31 – Aprile ‘87

aprile , 1987

Il Macbeth di Verdi è molto difficile da mettere in scena: non tanto perché presenti difficoltà tecniche, vocali o strumentali, ma perché è un’opera mal riuscita. Il grande musicista di Busseto si rivela in questa sua impresa decisamente al di sotto dell’altrettanto grande drammaturgo di Stratford on Avon cui si ispira. Del Macbeth shakespeariano non c’è qui rimasto quasi più nulla: non tanto per l’insulsaggine del libretto di F.M. Piave, ma proprio perché la musica verdiana non riesce a trovare lo slancio sufficiente a raggiungere la potenza drammatica necessaria ad esprimere sentimenti terribili le cui radici Shakespeare fa affondare nelle misteriose profondità dell’animo umano. Nulla resta neppure dell’inquietante soffio di un mondo arcano e fiabesco, misterioso e terribile, mirabilmente espresso con ricchezza e unità dal poeta inglese.

E difficile metterlo in scena perché è arduo trovare una chiave di lettura che sia unitaria e sensata. L’edizione che abbiamo sentito è quella che Verdi scrisse nel 1865 per l’edizione parigina, realizzata dopo lungo tempo dal debutto di Firenze del 1847. L’ orchestrazione risulta particolarmente sciatta e questa volta i verdiani «zum-pa-pa» non sono neppure illuminati dalle sia pur sporadiche e fugaci idee musicali che altrove Verdi sa inserire e manca totalmente anche lo splendore drammatico dell’insuperabile melodiare verdiano che spesso attinge i vertici del sublime.

Così ad esempio mentre le tre streghe cantano: «Tu dito d’un pargolo/strozzato nel nascere,/Tu labbro d’un Tartaro,/Tu cor d’un eretico,/Va dentro e consolida/La polta infernal» nella prima scena del terzo atto, intorno al ribollente calderone, l’accompagnamento orchestrale è al livello più sciocco che si possa immaginare, degno di una canzoncina al concorso dello Zecchino d’oro. Nella terza scena del quarto atto, poi, nella terribile scena della follia, le parole di Lady Macbeth sono rivestite da una melodiuzza di canzoncina napoletana, che riesce tutt’al più ad esprimere una leggera malinconia, ma è assolutamente inadeguata; e la cosa risulta ancora più evidente se si pensa di confrontarla, per esempio, con la scena della follia nella Lucia di Lammermoor di G. Donizetti!

Certo, ci sono anche alcuni concertati molto ben costruiti e c’è un’aria addirittura splendida, come quella che Macbeth canta nella quinta scena del quarto atto: «Pietà, rispetto, amore,. ..», ma è troppo poco per dare senso complessivo ad un lavoro così articolato come un dramma musicale.

In questo allestimento all’Opera di Roma, capaci, malgrado tutto, di superare le difficoltà e di trovare una chiave plausibile, in reciproco accordo, forse addirittura inconsapevolmente, sono stati soltanto il direttore Giuseppe Patané e il baritono Renato Bruson.

Entrambi sono stati eccezionali nel loro riuscito tentativo di raccontare il Macbeth come fosse una di quelle fiabe ingenue e misteriose che riempiono le lunghe notti d’inverno nei freddi paesi del nord, affascinando grandi e piccini. La stupenda voce di Bruson, duttile, flessuosa, dall’intonazione perfetta, aiutata da una tecnica di respirazione eccezionale che non la rendeva mai sforzata, narrava con semplicità la fiaba di due sposi cattivi, traditori e assassini, che alla fine sono raggiunti dalla punizione divina, in un mondo popolato di streghe, fantasmi e orridi castelli merlati. Ci dava l’impressione che non fosse Macbeth in persona a recitare, ma un antico cantastorie, come se il cantante stesse volontariamente alle spalle del suo personaggio sorvegliandolo sempre con sollecita attenzione.

Patané guidava l’orchestra con equilibrio mirabile: ottimo nell’impasto dei fiati, così brutalmente preponderanti e sciatti in questa partitura, che però, grazie al direttore, non giungevano mai a soverchiare la schematica precisione degli archi.

Contenutissimi, anche, i rataplan di piatti e grancasse.

Tutto il resto pareva invece andare per conto suo: Elizabeth Connell, sebbene a livelli accettabili, era però troppo timida negli inizi di frase e smorzava nelle note basse, come se non sapesse padroneggiarle; nei momenti migliori ricordava piuttosto la parigina Violetta che non una terribile signora della morte; non solo per colpa della musica di Verdi, ma anche perché la sua voce, pur corretta era decisamente troppo flebile ed esile.

Non possiamo tacere dei nitriti stonatissimi di Pietro Jorio il quale è riuscito a sfasciare completamente il concertato finale del primo atto ed è stato inqualificabile nel brano del quarto atto.

Ci è sembrato che le scene di Maurizio Balò abbiano compromesso qualsiasi possibilità di azione alla regia: le intenzioni di Giorgio Pressburger non potevano che affondare nel buio e troppo mobile marchingegno scenico, appena illuminato da grottesche trovate fluorescenti. È meglio tacere delle penose coreografie di Goyo Montero con quei saltelli di bianche pecorelle, là dove si sarebbe dovuto svolgere il sabba del ballo dei demoni al terzo atto. Il lavoro di Ine Meisters ha permesso al coro di essere sempre più che dignitoso.

La situazione si capovolge nel Don Carlo. Nel 1787 Schiller scrive il dramma in cui narra le vicende del figlio infelice di Filippo II e la storia del suo sfortunato amore per la matrigna: intrighi, ragion di stato e ragioni d’altare, misti a romantici aneliti di libertà, ma quanto è più prolissamente debole la pagina di Schiller, confrontata con l’abbagliante bellezza dell’opera verdiana.

