoli badano una giovane sparuta e un po’ aspra e una matrona opulenta tanto gentile da sembrare invadente. La clientela è composta da una fauna composita, ma accomunata dalla volontà di emergere: donne con il prèt à porter d’annata, berlusconiane come i loro uomini, che sono tanto volgari da estrarre, con la mano lasciata libera dalla sigaretta, un gigantesco sigaro dal taschino che mostrano alla vicina con allusivo ed ebete sorriso; più in là c’è l’architetto giovane ancora ma dai capelli sapientemente imbiancati, insieme ad una donna in tailleur mascolino e corta zazzera. Al nostro fianco ride una cavallona d’epoca in compagnia del suo commerciante obeso.
Abbiamo tirato così a lungo il bozzetto di «genere» perché siamo restii a dar l’avvio alle solite lamentazioni e, prima di iniziarle, vogliamo rivolgere una preghiera. Non aprite un ristorante soltanto perché vi è venuta in testa «un’idea che potrebbe funzionare». Prima preoccupatevi di verificare le vostre capacità in cucina o, almeno , assicuratevi almeno delle credenziali che vi presenta lo chef che deciderete di assumere: proprio non basta l’ambientazione ed il vero o supposto savoir faire!
Le ricette che abbiamo provato non erano né tradizionali né creative: erano pasticci; qualcuno meno sgradevole, alcuni disgustosi, ma tutti lontani dall’essere professionalmente accettabili, per cui stendiamo un velo caritatevole. Che le intenzioni non siano le peggiori noi abbiamo cercato di dedurlo dalla qualità e dal buon livello di conservazione dei vini, tutti gradevoli, di marca, serviti alla temperatura dovuta, ma non sufficienti ad assolvere l’avventurosa impresa, anche se per il momento il conto è così modesto da indurre alcuni in tentazione.

31 – Aprile ‘87

mercoledì, 1 aprile 1987

La Duse e D’Annunzio è il decadente titolo di uno spettacolo di Nivio Sanchini, messo in scena dall’autore al decentratissimo Teatro delle Voci di Via Monbelli 24, un ex-cinema di periferia vastissimo ed impersonale, un po’ desolante quando è vuoto quasi del tutto in una sera fredda di prolungato inverno. Evidentemente la politica di decentramento troppo poco si preoccupa talvolta di rendere vivibili e gradevoli gli ambienti che va recuperando qua e là! Diapositive nell’atrio e un monitor in sala mandavano immagini a getto continuo: la Duse e i suoi contemporanei e i funerali stessi della divina, accompagnati da una lettura un po’ spettrale di vari brani che non abbiano avuto la pazienza di identificare.
Dice l’autore: «Nello scrivere il testo, quando non ho usufruito dei materiali di D’Annunzio e della Duse, ho preso copiosamente e spudoratamente da tanti autori. Converrà allora stare in fiducia! E quindi credere che qualcosa di mio deve pur esserci, in questo mio testo».
I due farfalloni sono molto fiduciosi, ciò non toglie però che questo minestrone sia decisamente dissennato e noiosissimo. Qua e là, ci sono bellissime frasi dannunzianamente abbaglianti, disperse però in un tragicomico andirivieni di personaggi tutti inessenziali, compresi i protagonisti.
D’Annunzio e la Duse per un po’ si parlano di amore e di sesso, poi di teatro e d’arte, alla fine, la povera signora Eleonora si dispera in Pittsburg perché vuole una casa, usando espressioni da «madamina» piccolo borghese stufa di «stare in affitto».
La scena è divisa in tre zone: in quella a destra dello spettatore c’è il salottostudio-alcova dei lirici amanti, a sinistra un tavolino da café chantant cui siedono quasi costantemente tre attrici della compagnia della Duse, occupate a tagliarle i panni indosso, vestite in grigio e nero con l’aria delle ben note «civette sul comò»; infine un praticabile rialzato che occupa lo sfondo permette a tutti i personaggi di fare passeggiate o figurazioni, stagliati contro il bianco fondale; ma soprattutto permette a una replica danzante della stessa Duse di esprimere gestualmente quelli che dovrebbero essere discorsi muti e paralleli.
Un certo intento costruttivo è riscontrabile nell’insieme di tutto lo spettacolo; ma non è sufficiente a dare plausibilità all’operazione perché troppo si ripete l’unica idea di contrapporre al dialogo in termini sublimi dei due il basso cicaleccio delle altre.
Bravissima, in un frangente addirittura disperato come quello, è stata Giusi Martinelli, la quale ha tentato coi propri mezzi artistici di dare consistenza di personaggio ad un insieme di battute pseudoletterarie, riuscendovi in parte, anche a costo di sputar l’anima in scena. Luciano Fino era una specie di bibliotecario in mezze maniche: totale negazione di ogni empito eroico o sensuale e se il suo intento era di demolire il Vate bisogna dire che c’è riuscito.
Maria Bartocetti, Maria Rosa Bastianelli e Teresa Greco sono ancora piuttosto lontane dal sapere che cosa sia la recitazione. Gli «elementi di danza visualizzati da» Susanna Belli altro non erano che lo scontato e presuntuoso gesticolare con cui troppi giovani danzatori e danzatrici credono di poter interpretare i sentimenti dell’intero universo. Massimo Micheli figurava come tecnico del suono; le scene ed i costumi erano del laboratorio T.C.R..

