Psicoanalisi contro n. 31 – Lo stupratore di anime

aprile , 1987

«Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa e se tutti fur cherci
questi chercuti a la sinistra nostra.»
Ed egli a me: «Tutti quanti fur guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia
quando vengono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia…»
(Dante, Divina Commedia, Inferno, c. VII, vv. 37-45)

Correttamente Dante coglie il linguaggio dell’inconscio: due sentimenti sono simili appunto nella opposizione della loro specularità; questa intuizione non è esclusivamente dantesca: la «coincidentia oppositorum» ricorre di frequente nelle allegorie medioevali e non soltanto.

È una conferma di quanto essa sia una delle strutture fondamentali del pensiero inconscio. La commedia è divina anche perché parla, con estrema semplicità, della persona umana, pur usando un linguaggio apparentemente astruso. Nelle tre cantiche tutti si possono ritrovare, ma è ingenuo pensare che soltanto l’Inferno, cavità oscura e terribile, simbolizzi l’inconscio; non lo rappresentano meno il diafano Purgatorio o il risplendente Paradiso. L’architettura dell’oltremondo dantesco è trecentescamente gotica e nello stesso tempo spudoratamente atemporale: fuori della storia e dentro di essa. Proprio come l’uomo, che non è nulla al di là delle relazioni, degli accadimenti dell’accidentalità quotidiana; ma è instabilmente rannicchiato in un mondo che nessuno è ancora riuscito a dire con chiarezza di dove venga e dove vada. L’avarizia e la prodigalità sono simili, cozzano l’una contro l’altra solo apparentemente, mentre percorrono eternamente il mezzo cerchio di un anello che le comprende entrambe in una unica realtà. A questo punto, l’allegoria dantesca diventa sghemba proprio come lo è l’apparente simmetria del gotico e come lo sono le inspiegabili capriole dell’inconscio. Avarizia e prodigalità sono infatti due espressioni della stessa avarizia. Questo è possibile per il linguaggio dell’inconscio, secondo il quale due può essere uno. Se questo uno è fondamento della coppia, l’altro allora sarà l’ombra del primo. Per il momento ammettiamo che sia così. Questa coppia esprime l’incapacità di dare e di darsi, che è la caratteristica essenziale dell’avarizia e della prodigalità, insieme con la lontananza da Eros, che è il bene o il sole. L’erotismo è la capacità di cogliere noi stessi e il mondo con gusto e con allegria, anche se per ora questa però è soprattutto una possibilità abbastanza remota. Gli esseri umani sono molto malati. e la guarigione può passare anche attraverso le fantasie del «ghibellin fuggiasco».

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Ho parlato dell’avarizia in generale e del suo doppio: la prodigalità, cercando anche di snidarla in alcuni dei luoghi in cui si nasconde tentando di camuffarsi. Come mai è così facile per questo sentimento umano trovare tante possibilità di travestimento? E ancora: perché l’avarizia non si trova mai allo stato puro? Tutti i sentimenti dell’uomo sono sempre mescolati ad altri e sembra impossibile riuscire a districare questa matassa così arruffata e poter osservare il colorato filo di una passione, preso isolatamente. E un vizio di tutta la ricerca scientifica, quello di voler isolare un fenomeno, per poterlo meglio osservare, studiare, prevedere. Questo metodo però mina, a mio avviso, le fondamenta stesse della ricerca scientificamente corretta. Le astrazioni e i modelli sono estremamente utili, ma è molto importante che si osservi l’affollarsi dei fenomeni sul campo, così come si presentano all’osservazione umana. Gli strumenti di laboratorio sono costruiti dagli uomini e quindi sono ciechi e sordi a tutta una gran quantità di sollecitazioni e presentano soltanto un pezzo isolato di realtà, rafforzando spesso la stupidità e la pigrizia del ricercatore o sperimentatore. Ritorniamo ora alle due domande che mi ero posto: come mai i sentimenti possono così facilmente travestirsi e non si trovano mai per così dire «allo stato puro»? La seconda domanda è già in parte una risposta alla prima: proprio perché sono sempre mescolati e sfumano indistintamente l’uno nell’altro è possibile che un tratto caratteristico di una persona, particolarmente rifiutato, possa trasformarsi in qualcosa di apparentemente molto diverso, per agire, muovere e realizzare obiettivi indisturbatamente. Talvolta proprio il travestimento dà ad un sentimento la capacità di un impatto ancora maggiore sul reale. È fin troppo facile spiegare questo facendo ricorso alle difese fondamentali del narcisismo e
sadomasochismo. È esperienza di tutti l’osservazione di comportamenti estremamente sadici che tendono esclusivamente a scaricare l’aggressività e il desiderio di distruggere l’altro, travestiti sapientemente da altruismo e da compassionevole abnegazione. Non mi riferisco soltanto ai gesti clamorosi che possiamo riscontrare in luoghi particolari come gli ospedali, i collegi, oppure le carceri, parlo anche di gesti quotidiani, apparentemente innocui: la madre che truce, forza il figlio a mangiare: «per il tuo bene», anche se il bambino, come può capitare, quel giorno, non ne ha voglia. Pianti e disperazione del piccolo, spesso, non smuovono la madre, anzi, brilla, nei suoi occhi la scintilla di un sadico piacere.