Commissionata dall’Opéra di Parigi e andata in scena nella prima versione nel 1867, l’opera di Verdi subì diverse rielaborazioni e revisioni sia del libretto sia della parte musicale ed in epoca moderna si rappresentano per lo più una versione in cinque atti ed una in soli quattro atti; l’Opera di Roma ha messo in scena la revisione che Angelo Zanardini realizzò del libretto di Méry e Du Lode per la Scala nel 1884 in soli quattro atti (anche se in realtà pare che questi siano quattro dei cinque atti messi in scena da Visconti e Giulini nel 1965).

Non c’è un momento di stanchezza ispirativa; la sapienza teatrale di Verdi è sbalorditiva, l’orchestrazione, come per incanto (pensiamo appunto al Macbeth) è sapientissima, i moduli verdiani sono tutti presenti: come l’uso talora vagamente bandistico dei fiati e il semplice dipanar. si degli archi, ma quanta ricchezza e buon gusto in tutto questo! Idee continue meravigliosamente semplici, in sbalorditivo accordo con ciò che accade sulla scena.

Armonie piacevoli, senza asperità, che molto spesso si ripetono, però mai per esaurimento creativo, ma per dare continuità drammatica agli eventi. La parte vocale è di bellezza ineguagliabile. Arie possenti, duetti che fanno tremare, concertati disarmanti per la loro semplice e diretta efficacia; arie tenere ed appassionate piene di amore e di forza. Su tutti brilla lo splendido personaggio di Rodrigo, marchese di Posa, amico di Carlo, sua guida politica, suo confidente. L’amore tra i due è disegnato tenerissimo ed eroico, fino a raggiungere il suo culmine nella scena della morte di Rodrigo che è vero sacrificio d’amore, più eroica del pur splendido sacrificio di Aida e Radames e più appassionata della straziante morte di Violetta. L’opera infatti potrebbe finire qui, con questo abbraccio virile, questo tenerissimo addio. Ma ovviamente la pruderie di Verdi e le esigenze del grand opéra non hanno permesso una conclusione così inquietante. Per fortuna, l’ultimo atto è talmente bello, soprattutto per la parte di Elisabetta, che non ci si rammarica troppo.

Renato Bruson, nelle vesti di Rodrigo, ci ha letteralmente entusiasmati; al suo primo apparire in scena siamo rimasti di stucco: forse perché avevamo ancora presente la sua figura nel Macbeth, quasi non lo abbiamo riconosciuto: aitante, giovanile con una voce dalle intonazioni completamente cambiate. È difficilissimo trovare un grande interprete, attore o cantante, che riesca a non interpretare sempre se stesso quale che sia il ruolo che riveste; qui Bruson, pur nella fedeltà e coerenza con i suoi principi estetici è stato un perfetto Rodrigo, ricchissimo di sfumature, solenne, innamorato e struggente; la sua voce non ha mai avuto una esitazione.

Luis Lima è stato un Don Carlo corretto, dalla voce chiara ed incisiva, potente, senza inutili eccessi, dalla recitazione fluida ed adeguata.

Per ragioni di lavoro abbiamo dovuto rinunciare a vedere ed a sentire Katia Ricciarelli, e la sera del 25 marzo il personaggio di Elisabetta era interpretato da Margarita Castro Alberty e ce ne siamo dovuti rammaricare: in lei non c’era nulla né della tenerezza né della forza della sperduta figura della principessa francese: la sua vocalità risultava appena corretta, una voce forte sebbene un po’ in espressiva. Si è impegnata moltissimo nell’ultimo atto nella scena del chiostro riuscendo anche a raggiungere istanti di efficacia, però non è riuscita ad evitare il naufragio nelle ultime frasi melodiche, sfasciandosi; inoltre la sua presenza scenica e la sua recitazione risultavano di rigidezza eccessiva, in grande contrasto con l’impostazione generale.

Il Filippo II di Nicola Ghiuselev è risultato un po’ opaco, di scarsa potenza drammatica e vocale, sebbene la cosa risultasse molto evidente solo nelle scene in cui era a confronto diretto con Rodrigo, mentre per il resto appariva di buona professionalità.

Dimitar Stanchev, il Grande Inquisitore, ha sprigionato una giusta voce, ricca di armonici, profonda ed austera, ma dalla recitazione eccessiva e magniloquente. Dunia Vejzovic ha dato alla principessa di Eboli una voce bella , piena ed espressiva.

Gli altri erano: Gianfranco Casarini, Ilaria Galgani; Pietro Jorio, Yoko Takeda e Carlo Bosi.

Gustav Kuhn ha diretto con precisione e buon gusto; c’è sembrato però stanco negli ultimi due atti, quando gli è sfuggita un po’ di mano l’orchestra nel famoso «Dormirò sol» dove abbiamo notato un disorientamento ritmico. Complessivamente è stata però la sua una guida eccellente per tutti.

Bisogna dire a questo punto che l’allestimento di questo Don Carlo rientra nell’Omaggio a Visconti che circa vent’anni fa, come abbiamo già detto, ne curò la regia e le scene.

Il regista Alberto Fassini riprendendo l’originale ha voluto seguire la via della fedeltà; il risultato è stato più che buono: i personaggi si muovevano all’interno di un piano organico senza vuoti e sbavature, a parte un personaggio la cui drammaticità ci è parsa completamente perduta: quello del frate-fantasma di Carlo V, quasi totalmente annullato, ed un po’ di affollamento eccessivo nelle masse. Le scene erano quasi tutte quelle di allora a parte alcuni elementi che è stato necessario sostituire perché distrutti o inadeguati alle nuove tecniche: spazi sempre enormi, linee architettoniche massicci amene incombenti, luminosità sempre drammatiche anche quando erano sfavillanti.