Archivio di novembre 1985

17 – Novembre ‘85

giovedì, 28 novembre 1985

Nonostante tutto, è doveroso impegnarsi perché si esegua, si faccia eseguire e si offra l’opportunità di ascoltare la musica contemporanea. Perciò plaudiamo incondizionatamente alla decisione dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia di organizzare il concerto di musiche di Luigi Nono, all’auditorio di via della Conciliazione, in occasione del convegno che negli stessi giorni del fine settimana tra il dieci e il tredici ottobre si è tenuto a Roma sulla «condizione del compositore oggi». Della musica si può certo parlare; ma la musica si deve soprattutto ascoltare. La cosa che condanniamo invece senza riserve è l’atteggiamento del pubblico in occasioni come questa: idiota e passivo, subisce qualunque volgarità o stupidaggine, più o meno sonora, gli venga rovesciata addosso, senza approvare, senza ribellarsi, senza discutere, limitandosi ad applausi, di circostanza.

In un’atmosfera da obitorio è così accaduto che un’esigua platea di persone imbelli – e anche noi tra loro, coinvolti in quella viltà – abbiano assistito la sera del 10 ottobre al concerto Guai ai gelidi mostri, con musiche di Luigi Nono, dirette da Roberto Cecconi, con la partecipazione dei soprani: Ingrid Ade, Monika Bayr-Ivenz, Monika Brustmann; i contralti: Elisabeth Laurence e Susanne Otto; la viola Charlotte Geselbracht, il violoncello Christine Theus, il contrabasso Stefano Scodanibbio, il flauto Roberto Fabbriciani, il clarinetto Ciro Scarponi e la tuba Giancarlo Schiaffini; la regia sonora era di Hans Peter Haller.
Nono ha presentato tre brani che hanno rivelato la più desolante incapacità compositiva, coadiuvato anche da un’insulsa operazione letteraria di Massimo Cacciari, che rivela nel filosofo elaboratore dei testi di vari autori – da Lucrezio a Nietzsche – una deplorevole mancanza di rispetto per la letteratura e una concezione culturale alquanto discutibile e certo frivola.

Il primo brano A Pierre (Boulez), del 1985, costruisce, attraverso un’assoluta monotonia timbrica, appena ravvivata da qualche grumo piú intenso, labili immagini sonore che si esauriscono, per fortuna, in pochi minuti.
Guai ai gelidi mostri, del 1983, è il titolo di una musica che ci sembrerebbe l’appropriato sottofondo per un cabaret medianico: sonorità dilatate, assolutamente gratuite nella loro inconsequenzialità.

In Quando stanno morendo. Diario polacco n. 2, ha notevole importanza un coro a cappella che, analizzato a fondo, sembra un po’ troppo una canzonetta di montanari, anche negli accostamenti armonici, nonostante gli occhieggiamenti al gregoriano, cui succede, nella seconda parte un elementare passaggio strumentale cui si aggiunge un inserto vocale: qui, tra brusii e tonfi, il coro ripropone la sua «montanara».
Gli esecutori hanno fatto il possibile e forse anche bene; ma la parte del leone, almeno nella pruriginosa curiosità dei presenti; l’hanno fatta le macchine live electronics dello studio di Friburgo, per mezzo delle quali due tecnici e un assistente manipolavano i suoni, filtrandoli, dilantandoli, ritardandoli, capovolgendoli, con effetti anche piuttosto interessanti.

Domenica 6 ottobre si è tenuta la prima conferenza del ciclo Liszt: cent’anni dopo lezioni concerto a cura di Roman Vlad, che si terranno per quattro domeniche alle 11 di mattina nella sala del teatro Olimpico, organizzate dall’Accademia Filarmonica Romana. La parte musicale vedeva all’opera il pianista Michele Campanella, primo tra i solisti che parteciperanno al ciclo.

La profonda conoscenza che Vlad ha della musica ci è ben nota e ammiriamo anche la sua sapienza compositiva, che ci può trovare talora più o meno d’accordo, ma che sempre raccoglie il nostro grande rispetto. Il compositore Vlad infatti manifesta una bella volontà di comunicare, senza dire mai cose ovvie o banali. Fin dalle prime frasi della sua lezione, egli ha dichiarato esplicitamente quale è la sua opinione su Liszt e il fine che si propone con questi incontri: cancellare, cioè l’immagine di un Liszt solo brillante e salottiero, compositore soprattutto adatto a svenevoli signorine ottocentesche dal vitino di vespa.
Per Vlad, invece, Franz Liszt è un compositore che non solo lasciò ben presto il virtuosismo pianistico; ma si addentrò nella composizione musicale con genialità e spregiudicatezza; anche se, indubbiamente, vi è anche un Liszt esuberante e piacevole, come quello del famoso Sogno d’amore o delle Rapsodie ungheresi, brani, questi, di tutto rispetto. Con l’andare degli anni, la sua musica diviene sempre più scarna e l’agglomerarsi delle note perde l’intento funambolico, per esprimere piuttosto la voglia di capire a fondo l’animo umano e il mondo, servendosi proprio delle quasi infinite possibilità della musica. Siamo d’accordo con Vlad sulla necessità di presentare al pubblico, con coraggio, il grande Liszt, più grande forse, secondo Vlad e anche secondo noi, dello stesso Wagner, il quale, se pur a denti stretti confessò di dovergli molto come compositore (e, si sa, non soltanto). Un’altra affermazione che abbiamo trovato pregnante, anche se fatta quasi di sfuggita, è stata che la musica è sempre asemantica e che non ha senso perciò parlare di musica descrittiva: il suo valore è intrinseco ed essa esprime tutti i sentimenti possibili e poi va ancora oltre; per cui è superfluo che un compositore per esempio costringa il pianista a pestare per tre minuti sui tasti, con grandi accordi delle note basse e scriva sullo spartito «temporale». Ingiustamente Liszt è stato ritenuto solo un compositore descrittivo, mentre invece, raggiungendo talvolta l’essenza della musica, egli va ben oltre i semplici impasti sonori. Molto perplessi ci ha lasciato però l’affermazione del maestro Vlad per cui la grandezza di Liszt risiederebbe anche nella sua sbalorditiva modernità; più avanti di Wagner, e non soltanto: usa scale e moduli orientali, agglomerati sonori alla Debussy, è capace persino di intuizioni dodecafoniche e atonali.