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Così pure atteggiamenti squallidamente narcisistici vengono contrabbandati come manifestazioni di una mente superiore, tutta tesa alla ricerca ed alla risoluzione di problemi scientifici o filosofici di stratosferica elevatezza o abissale profondità. Una persona di mia conoscenza, quando era in presenza di altri, assumeva abitualmente un atteggiamento assorto e assente, solo ogni tanto apriva bocca per sentenziare brevemente, dopo di che pareva tornare ad un suo astratto mondo incomprensibile per il resto dell’umanità. Ogni tanto confidava di star pensando alla pubblicazione di un libro importantissimo, che avrebbe senz’altro avuto un grande impatto sulla cultura nazionale ed internazionale. Era guardato con reverenza. Taceva e l’unica concessione che faceva alla vita sociale era di bere e mangiare moltissimo nei pranzi e nelle cene. Dapprima pensavo che si fosse costruito addosso quel personaggio del filosofo un po’ folle per poter recitare un ruolo di prestigio nel gruppo degli amici. Forse così era stato al principio, ma mi sono poi reso conto, ad un certo punto, che ormai non era più così. Mi accorsi infatti di un suo assoluto progressivo disinteresse per tutti gli altri che lo faceva essere costantemente immerso in un rimuginio mentale quanto mai pericoloso. Un giorno ebbe un grave crollo psichico e quel libro, ovviamente, non è stato mai scritto.

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Rimane in piedi il secondo interrogativo: perché le passioni e i sentimenti umani sono così ingarbugliati? Forse perché è vera la vecchia frase: «natura non facit saltus».
Le teorie della percezione ci dimostrano come noi cogliamo sempre una forma e mai un singolo elemento isolato dal contesto; e no» soltanto lo cogliamo noi, ma così è anche in realtà: ogni cosa scaturisce dall’altra e in qualche modo deve partecipare dell’altra.
La percezione e la realtà si confondono in un’unica situazione. L’esistenza umana, tolemaicamente situata al centro dell’universo, si costruisce insieme con il mondo e costruisce il mondo; ma il mondo non è un’illusione e l’uomo non è la fantasia di un uomo. Ci siamo trovati addosso questa vita, senza averla scelta; questo modo di orientarci nel mondo non è stato scelto da noi; eppure abbiamo in parte anche scelto questa vita e questo modo di orientarci nel mondo; io non penso che si possa andare oltre: bisogna accontentarsi di rimanere qui, circoscritti nel cerchio dell’universo e della nostra psiche.
Cos’è l’universo? Lo sfero di Parmenide? Le sfere di Aristotele? Energia in espansione? Tutti questi modelli sono compresi nella sfera della psiche, che ingloba e circonda tutto ciò che riesce a raggiungere con la sua comprensione. Oltre è il mistero; che però non appena è pronunciato viene assimilato, entrando a far parte dell’universo psichico.
Io, allora, riduco tutto; stelle, scienza, vita, ad uno squallido psicologismo? Spero di no. So però che l’uomo, per l’uomo, è tutto.

