31 – Aprile ‘87

aprile , 1987

L’arte di Luce Balla è senza tempo, ma non al di fuori del tempo. Ognuna infatti delle venti opere esposte alla Galleria Due C di Piazza Mignanelli 3, col titolo «Trasparenze di Luce», esprime un istante: non c’è evoluzione tecnica, stilistica e addirittura quasi inavvertibile è il tragitto dell’esistenza. Con astuta mossa, quasi teatrale, i curatori del catalogo, introdotto da Cleto Polcina e Alessandro Balla, non dicono nulla della vita della Pittrice, se non che è figlia di Giacomo.
E bene così, privilegiando il suo lavoro: tenace, intenso, poetico ed artigianale, costruito da mani invisibili e presenti allo stesso tempo, con interventi che travalicano i limiti del dipinto, per costruirne talvolta le stesse cornici, impreziosite ingenuamente dalla laccatura a finto marmo, come resti di rustico barocco di campagna, e, talvolta, che alternano all’uso del pennello quello dell’ago che ricama e cuce e della forbice.
La semplicità è però solo apparente: dietro ai colori e alle forme il pensiero affonda e chi guarda non trova punti di riferimento; allora per non smarrirsi ne stabilisce qualcuno: il genere, i luoghi…
ma presto si accorge di essere in cattiva coscienza; è come se Luce Balla dicesse frasi solide e ferme, ma troppo sottovoce per chi passa di fretta. Così si isola qualche frammento: i vasi di fiori, sempre annegati nella luce, ripetuti negli anni da Semplicità del 1943 alla Mimosa nella luce di Primavera del 1984; oppure i paesaggi, quasi sempre notturni, che si possono sintetizzare nel gusto che si prova per Il silenzio delle cose della notte, come suggerisce il titolo di un pastello del 1985.
Ancora, ci si interroga sul perché di un ricamo in lana o di un autoritratto di lieve vanità e ci si commuove sul disegno a matita che è La mano di papà mentre dorme del 1952 dove l’occasione intima rubata appare tanto diversa da quella più ufficiale e compiaciuta del Ritratto del padre di nove anni prima.

La Galleria dei Banchi Nuovi di Marcello Silva è uno spazio messo a disposizione dell’arte e dei suoi riti solo da pochi giorni. Al numero 37 della via da cui prende il nome, si colloca in uno dei luoghi privilegiati di una «romanità» intensamente frequentata da turisti ed esteti, ma anche da bottegai ed artigiani che la mantengono più viva che mai.
L’inizio dell’attività è avvenuto con una mostra di opere di Piero Gilardi, tutte molto recenti e la gran parte eseguite per l’occasione. Usando un materiale spugnoso qual è il poliuretano espanso, l’artista ha costruito una serie di «tappeti-natura», variopinti appezzamenti di diversa grandezza su cui giacciono sparsi elementi naturali: frutti campagnoli come i cachi oppure esotici come i cacao e ancora tronchi bruciati o verdi bambù e palmeti, funghi o pesci, foreste pluviali o spiagge, tutte cose che fa una certa impressione vedere lì appese alle pareti, tanto ricordano quei pratini di plastica che addobbano i bordi di californiane piscine o i più modesti giardinetti di tante villette di periferia, nel qual caso i funghi sono quelli bianchi e rossi di «Biancaneve e i sette nani». Un’intera sala è dedicata ai Mutanti: neri mosconi di ferro, reticella e gommapiuma, schierati come due eserciti contrapposti ad assediare il breve spazio che resta al visitatore, il quale, cercando scampo, guarda in alto e invidia coloro che hanno lasciato sul bianco lenzuolo sospeso le variopinte impronte di un viaggio verso la salvezza (ma forse quelle impronte vogliono drammaticamente ricordare che d’abitudine sono le mosche a camminare sui bianchi soffitti). Un gioco, anche questo, con un po’ di brivido e tanta ingenuità, cui Achille Bonito Oliva, nel catalogo, trova tante estetistiche giustificazioni.