Noi non riteniamo che precorrere i tempi sia, necessariamente, segno di grandezza: talvolta, per un musicista, può addirittura essere sintomo di incapacità. Non è certo il caso di Liszt; ma non ci lascia assolutamente ammirati il fatto che egli precorra questo o quell’altro. A noi piace la sua musica in sé: questo suo scavare che diventa sempre più interiore; inoltre pensiamo che il discorso di Vlad possa essere del tutto capovolto. Purtroppo su queste pagine non è possibile fare esempi musicali!

Ci pare insomma che Liszt non tanto mirasse a nuove forme linguistiche, quanto tendesse piuttosto a spingere fino alle estreme conseguenze l’armonia classica, proprio quella di: tonica, dominante, sottodominante e sensibile. Un esempio che ci conferma in questa nostra idea è il brano Dopo una lettura di Dante dal II dei Pèlèrinages: vi è qui un inciso in re minore che non presenta mai la nota base della tonalità (cioè il re); e questo non significa che ci sia un tentativo di contraddire o sfuggire la tonalità; ma anzi, come ben spiega la psicoanalisi, l’assenza è così macroscopicamente evidente che equivale ad una macroscopica presenza. Lo stesso si può dire a proposito del MefistoValzer, che, se è pur vero che presenta quinte che, messe in successione, costituiscono una serie dodecafonica, servono però qui a imprigionare il brano in una policromia anche fin troppo tonale: un tono che sfugge sempre – tanto è vero che il sottotitolo del brano è «bagatelle sans tonalité» – proprio perché le tonalità ci sono tutte, ricercate, sognate e volute.

Questi quattro incontri si annunciano comunque quanto mai interessanti e affascinanti. Vorremmo solo sottolineare, con un po’ di malizia, un lapsus, più volte ripetuto, di Vlad, che quando citava date della vita di Liszt, sostituiva sempre «ottocento» con «novecento»: rifletta un po’, Maestro! La spiegazione è facilissima: si capisce il desiderio di Vlad di portare nel nostro secolo Liszt. I compositori di oggi hanno troppo senso di colpa, perché, forse, hanno troppo tradito.

L’esecuzione che Michele Campanella ha dato del II volume degli Années de pèlèrinages e del Mefisto- Valzer è stata precisa, irruenta e fantasmagorica. Forse per meglio esemplificare quello che Vlad aveva appena detto, il bravo pianista avrebbe potuto volare un po’ meno sulla tastiera, senza pestare sui tasti, ma cercando di dilatare al massimo la musica per farne cogliere le interne connessure e la perfezione strutturale.

Psicoanalisi contro n. 17 – Troppo bello per essere vero

venerdì, 1 novembre 1985

La vecchia Roma è bella, troppo bella. Talvolta, quando passeggio per i suoi vicoli, quando mi addosso al muro di un palazzo, quando entro in un androne, oppure quando sono in una chiesa, perfetta anche nelle sue sonorità, mi chiedo perché io continui a lavorare, a lottare, ad impegnarmi, ad agire, a parlare alla gente. Mi chiedo come io riesca ad occuparmi di altro che non sia passeggiare per questa città, nelle sue piazze, visitare chiese e musei, percepire i suoni e gli odori e poi, all’ora in cui la fame si fa sentire, sedere ad un tavolino, largo due palmi per due, dove pure so che mi verrà servito un Frascati cattivo, con spaghetti indecenti e ributtanti saltimbocca “alla romana”. “Alla Romana” è anche il cielo, in alto, dove finisce il muro giallo della casa. Quei cibi li lascerò lì, nel piatto e quel vino resterà nel bicchiere, mi accontenterò di pane e formaggio. A Roma si mangia male irrimediabilmente male; ma succede di mangiare male in luoghi talmente belli che uno, quasi, ringrazia Roma lo stesso delle schifezze che gli sono offerte. Se capitasse troppo spesso di mangiare bene, come si potrebbe resistere a questo eccesso di bellezza? Per fortuna, Roma ha tanti difetti, altrimenti sarebbe impossibile lavorare o fare altro che non fosse che contemplare lei: la città. Anche se non mi piace dire “lei”, perché Roma non ha, per me, quasi nulla di femminile, mi pare anzi possedere la bellezza e la tenerezza dei maschi, quando sono belli e teneri e, qualche volta, la trovo anche tronfia e ottusa, proprio come certi maschi.
Era sera,anzi, era notte,quando mi cercarono al telefono; in genere, se non si tratta di un amico molto intimi io non mi faccio passare le telefonate dopo una certa ora; ma mi fu detto che dall’altra parte del filo, c’era qualcuno che implorava aiuto con l’aria disperata per dirgli di richiamare il giorno dopo. Andai a rispondere, un po’ sbuffando: sentii la voce di un ragazzo dal profondo accento romanesco, una voce spezzata, ansimante. Mi disse: – Non vedo più, non vedo più, non posso più camminare, non posso muovere le braccia, non posso mangiare, non posso orinare….faccio fatica a parlare e a sentire ….Per favore parli forte, parli forte, perché sto diventando sordo….Ho venticinque anni, queste crisi mi sono incominciate quindici anni fa, a dieci anni, forse anche prima, ma sono così intense da una decina d’anni….-Poi incominciò a farfugliare , dicendo in modo smozzicato : – …non posso parlare …non sento…non parlo…- Gli domandai se fosse di Roma, mi rispose di sì, stupefatto. Gli dissi: – Beato te che sei nato in questa città! – Aggiunse ancora, ansioso e spaventato: – Che cosa sarà?- Risposi che non lo potevo sapere. Mi disse che aveva fatto tutti gli esami e non era risultato niente; gli occhi, le orecchie, le braccia, le gambe, tutto funzionava . Gli consigliai di andare a dormire, dopo essersi bevuto un bicchiere di vino. Decisi che lo avrei incontrato il giorno dopo , alla fine del mio orario di lavoro; sapevo che sarebbe stato faticoso; ma per lui, per me, in quel momento era Roma.