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Forse qualcuno potrebbe essersi turbato nel sentirmi definire l’avarizia un sentimento; ma con ciò io intendo significare che tutti i contenuti psichici, tutte le convinzioni, anche le più razionali, di un essere umano, sono, di fatto, sentimenti. Possono avere coloriture, strutture e origini diverse ma sono e restano sentimenti. Mi si domanderà allora se per me l’uomo sia solo un fascio di sentimenti. Io rispondo che è proprio così: è l’emozione che costituisce l’essere umano. Quando si parla di emozione, in genere, si presenta alla mente qualcosa di molto particolare: la sfera emozionale costituisce, secondo molti, quella parte dell’uomo in cui risiedono i sentimenti; ben separata, secondo il senso comune e anche per tanta scienza psicologica e filosofica, da quell’altra parte che costituirebbe la sfera razionale.
Secondo me, questo discorso è ormai vecchio e superato e le persone assennate dovrebbero definitivamente sbarazzarsi dell’antica contrapposizione tra emotivo e razionale. La ragione non è che un aspetto dell’emozione. Gli uomini così detti razionali sono solo persone molto tese, irrigidite nello sforzo di controllare tutto, ossessivamente spaventate dal mondo, anche se non lo ammettono neppure con se stessi. Sono individui incapaci di cogliere, perché non vogliono percepirla, la ricchezza complessiva dell’esistenza umana. Le persone che si dicono razionali sono, in realtà, miserabili sciocchi, che non si accorgono di quanto il loro sforzo verso la razionalità sia un’espressione delle loro emozioni, con tutte le caratteristiche della tensione emotiva. Indubbiamente, esiste anche un’emozione che viene più facilmente e comunemente riconosciuta come tale, in cui si percepisce con intensità il sommovimento delle passioni. Non è però più incontrollabile un’emozione violenta di quanto lo sia una altrettanto violenta determinazione razionalizzatrice.
La psicoanalisi ha usato il termine «razionalizzazione» per spiegare e definire l’atteggiamento di tutti gli uomini quando cercano di capire qualcosa di ciò che accade dentro ed intorno a loro, senza avventurarsi nei meandri oscuri dell’inconscio.
L’inconscio è una realtà troppo inquietante: è dentro e fuori di noi, ci avvolge e costruisce, ma ci fa paura, per cui preferiamo talora rapide spiegazioni. La razionalizzazione è quasi sempre una falsa spiegazione di un fenomeno psichico; mentre invece non bisogna aver paura di comprendere ciò che accade, di rendere conscio parte di ciò che è nell’inconscio. Ciò non significa che si debba sempre interpretare: sono insopportabili quelli che interpretano ogni gesto, tentando di darne tutte le motivazioni inconsce. Sono in genere orecchianti della psicoanalisi, individui castrati che, attraverso lo sproloquio, sperano di appropriarsi di un mondo che sta loro sfuggendo e con il quale non riescono ad entrare in autentico rapporto.
Ogni tentativo di capire è utilissimo e sano, se è fatto con la consapevolezza che non si capirà mai tutto e che, talvolta, è persino giusto non volere capire. Le persone che amano definirsi razionali sono, troppo spesso, nella loro miseria spirituale e nella loro ottusità, chiuse in un gioco che è un’ossessiva prova del nove.

