31 – Aprile ‘87

aprile , 1987

La Duse e D’Annunzio è il decadente titolo di uno spettacolo di Nivio Sanchini, messo in scena dall’autore al decentratissimo Teatro delle Voci di Via Monbelli 24, un ex-cinema di periferia vastissimo ed impersonale, un po’ desolante quando è vuoto quasi del tutto in una sera fredda di prolungato inverno. Evidentemente la politica di decentramento troppo poco si preoccupa talvolta di rendere vivibili e gradevoli gli ambienti che va recuperando qua e là! Diapositive nell’atrio e un monitor in sala mandavano immagini a getto continuo: la Duse e i suoi contemporanei e i funerali stessi della divina, accompagnati da una lettura un po’ spettrale di vari brani che non abbiano avuto la pazienza di identificare.
Dice l’autore: «Nello scrivere il testo, quando non ho usufruito dei materiali di D’Annunzio e della Duse, ho preso copiosamente e spudoratamente da tanti autori. Converrà allora stare in fiducia! E quindi credere che qualcosa di mio deve pur esserci, in questo mio testo».
I due farfalloni sono molto fiduciosi, ciò non toglie però che questo minestrone sia decisamente dissennato e noiosissimo. Qua e là, ci sono bellissime frasi dannunzianamente abbaglianti, disperse però in un tragicomico andirivieni di personaggi tutti inessenziali, compresi i protagonisti.
D’Annunzio e la Duse per un po’ si parlano di amore e di sesso, poi di teatro e d’arte, alla fine, la povera signora Eleonora si dispera in Pittsburg perché vuole una casa, usando espressioni da «madamina» piccolo borghese stufa di «stare in affitto».
La scena è divisa in tre zone: in quella a destra dello spettatore c’è il salottostudio-alcova dei lirici amanti, a sinistra un tavolino da café chantant cui siedono quasi costantemente tre attrici della compagnia della Duse, occupate a tagliarle i panni indosso, vestite in grigio e nero con l’aria delle ben note «civette sul comò»; infine un praticabile rialzato che occupa lo sfondo permette a tutti i personaggi di fare passeggiate o figurazioni, stagliati contro il bianco fondale; ma soprattutto permette a una replica danzante della stessa Duse di esprimere gestualmente quelli che dovrebbero essere discorsi muti e paralleli.
Un certo intento costruttivo è riscontrabile nell’insieme di tutto lo spettacolo; ma non è sufficiente a dare plausibilità all’operazione perché troppo si ripete l’unica idea di contrapporre al dialogo in termini sublimi dei due il basso cicaleccio delle altre.
Bravissima, in un frangente addirittura disperato come quello, è stata Giusi Martinelli, la quale ha tentato coi propri mezzi artistici di dare consistenza di personaggio ad un insieme di battute pseudoletterarie, riuscendovi in parte, anche a costo di sputar l’anima in scena. Luciano Fino era una specie di bibliotecario in mezze maniche: totale negazione di ogni empito eroico o sensuale e se il suo intento era di demolire il Vate bisogna dire che c’è riuscito.
Maria Bartocetti, Maria Rosa Bastianelli e Teresa Greco sono ancora piuttosto lontane dal sapere che cosa sia la recitazione. Gli «elementi di danza visualizzati da» Susanna Belli altro non erano che lo scontato e presuntuoso gesticolare con cui troppi giovani danzatori e danzatrici credono di poter interpretare i sentimenti dell’intero universo. Massimo Micheli figurava come tecnico del suono; le scene ed i costumi erano del laboratorio T.C.R..

Iljà Ilie Oblomov è uno tra i più bei personaggi della letteratura russa dell’Ottocento; il suo autore pubblica in una miscellanea del 1849 un raccconto intitolato «Il sogno di Oblomov» e poi nel 1859 gli dedica un intero romanzo che ha per titolo appunto «Oblomov» e che ne decreta il successo letterario.
Abbiamo cercato di assistere alla rappresentazione del Sogno di Oblomov di Siro Ferrone di Goncarov cercando di non pensare alle bellissime pagine dello scrittore russo; per fortuna non ci siamo riusciti, perciò quel poco di pathos e di coinvolgimento ci è stato dato dall’ombra che il romanzo gettava sul personaggio teatrale, facendolo partecipe della sua grandezza. In realtà, sulla scena del Teatro Valle si è rappresentata una commediola umoristica, dalla scrittura abbastanza sciatta, solo antologicamente fedele, con personaggi senza alcuno spessore. Se, per avventura, qualcuno non avesse letto l’opera di Goncarov, ma noi speriamo che nessun uomo ben nato non l’abbia letta, sarebbe rimasto del tutto indifferente al dimenarsi continuo, talvolta quasi frenetico, del protagonista e non avrebbe potuto capire nulla del suo disperato velleitarismo, della sua angosciata e tragica noia, emblema di un’epoca, di una situazione umana.
La compagnia del Teatro Stabile dell’ Aquila ha messo in scena il testo di Ferrone, con la regia di Beppe Navello, in modo onesto e corretto.
Una grande prova di virtuosismo distorto l’ha data Paolo Bonacelli che ha strizzato dalle battute tolte di peso dal romanzo tutto il succo possibile. Era il suo un personaggio necessariamente esile ma poiché gli attori sono pronti a tutto pur di coinvolgere il pubblico, ha ecceduto forse in «gags» un po’ da avanspettacolo, sottolineando troppo le battute umoristiche che, d’altra parte, erano le più sopportabili. Ha cercato anche altre sfumature, talvolta riuscendo a creare un’atmosfera tra lo stralunato e il sospeso, che però subito scoppiava come una bolla di sapone.
Bravissimo anche Gianni Galavotti, nei panni di Zachar, servo fedele e allucinato, ricco di una sua coerenza interiore. L’attore gli ha dato una voce sempre molto tesa drammaticamente, con un effetto inquietante, ripreso anche dai gesti sempre sforzati.
Il tedesco Stolz interpretato da Emanuele Vezzoli si muoveva con sufficiente disinvoltura.
Luigi Tontoranelli – Tarantiev – e Paolo Barberisi – Matveevic – sembravano troppo il gatto e la volpe di collodiana memoria.
Non ci è piaciuta per niente la Olga di Domiziana Giordano: una stampella per abiti alla quale erano appesi vestiti giganteschi, da cui usciva appena un faccino grazioso e inespressivo; inoltre era rigida anche nel suo meccanico e insistito andirivieni. Assolutamente imperdonabile la sua dizione: un bofonchiare incomprensibile che mandava perdute tutte le possibili intenzioni interpretative.
Efficace la versione di «gatta mammona», tenera e vischiosa, che Anna Razzoli ha reso del personaggio della vedova Agafja.
Dina Sassoli e Renata Palminiello assolvevano i ruoli della zia e dell’amica di Olga.
Le scene e i costumi di Luigi Perego erano quanto di meglio si potesse desiderare: semplici ed efficaci, sia nel restringere fino a rendere opprimenti le due stanze di Oblomov, sia nell’aprire all’infinito la scena, negli esterni della campagna primaverile e autunnale; peccato, come abbiamo detto, che i vestiti di Olga non fossero adatti all’attrice.
Di nessuna efficacia il commento musicale di Arturo Annecchino, eseguito in scena da un bravo trio composto da Grazia Pezzopane alla viola, Cristina Majnero al clarinetto e Lucia Neri al flauto. La regia, senza infamia e senza lode, si è limitata ad assecondare autore e attori.