2.
La sera del giorno seguente, dopo aver visto tante persone, ero veramente stanco, quando entrò lui, un po’ imbarazzato: – Sono quello che ha telefonato ieri notte, …quello che non vede…non cammina. – Ma chi ti ha accompagnato qui?- No,adesso ci vedo, ieri sera ho bevuto un bicchiere di vino e sono andato a dormire; questa mattina mi sono svegliato che non avevo più niente. Mi succede spesso così. – Era un bel ragazzo, un po’ troppo bello per essere vero. Si sdraiò sul divano e incominciò a parlare della sua ragazza: – Voglio lasciare la mai ragazza, perché mi tradisce; ne sono sicuro; ma lei non vuole confessarmelo.- Ma: e la vista, la perdita dell’udito, il non poter camminare? -Quello succede ormai da molto tempo…io non ce la faccio più con quella lì. – Perché sei venuto da me? Ma l’ho detto ieri sera: perdo la vista, l’udito, l’uso delle gambe, mi si blocca tutto; mi sembra abbastanza grave… Però non so se le devo telefonare o no. Ieri sera, se non fossi, stato così male, avrei preso la macchina e sarei andato a casa sua, a vedere se la finestra era illuminata, se quell’altro era salito, se… Quella ragazza è bugiarda, bugiardissima, e io questo non lo sopporto. Io voglio vederci più chiaro. -

È giusto che, se una persona perde o crede di perdere improvvisamente la vista, l’udito, l’uso degli arti, se si sente bloccato, paralizzato, cerchi l’aiuto di qualcuno che lo curi. Queste manifestazioni sintomatiche non sempre passano con uno sforzo di volontà, anzi, spesso, più ci si impunta a voler inibire i sintomi, più questi si manifestano in modo aggressivo. Ricordo una ragazza che aveva una forte paura degli insetti, tutto sommato però abbastanza controllabile. Era una persona energica e robusta, era, come si suol dire, una persona razionale. Si trovò assurda con quella sua paura degli insetti, cominciò ad affrontarli, proprio come se fossero belve, a fissarli, si impose di non cacciare urla di raccapriccio quando un calabrone entrava dalla finestra. Improvvisamente crollò. I suoi lo chiamarono esaurimento nervoso. In realtà non aveva più il coraggio di uscire di casa; un timor panico l’aveva dapprima travolta e poi era subentrata una depressione profonda: avevano vinto gli insetti.
Bisogna stare molti attenti con la spavalderia. La migliore difesa contro il disagio mentale, la nevrosi o la psicosi, è spesso l’autoironia: saper prendere in giro le proprie paure, riconoscerle e anche un po’ coccolarle. Guai invece a prenderle di petto: sono pericolose, molto più pericolose dei calabroni che entrano dalla finestra!

3.
Quel ragazzo che per me era il simbolo di Roma, troppo bello per essere vero, incominciò a rivelarmi subito la verità, senza saperlo. Era convinto di essere venuto da me per quei sintomi, così terribili, oggettivamente; ma subito mi aveva parlato del suo rapporto con quella ragazza che forse lo tradiva con un amico comune. Una volta, era arrivato all’improvviso in casa di lei, aveva suonato furiosamente ed era riuscito a farsi aprire in fretta: c’era anche l’altro, con l’aria imbarazzata. – È venuto a trovarmi stavamo chiacchierando. – si era affrettata a dire la ragazza. Però poi tutto era degenerato in una lite. Mi raccontò in seguito la sua storia, tipica ed unica allo stesso tempo. Quando era bambino, suo padre era emigrato in Svizzera; la madre aveva un altro uomo: un signore molto distinto, che portava regali, a lui, al fratello e alla sorella; però,quando questo signore arrivava, con una bella automobile, il volto sorridente e i capelli bianchi, il ragazzo, troppo bello per essere vero, scappava in strada con gli amici. Correvano sotto gli archi medioevali, negli androni barocchi, ad esibirsi l’un l’altro gli organi genitali, a cercare di penetrarsi, a baciarsi intensamente; per poi scappare con un turbamento così profondo che neppure la più bella delle donne riesce ora a provocare in quel ragazzo, troppo bello per essere vero. Verrebbe alla mente un’interpretazione banale: forti pulsioni omosessuali rimosse e timore dell’omosessualità. In realtà era geloso dell’amico, da sempre desiderato. Banalità! Non sempre le banalità sono false; ma la banalità sta sovente troppo stretta alla verità, la verità deve andare oltre. Quanto è lecito andare oltre? Far scoprire a quel ragazzo la sua omosessualità fu anche troppo facile, troppo semplice, tanto era lì, a fior di pelle. I sintomi fisici per un po’ non si ripresentarono; poi esplosero improvvisamente, regredirono ad un tratto, si affacciarono e scomparirono più volte; prima di eclissarsi definitivamente. Un giorno, il ragazzo mi disse: – Se qualcuno mi chiedesse perché ho incominciato l’analisi, direi che sono venuto qui per quei disturbi; ma adesso mi sembra che non sia così; adesso ho di fronte a me altri problemi, tutto quello che è scaturito dal nostro lavoro… Quei sintomi sono scomparsi, perché non voglio smettere l’analisi?