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Perciò io mi sento di poter tranquillamente definire l’avarizia come sentimento: talvolta mi accade di definirla anche come pulsione; ma, per me, non c’è alcuna differenza nella sostanza dei due termini. Ho parlato degli avari, in generale, e poi ho parlato anche degli effetti dell’ avarizia dei pazienti coinvolti nel trattamento psicoanalitico; ora vorrei trattare invece dell’avarizia del terapeuta.
Prima di tutto, dichiaro che, secondo me, un buon analista non può essere particolarmente avaro. Il lavoro di analisi che deve aver compiuto su di sé gli ha dato la possibilità e la capacità di snidare fantasie ed atteggiamenti suggeriti dalla propria avarizia, permettendogli di superarli in buona parte e di gestire l’altra parte, diventando, di fatto, meno avaro. Il verbo gestire è stato consunto da un cattivo uso che tutti, e anche la psicoanalisi, ne hanno fatto, ma riesce ad indicare ancora abbastanza bene la possibilità che resta a chi, pur riconoscendo in sé la presenza di un sentimento indesiderato, vuole però vivere senza lasciarsene troppo condizionare.
Come si riconosce un terapeuta avaro? Sembra molto difficile, soprattutto per il paziente, che, in genere, conosce poco o nulla del proprio analista. Ci sono però due particolarità abbastanza evidenti che anche le persone più sprovvedute e più intimidite dalla figura del terapeuta possono cogliere.
La prima è l’ossessiva reverenza per quello che è definito il «setting» analitico. Mentre ci sono terapeuti volgari che rispondono addirittura al telefono, abitualmente, quando la seduta è in corso, rivelandosi così semplicemente molto maleducati, gli psicoanalisti avari paiono letteralmente terrorizzati se qualcuno, accidentalmente od eccezionalmente, bussa alla porta o rivolge una domanda, magari urgente. L’analista avaro ha il terrore che gli si rubi anche solo una piccola fetta del suo spazio. Poiché è sempre troppo pronto a calcolare il dare e l’avere, non sa guidare il gioco del suo paziente, per cui non lo accetta mai: ha paura di andare a prendere un caffè con lui, di confessare un mal di testa, come se l’acquisita confidenza potesse privarlo di qualcosa. Il terapeuta avaro non spartisce nulla con il paziente, neppure la guarigione, perché egli stesso è ancora gravemente malato.
Io penso che un certo rispetto per l’assetto analitico possa essere di qualche utilità nel dare all’analisi ritmo ed armonia. Per esempio, giova che il paziente si sdrai sul lettino: per ragioni umane e tecniche.
È infatti faticoso per l’analista essere incessantemente scrutato dai molti pazienti di ogni giorno, questa fatica può disturbare il suo lavoro ed è importante che anche il paziente desideri che lo psicoanalista non sia a disagio.
Io personalmente reggo abbastanza bene questi sguardi che mi si fissano addosso insistenti, li percepisco senza molto fastidio e qualche volta mi fanno perfino piacere, anche se talora mi sento un po’ aggredito.
La posizione sdraiata, inoltre, può favorire nel paziente, proprio per l’affinità con la situazione del sonno, il rilassamento mentale e permettere lo sprofondamento nel tempo del ricordo.
Così più facilmente avviene che al terapeuta il paziente sovrapponga altre figure, in quello che è l’utile ed inevitabile meccanismo del «transfert».
È importante anche fidarsi del proprio analista: avere il coraggio di sdraiarsi, e non pretendere di controllarlo costantemente con lo sguardo, è un segno di fiducia.
Un paziente che per tutta la durata dell’analisi non abbia mai voluto sdraiarsi sul lettino in realtà non ha fatto una vera psicoanalisi ed è comunque rimasto molto lontano da ogni possibilità di guarigione.
Nonostante queste mie convinzioni, io invito i pazienti a ribellarsi all’assoluto divieto di guardare in faccia l’analista e li esorto a non accettare passivamente l’uso del lettino.
È infatti altrettanto importante non rimanere costantemente sdraiati, con gli occhi chiusi, in un atteggiamento che, protratto troppo a lungo finisce per diventare una negazione del mondo e della persona reale del terapeuta e rende i pazienti narcisisticamente prigionieri delle proprie fantasie.
Bisogna saper giocare, anche, con colui che ti ha preso in cura; è bello imparare a non temere il suo sguardo, a non avere paura del suo corpo; ed egli non deve temere lo sguardo di chi si affida a lui.