Iljà Ilie Oblomov è uno tra i più bei personaggi della letteratura russa dell’Ottocento; il suo autore pubblica in una miscellanea del 1849 un raccconto intitolato «Il sogno di Oblomov» e poi nel 1859 gli dedica un intero romanzo che ha per titolo appunto «Oblomov» e che ne decreta il successo letterario.
Abbiamo cercato di assistere alla rappresentazione del Sogno di Oblomov di Siro Ferrone di Goncarov cercando di non pensare alle bellissime pagine dello scrittore russo; per fortuna non ci siamo riusciti, perciò quel poco di pathos e di coinvolgimento ci è stato dato dall’ombra che il romanzo gettava sul personaggio teatrale, facendolo partecipe della sua grandezza. In realtà, sulla scena del Teatro Valle si è rappresentata una commediola umoristica, dalla scrittura abbastanza sciatta, solo antologicamente fedele, con personaggi senza alcuno spessore. Se, per avventura, qualcuno non avesse letto l’opera di Goncarov, ma noi speriamo che nessun uomo ben nato non l’abbia letta, sarebbe rimasto del tutto indifferente al dimenarsi continuo, talvolta quasi frenetico, del protagonista e non avrebbe potuto capire nulla del suo disperato velleitarismo, della sua angosciata e tragica noia, emblema di un’epoca, di una situazione umana.
La compagnia del Teatro Stabile dell’ Aquila ha messo in scena il testo di Ferrone, con la regia di Beppe Navello, in modo onesto e corretto.
Una grande prova di virtuosismo distorto l’ha data Paolo Bonacelli che ha strizzato dalle battute tolte di peso dal romanzo tutto il succo possibile. Era il suo un personaggio necessariamente esile ma poiché gli attori sono pronti a tutto pur di coinvolgere il pubblico, ha ecceduto forse in «gags» un po’ da avanspettacolo, sottolineando troppo le battute umoristiche che, d’altra parte, erano le più sopportabili. Ha cercato anche altre sfumature, talvolta riuscendo a creare un’atmosfera tra lo stralunato e il sospeso, che però subito scoppiava come una bolla di sapone.
Bravissimo anche Gianni Galavotti, nei panni di Zachar, servo fedele e allucinato, ricco di una sua coerenza interiore. L’attore gli ha dato una voce sempre molto tesa drammaticamente, con un effetto inquietante, ripreso anche dai gesti sempre sforzati.
Il tedesco Stolz interpretato da Emanuele Vezzoli si muoveva con sufficiente disinvoltura.
Luigi Tontoranelli – Tarantiev – e Paolo Barberisi – Matveevic – sembravano troppo il gatto e la volpe di collodiana memoria.
Non ci è piaciuta per niente la Olga di Domiziana Giordano: una stampella per abiti alla quale erano appesi vestiti giganteschi, da cui usciva appena un faccino grazioso e inespressivo; inoltre era rigida anche nel suo meccanico e insistito andirivieni. Assolutamente imperdonabile la sua dizione: un bofonchiare incomprensibile che mandava perdute tutte le possibili intenzioni interpretative.
Efficace la versione di «gatta mammona», tenera e vischiosa, che Anna Razzoli ha reso del personaggio della vedova Agafja.
Dina Sassoli e Renata Palminiello assolvevano i ruoli della zia e dell’amica di Olga.
Le scene e i costumi di Luigi Perego erano quanto di meglio si potesse desiderare: semplici ed efficaci, sia nel restringere fino a rendere opprimenti le due stanze di Oblomov, sia nell’aprire all’infinito la scena, negli esterni della campagna primaverile e autunnale; peccato, come abbiamo detto, che i vestiti di Olga non fossero adatti all’attrice.
Di nessuna efficacia il commento musicale di Arturo Annecchino, eseguito in scena da un bravo trio composto da Grazia Pezzopane alla viola, Cristina Majnero al clarinetto e Lucia Neri al flauto. La regia, senza infamia e senza lode, si è limitata ad assecondare autore e attori.