4.
Una terapia psicoanalitica si realizza principalmente attraverso lo svolgimento di due copioni. Nel primo copione il paziente si presenta con i sintomi, che quasi regrediscono abbastanza rapidamente si parla d’altro, lo stesso paziente non sembra molto interessato a loro, si lavora insieme, con intensità e una certa tranquillità, talvolta con allegria, talora con un po’ di sofferenza, fino a che i sintomi che avevano dato inizio al lavoro sembrano dimenticati; ma ad un certo punto ricompaiono, sempre. Allora bisogna riprendere tutto da capo, ripercorrere le tappe più a fondo E’ il momento in cui esplodono le difese: se la personalità del paziente è particolarmente narcisistica, compaiono episodi sado-masochistici più o meno intensi, e viceversa. E’ questa una fase estremamente delicata e pericolosa; sappiamo infatti quanto sia grave la sovrapposizione dei due principali meccanismi di difesa: il narcisismo e il sadomasochismo, in quanto provoca la perdita di contatto con la realtà. I fantasmi del passato sembrano circondare il paziente, il terapeuta diventa persecutore oppure viene negato. Il paziente vuol fare il lavoro da solo e si incammina imperterrito su una strada che è sempre quella sbagliata. In questo momento, che non può essere evitato, l’analista deve saper essere un buon nocchiero: deve guidare la navigazione con polso sicuro e lo può fare soltanto se ha una solida preparazione e sa bene dove bisogna andare. Se l’analista è sicuro non c’è nessun pericolo; ma guai se l’analista è incerto, guai all’analista eclettico, che ha raffazzonato la sua preparazione piluccando di qua e di là e ora si muove sull’ispirazione del momento, qui come farebbe la Klein, là Jung o Lacan. Bisogna diffidare degli analisti che non hanno scelto una scuola, perché la tempesta potrebbe disorientarli e farli annegare, insieme coi loro pazienti. Il tipo di lavoro analitico che stiamo esaminando attraversa poi un periodo di bonaccia, anche questo pericoloso per il paziente e che presenta per il terapeuta grosse difficoltà: l’analisi rischia di insabbiarsi in una consuetudine ripetitiva che rende gradevole il rituale della seduta perché dà una sorta di sicurezza, ma non si va né avanti né indietro, si resta fermi. Si è insediato un amore tranquillo, come quello tra vecchi coniugi. È giusto che anche questo avvenga, e in questa calma apparente, se l’analista è attento, può scoprire molte cose; è importante però che non si adagi anche lui in questa situazione, che non si metta le pantofole e non guardi la storia del proprio paziente come si guardano i programmi televisivi, la sera, quando si è stanchi, si è appena mangiato e si ha sonno.
Poi arriva quello che, in teatro, si chiama sottofinale: la ricomparsa dei sintomi, attenuati, ma ormai demistificati. Lo stesso paziente li sente come qualcosa di estraneo ed essi, lentamente, regrediscono senza sforzo.

Il lavoro va ancora avanti e-quando il paziente capisce che si potrebbe interrompere l’analisi, perché sembra non avere più senso il continuarla, perché tutto sembra chiaro, perché ci sono altri che ne hanno più bisogno ancora, ecco l’esplosione violenta: i sintomi compaiono nuovamente. Anche il paziente a questo punto è consapevole che si è procurato il loro ritorno per non dover interrompere il lavoro analitico: è un richiamo d’amore di cui egli stesso sorride, insieme con l’analista. Qui può iniziare il secondo livello per questo tipo di analisi, o si può decidere di fermarsi. Se si continuerà sarà, però, per una strada che non ha più nulla a che vedere con quella guarigione che si era cercata all’inizio.

5.
L’altro tipo di analisi che voglio prendere in esame segue un copione abbastanza diverso dal precedente: i sintomi dell’inizio non scompaiono mai del tutto, divengono però sempre meno essenziali; lentamente vengono isolati, il paziente impara a convivere con essi, ad usarli; ma non se ne vuole separare e sa di non volersene separare; sa anche perché non se ne vuole separare. Essi perdono, via via, d’importanza, ma permangono: ora si affievoliscono, poi tornano più intensi, si rifanno flebili, però sono sempre lì, come soprammobili inerti che non danno neppure molto fastidio. L’analisi prosegue, cercando di non tenerne conto: si giunge a una buona ristrutturazione complessiva della personalità; si verificano sbalorditivi miglioramenti in tutta la situazione esistenziale del paziente, con modifiche positive di molti aspetti psichici e fisici, tanto che il paziente, spesso, sembra diventato un’altra persona agli occhi degli amici e dei famigliari, quasi rinato; ma i sintomi rimangono lì, come cristallizzati, mummificati, plastificati e divengono persino maneggevoli con una certa facilità. Tutto si muove, meno questi sintomi.
Anche in questo tipo di analisi si verifica, sia pure in modo meno evidente, il momento dell’intensificazione dei sintomi e il successivo loro affievolirsi, che segnalano l’inizio di un sommovimento dei meccanismi difensivi, per cui compaiono nel paziente difese di segno opposto alle sue caratteristiche psichiche di base: i narcisisti innalzano barriere sado-masochistiche e viceversa.
Nessun essere umano mette in atto soltanto difese di tipo narcisistico o solo di tipo sadomasochistico; ma in ogni analisi è di fondamentale importanza riuscire ad individuare le caratteristiche difensive che sono peculiari della persona per poi riuscire ad evidenziare e a controllare i capovolgimenti, le sovrapposizioni e gli spostamenti.