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L’altra caratteristica del terapeuta avaro è quella di voler essere «serio». Di fronte ai pazienti è compassato, affettato nei gesti, abbigliato in modo vagamente anonimo, corretto ed opaco: mai una gonna sgargiante o una camicia aperta sul torace.
Gli analisti seri perché avari (ci sono anche persone serie le quali non sono avare) sono sempre deleteri.

Io ritengo del resto che siano nocive tutte le persone che si reputano serie, che sono cioè individui ben pensanti. I ben pensanti sono l’impiegato che fa male il proprio lavoro, l’artigiano incapace e truffaldino, il medico ignorante e brutale: tutte persone che però continuamente pontificano e lamentano l’inefficienza dei servizi, i malanni sociali, protestando contro omosessuali, drogati e preti (i ben pensanti si permettono il vezzo di essere un po’ anticlericali poiché il sacerdozio è una situazione «irregolare» che, a suo modo, turba l’ordine normale delle cose).
Lucifero tradì e si ribellò nel momento in cui diventò un ben pensante.

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Un terapeuta avaro, inoltre, comunica la sua avarizia: non la insegna esplicitamente ma appesta il suo paziente, gliela appiccica addosso, con la sua rancida correttezza, con la sua finta giustizia, con quel suo modo di lavorare meticolosamente ottuso.
I terapeuti particolarmente avari hanno sempre rifiutato di imparare in una scuola, qualunque essa sia, non hanno mai accettato di avere un maestro che artigianalmente trasmettesse loro una tecnica e una teoria cui fare riferimento.
L’analista avaro è sempre teso nella ricerca della propria indipendenza intellettuale. Non da e non si da, perché teme di essere derubato e perciò tiene a debita distanza affettiva anche i suoi pazienti.

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Potrebbe sembrare che l’analista avaro sia anche taciturno, ma non è così.
Può invece indifferentemente essere uno che sta sempre in silenzio o che parla moltissimo, comunque da generalmente l’impressione di essere uno che vuol dire solo quanto deve essere detto, ne più ne meno. In realtà, il suo terrore di venire espropriato di qualcosa da parte del proprio paziente lo fa sempre eccedere in loquacità o taciturnità, costantemente sfasato rispetto ai tempi emotivi della persona che si affida a lui. Può ricorrere tanto a difese narcisistiche quanto a difese sadomasochistiche, ma se è «un selvaggio», cioè uno di coloro che non hanno mai avuto il coraggio di accettare un maestro, di uniformarsi ad una tecnica e di seguire una scuola o un fondamento metapsicologico, non sarà di ciò neppure consapevole e le sue difese rafforzeranno progressivamente ed incessantemente la tendenza all’avarizia portandolo al disastro completo suo e dei suoi pazienti, facendone un vero e proprio stupratore d’anime.

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L’avarizia del prodigo si manifesta in analisi più o meno con gli stessi sintomi, anche se è rilevabile una caratteristica di discontinuità: non c’è l’ostentata pacatezza, ma un’ansia di coinvolgere che contagia i pazienti, travolgendoli e portandoli a dire cose senza senso, vorticosamente involgendosi e reciprocamente involgendo, senza capire più nulla.

Sia l’analista avaro, sia l’analista prodigo, se sono stati sufficientemente onesti con la loro professione da avere accettato di lavorare con un supervisore, hanno però con lui un rapporto pessimo: o lo percepiscono come potenziale espropriatore, tanto che sono persino reticenti nell’esporgli un «caso», preoccupati di tenersi almeno qualcosina per sé; o, all’opposto, annotano minuziosamente tutto quello che il supervisore dice, ma si guardano dall’applicarlo, perché i pazienti sono proprietà loro.

Ancora: alcuni altri esigono le supervisioni, perché le considerano loro dovute e pensano di pretenderle, giustamente, per allargare la loro capacità di intervento, ma in realtà le esigono perché queste permettono loro di essere mentalmente inerti, giustificando così la pigrizia: più elementi sono regalati dalla supervisione, minore sarà il dispendio di energie.
Ho detto molto e molto avrei ancora da dire, ma forse la mia avarizia e un eccesso di senso del pudore — per me inconsueto — mi fanno, per il momento, tacere.