L’individuazione dei meccanismi di difesa è sempre di notevole difficoltà. Ciò che contribuisce a confondere le acque sono le fantasie sadomasochiste dei pazienti narcisisti. Il narcisista racconta spesso con ricchezza eccessiva le proprie sensazioni, che paiono sempre venire dal di fuori: colori, suoni, parole. Nessuno infatti può parlare di sé, senza parlare anche un po’ del mondo che gli sta attorno. Spesso, sembra che una persona la quale racconta se stessa e la propria vita, stia raccontando un mondo reale, percepito, mentre invece si riferisce ad un mondo soprattutto fantastico.
Come può l’analista rendersi conto di quanto c’è di troppo fantastico in un racconto del genere? Come può capire il suo paziente, in realtà, non percepisce gli altri, ma sovrappone loro le proprie fantasie e i fantasmi del proprio passato? La cosa è particolarmente difficile da scoprire, perché tutti, almeno un poco, ci comportiamo così. Certo, non è difficile individuare la chiusura narcisistica, se si ha di fronte una situazione clamorosa di delirio, in cui la distorsione del reale e l’invasione del passato remoto nel presente e l’incapacità di cogliere il senso del tempo sono eccessivamente evidenti. Il giovane analista si trova così in difficoltà quando si tratta di capire quanto il sadomasochismo evidente sia compromesso dal narcisismo, o se invece sia rivolto verso oggetti realmente percepiti, sia pure in un’ansia di distruzione. Di volta in volta viene il dubbio che esista solo il narcisismo oppure solo il sadomasochismo. Questa difficoltà può essere superata soltanto attraverso un’attenta osservazione empirica.

6.
Bisogna anzitutto avere ben presenti quali sono i comportamenti tipici di ciascuna categoria di difese. Soltanto così, da segni impercettibili, l’analista riuscirà a distinguere un tipo di difesa abitualmente narcisistico da uno abitualmente sadomasochistico. Vorrei attirare l’attenzione sul termine «abitualmente», perché sarà il metro che renderà più agevole la distinzione. Sarebbe bene che l’analista potesse vedere anche fuori dello studio il proprio paziente, perché ciò gli faciliterebbe la comprensione del significato complessivo del suo comportamento. Confrontando il comportamento nelle diverse situazioni, gli sarebbe più facile trarre le dovute conclusioni. Se ciò non è possibile, però è sempre possibile un incontro nel corridoio, andare a prendere un caffè insieme, una breve passeggiata in strada, prima di iniziare il lavoro. Sono preziosi momenti che lo psicoanalista non deve lasciarsi sfuggire. Io sono contrario agli assurdi divieti che la psicoanalisi anticamente poneva, e tutt’ora pone, durante il periodo del rapporto analitico, per cui non deve esistere comunicazione, al di fuori dell’analisi, tra paziente e terapeuta, e si deve addirittura evitare il più possibile ogni infiltrazione del mondo dell’uno nel mondo dell’altro. Questi divieti e queste precauzioni non sono soltanto ridicoli; ma dimostrano, da parte di chi ne sostiene la validità, poca conoscenza di che cosa sia veramente la ricerca scientifica.La ricerca scientifica deve soprattutto saper adattare il proprio metodo all’oggetto di cui si occupa. La asetticità del «setting» in questo caso non si realizza certamente attraverso l’applicazione di piccole norme di comportamento; ma si può esprimere soltanto attraverso il possesso di una salda concezione metapsicologica e di una tecnica flessibile, ben radicata in una solida cultura. L’analista deve essere capace anche di lasciarsi andare davanti al proprio paziente, saperlo percepire e riuscire a coglierlo. Certo, deve saper porre a se stesso norme e divieti, che talvolta possono risultare anche più faticosi da applicare di quanto non lo sia il ridicolo rituale della «vecchia» psicoanalisi; sono divieti e imposizioni che rischiano talora di andare contro le più elementari regole della cortesia (benché io inviti sempre chi impara da me il mestiere dell’analista ad essere molto attento prima di applicare la scelta di un comportamento scortese, perché la mancanza di cortesia è un male e il cielo la condanna).

7.

Ho fin qui descritto due tipi fondamentali di sviluppo possibile di un rapporto analitico. Ho fatto un po’ come fanno gli storici della musica, quando debbono incominciare a parlare delle differenze tra contrappunto e polifonia, da un lato, e melodia accompagnata, dall’altro lato: schematizzando, spiegano come l’una forma consista in due o più voci che si intrecciano tra loro, mantenendo la stessa dignità e importanza; e come l’altra forma privilegi invece una delle voci, in subordine alla quale vengono strutturate le altre parti, in successioni accordali, asservite alla voce principale. Ma anche i manualetti più semplificati debbono però poi avvisare chi legge che, in pratica, questa rigida divisione non si verifica e che i buoni compositori, soprattutto, si muovono con estrema scioltezza, passando continuamente dall’una all’altra di queste due forme. Così debbo anch’io dire che la schematizzazione che ho fin qui operato può sì valere per qual che caso, ma rischia di impoverire troppo la storia di un rapporto che è sempre molto più ricco e variegato e che non sopporta eccessive schematizzazioni.

8.
La guarigione dunque non consiste nella scomparsa dei sintomi; ma è qualcosa di più profondo, strettamente legato a ciò che, insieme, paziente e terapeuta, hanno imparato ad intuire che la guarigione sia: un modo diverso di affrontare la vita e il mondo, gli altri e se stessi. A questo punto, la tecnica si confonde con la scienza e questa con la filosofia e la filosofia con qualcosa che è oltre e che potremmo chiamare «metafisica», se
il termine non fosse così compromesso e quindi così poco efficace. Io mi chiedo se sia giusto invitare l’altro a seguirmi in questa avventura. Sempre, quando scrivo, quando parlo per tante persone, cerco di andare a fondo, di non darmi tregua, di non rassegnarmi. Cerco di snidare la stupidità e il qualunquismo; voglio andare contro il perbenismo delle frasi fatte, sperando di non fabbricarne di nuove, consapevole però che corro anche questo rischio. Tutto questo è terapia: curare gli altri e me stesso; ma in tutti questi casi gli altri possono sottrarsi, possono distogliere da me lo sguardo e l’udito, possono strappare le pagine che scrivo; soltanto nel rapporto psicoanalitico ciò non è così facile: giunti ad un certo punto dell’analisi devo dire chiaramente a chi sta lavorando con me che c’è un passo ulteriore da compiere, che però non so quanto sia bene e giusto compierlo. Io sono convinto di quello che dico e credo di aver capito un po’ come è fatto l’uomo; ma, soprattutto, penso di sapere come dovrebbe essere e lotto perché gli uomini divengano simili al mio ideale di uomo. So anche, però, di vivere un momento della storia del mondo, di essere frutto del passato, di essere in grado di vedere alcune cose e di non essere in grado di vederne altre. Per questo ho il dovere di chiedere a chi mi ha seguito fino ad un certo punto, se abbia voglia di continuare. Ho il dovere di spiegargli come, per un verso, sia ormai guarito, ma, per un altro verso, sia ancora malato. Vuole accettare questa guarigione? Rifiutare di andare oltre non è necessariamente un gesto di viltà. Questo è il momento più difficile per chi si prende cura e per chi ha accettato di essere curato; l’importante però è non ingannare, esplicitare che, di qui in poi, non si sa bene dove si andrà. O meglio: io, l’analista, lo so. Ma seguirmi e farmi seguire è ormai una questione di amore e non solo di salute. Qui ho detto una bestemmia; perché innamoramento e salute coincidono. Re Lear non è folle quando delira ottenebrato dalla disperazione; ma lo è quando, all’inizio del dramma, ancora potente e apparentemente sano, non riesce a capire chi lo ama davvero.

17 – Novembre ‘85

venerdì, 1 novembre 1985

In un posto che più romano non potrebbe essere, proprio davanti al Colosseo, c’è il ristorante Al Gladiatore, in piazza del Colosseo, 5. Il nome del locale e il luogo in cui si trova fanno capire che il cliente su cui si vuole fare presa è il turista di passaggio; ma ai tavoli si vedono anche molti romani, evidentemente habituès. I turisti sono giustificati, gli avventori occasionali, poveretti, anche loro; ma proprio non riusciamo a capire i frequentatori abituali. Tutto è sgradevole: dal tono falsamente rustico dell’ambiente, con gran spreco di legno e brutti quadri alle pareti, al servizio sciatto e approssimativo; e i cibi e le bevande sono poi un vero supplizio. Non riusciamo a trovare giustificazione plausibile per tanta mancanza di serietà professionale, anche se si è proprio sotto il Colosseo.

Si può cominciare con un antipasto del gladiatore che altro non è che la consueta sfilza di verdure cotte, immancabile in ogni trattoria senza idee; qui, per di più, sono unte e bisunte, ed hanno tutte lo stesso indistinto e indefinibile sapore stantio. Tra i primi, abbiamo sperimentato i cannolicchi alle erbe, veramente umoristici: sotto un cumulo – abbondante – di minuscoli maccheroncini, stagnava un acquitrino indecente, da cui sbucava una vera e propria foresta di arbusti durissimi, che ci si infilavano nel naso e negli occhi; né ci sono parsi migliori i ravioli alla ricotta e spinaci, dalla pasta coriacea e dal ripieno insipido. La trippa alla romana ci è stata servita in un brodaccio rosso e il maialino al forno con patate non aveva migliore sapore del resto. Cicoria ripassata e broccoli erano il degno contorno. La torta al cocco assomigliava più del consentito ai giochi di sabbia dei bambini e la torta di mele sembrava di ovatta.
I vini che abbiamo provato – tra i pochi proposti – sono stati un Gavi della Scolca del 1983, che pareva vecchio di dieci anni tanto era stato mal tenuto e aveva perso ogni speranza di sapore; poi un Cesanese di Olevano del 1983, un rosso inoffensivo, ma con poca dignità. Il conto ci è parso, per tanto poco e tanto male, davvero eccessivo. Per scaricare la nostra rabbia, ci siamo comportati molto male: abbiamo rovinato la cenetta idilliaca di un ragazzo e una ragazza in romantica evasione – lui col giubbettino buono e lei acconciata in stile «Madonna» – erano seduti vicino a noi, gomito a gomito, ed avevano iniziato la loro cenetta radiosi: trovavano tutto meraviglioso; ma, costretti a sentire i nostri commenti, hanno perso dapprima il sorriso e poi è scesa sul loro volto una tristezza silenziosa. Siamo fuggiti di fretta per la vergogna.

Charly’s Sauciere è il pretenzioso blasone di un localino – oramai storico – di spirito francese, situato al numero 270 della romanissima via S. Giovanni al Laterano. Già la modestia dell’arredo frena però l’entusiasmo mondano di chi si siede ad uno dei non molti tavoli sistemati in due ambienti. Non che si pretenda sempre l’argenteria in tavola; ma veder le salsine offerte nei barattolini vuoti di uova di lompo pare eccessivo in un posto che, già, sulla carta, promette un conto decisamente salato. Paté maison, assiette gourmet e poisson fumé sono i francesissimi nomi di antipasti un po’ sgangherati: infatti il paté è buono, ma la salsa che lo accompagna è dolciastra, l’assiette ha grossi scompensi: le aringhe, il salmone e il fegato di pesce hanno sapori buoni di per sé, ma non armonizzano tra loro e stanno male nello stesso piatto. Il pesce affumicato risulta umiliato dalle superflue uova di lompo che lo ricoprono.Bello e abbastanza buono, malgrado un gusto eccessivo di uovo crudo, il soufflé di formaggio. La zuppa di cipolle è troppo gratinata in superficie e troppo lenta sotto e le lumache sono uccise dall’aglio e dalle erbe della salsa. Proprio un disgustoso errore culinario è il riso al curry.
Con le carni si conferma l’insufficienza della cucina: filetti, controfiletti, scaloppe, sono pezzi di carne anonimi e sospettosamente troppo teneri e i condimenti, siano di erbe, bordolesi o al Calvados, hanno sapori indecisi e qualche volta stucchevoli. Buono ci pare invece un modesto ma croccante tortino di patate. Imperdonabili, per un posto «alla francese», le gommose crèpes; la coppa Charly è solo colla di pesce alla vaniglia mentre quella danese sa di acido fenico. La carta dei vini è piuttosto limitata; ma noi ricordiamo con piacere un buon Sauvignon Plozner dell’84, fresco e profumato di salvia e un Dolcetto d’Alba La Pria dell’83, di grande dignità.
Noi siamo adoratori della cucina francese – soprattutto di quella d’antan – e per questo ci è veramente dispiaciuto vederla così mal ridotta.

Non è facile trovare luoghi di ristoro accessibili nelle ore del dopo spettacolo, anche se oggi lasituazione è un po’ migliorata rispetto agli ultimi due o tre anni. Rimane però impresa quasi disperata trovare posti che, a quell’ora, offrano agli avventori cose, non diciamo appetibili, ma almeno non venefiche. Noi conosciamo un locale che frequentiamo assai spesso, perché, oltre ad essere aperto a tarda ora ed essere situato in un bel posto centrale di questa bella città, ha camerieri allegri e gioviali, è attrezzato per molti coperti, tra interno ed esterno, ed è quindi in grado di far fronte con l’ineccepibile professionalità dell’équipe di cucina ad ogni afflusso di avventori. Queste sono alcune tra le ragioni per cui ai due farfalloni piace star seduti, soli o con i loro molti amici, ai tavoli della Capricciosa in Largo dei Lombardi 8 affacciati sul Corso, a discorrere, a discutere a motteggiare e a ristorarsi senza ansie. Citiamo, a caso, alcuni dei piatti dalla lista piuttosto ricca di proposte tra la sezione del ristorante e quella di pizzeria. Piacevoli olive ascolane per l’inizio pasto, leggere e croccanti, che arrivano in tavola belle calde, o l’antipasto di mare, che non esce dal frigorifero e di cui si possono apprezzare le sfumature di sapore; risottini e paste, magari un po’ banali, sono però sempre cotti al punto giusto e di sapore vivace, anche se i funghi sono per lo più champignons e nei tagliolini alla ciociara abbondano i piselli; raramente compare, per fortuna, la panna nei sughi. Dalla pizzeria arrivano pizze tradizionali e anche idee nuove, buona è la pizza alle cozze ed insolito e gradevole il crostino al salmone, che forse, ci guadagnerebbe ad essere meno asciutto.
La scelta tra i secondi di carne o di pesce va dallo squisito fritto di paranza, quando c’è, alle salsicce con patate, dal robusto sapore ma di facile digeribilità; ancora, tra i piatti più riusciti, il fritto di cervello e zucchine o di calamari e gamberi. I dolci sono corretti e vengono offerti in porzioni abbondanti.
Una mancanza ci pare però doveroso denunciare: c’è troppa trascuratezza in cantina; i vini offerti sono trite banalità, a volte anche peggio e non sempre le bottiglie sono ben trattate. Il conto, non particolarmente basso, è però contenuto. Si capisce facilmente che non abbiamo fatto nessuna scoperta sensazionale: la lista è piuttosto scontata e il posto non ha insolite attrattive; ma appunto per questo ne parliamo, per dire che basterebbe una maggior correttezza professionale e molti ristoranti e trattorie di Roma potrebbero diventare posti in cui è piacevole, indugiare, apprezzando cibo semplice e gustoso; anziché essere trappole insidiose per lo stomaco e il portafoglio.

17 – Novembre ‘85

venerdì, 1 novembre 1985

Il breve libro di Peter B. Medawar, I limiti della scienza (ed. Boringhieri, 1985, pagg 93, L. 12.000) è ambiguo, bizzarro e anche grottesco. L’autore ha ricevuto nel 1960 il premio Nobel per la medicina e la fisiologia, si è occupato a lungo del problema del rigetto e si occupa ora di biologia dei tumori. Ciò nonostante farebbe meglio a non pubblicare libri come questo: tutto il primo capitolo è di una stupidità desolante, pieno di affermazioni ritrite e ovvie, come quella che la scienza tende al vero, ma, qualche volta, sbaglia. Oppure ridicole, come quella per cui le donne possono anche fare le scienziate, ma meglio fanno a seguire l’esempio di Marie Curie il cui «merito veramente eccezionale» è stato di aver messo al mondo «una figlia, Irene, la quale, invece di rinnegare i genitori e le loro opere intraprendendo la professione d’indossatrice o andando in India alla ricerca dell’Illuminazione, come fanno molti giovani d’oggi, giunse a sua volta a vincere il premio Nobel».

Altre affermazioni sono invece pericolose e mirano a tenere fuori della mischia politica lo scienziato, sostenendo che le scoperte scientifiche non possono che essere buone di per sé, e solo il loro cattivo uso può renderle cattive. Una sola osservazione ci è sembrata interessante: quella per cui, nonostante l’opposta convinzione dei pezzi grossi di Whashington e di Whitehall, «Non esiste il metodo scientifico». Lo scienziato infatti non applica alle sue ricerche «un procedimento logico preciso e stabilito una volta per tutte», ma applica invece «tutta una serie di strategie di ricerca» cui non sono estranee neppure fantasia e fortuna. Quando poi Medawar si pone il problema dei limiti della scienza e delle sue capacità di rispondere ai quesiti ultimi sul significato dell’esistenza, dà una risposta molto perbenista, dicendo che: «esula dalle competenze della scienza dar risposta agli interrogativi di fondo, ma che per le questioni che essa è in grado di risolvere le sue capacità sono illimitate». Questa non è solo una tautologia, ma esprime anche l’illogicità di quegli scienziati che distinguono la scienza dagli altri campi di ricerca, definendo però la scienza in base a parametri che essi stessi hanno prima dato come scientifici.
Poi tutto finisce in gloria, con l’esortazione generale a lottare per un mondo migliore.

Di avviso completamente diverso sono John Eccles e Daniel Robinson, autori del volumetto: La meraviglia di essere uomo (ed. Armando, 1985, pagg. 199, L. 15.000), infatti costoro credono di poter dimostrare scientificamente l’esistenza dell’anima e di Dio. Nei dodici capitoli i salti al di là di ogni logica si sprecano; ad ogni pagina si trovano affermazioni basate sul principio che: «Poiché le soluzioni materialistiche non spiegano l’unicità che ciascuno di noi esperisce, siamo costretti ad attribuire l’unicità della psiche, o dell’anima, ad una creazione spirituale soprannaturale (…) È la certezza del carattere unico del nucleo più intimo dell’individualità che rende necessaria la “creazione divina”. Noi sosteniamo che nessun’altra spiegazione è sostenibile». Dal canto nostro, noi non sosteniamo certo l’assoluta oggettività della scienza; ma vorremmo, almeno, che gli scienziati si rendessero conto delle loro contraddizioni e anche dei loro desideri. Solo così potranno dire qualcosa di valido e non si limiteranno a vendere fumo. Le due teorie contro le quali gli autori si scagliano con particolare veemenza sono il pan-psichismo (esiste solo il principio spirituale, tutto è animato) e il materialismo radicale. Confutano il pan-psichismo dicendo semplicemente che è una sciocchezza e spendono invece molte pagine per sconfessare il materialismo assoluto, senza mai nulla dimostrare e solo affermando.
Si appoggiano al sistema dei «tre mondi» di Karl Popper per distinguere il cervello da quella facoltà mentale in cui, a loro avviso, risiederebbero la volontà e il libero arbitrio, ma anche qui la loro è solo un’affermazione. Dopo aver affermato che Dio crea l’anima riscoprono la glandola pineale di Cartesio e la localizzano nell’Area Motoria Supplementare (AMS), individuata dal neurochirurgo Wilder Penfield: attraverso quest’area l’anima riesce a influire sul corpo. L’assoluta incapacità che i due rivelano a dimostrare i loro assunti metafisici attraverso una metodologia scientifica, parrebbe dar ragione a chi, come Medawar, sostiene che la scienza non può travalicare se stessa. Ma, siamo certi che i tre sappiano che cosa è la scienza? C’è troppa tracotanza e troppa sicurezza di saperlo nei due libri di cui ci siamo qui occupati.

17 – Novembre ‘85

venerdì, 1 novembre 1985

Varietà, frammenti di storia del teatro di varietà messi sul palcoscenico del teatro Argentina, è uno spettacolo mal riuscito. È difficile indicare con precisione che cosa è che non funziona; ma, per tutta la durata dei due tempi, si percepisce qualcosa di stonato. Anzitutto è uno spettacolo triste, che non riesce mai a diventare gioioso. Quasi tutti gli sketch sono bruttini e i testi, scelti da Oreste Del Buono e Mario Verdone, dal repertorio degli anni tra i venti e i quaranta, sono troppo deboli e lasciano vedere evidenti quei canovacci, che per i grandi interpreti del passato erano solo pretesti, quasi occultati dalla loro straordinaria capacità di inventare teatro.
Massimo Ranieri sembra di legno, persino la sua bella voce, normalmente duttile, risulta opaca, spenta, inefficace. Balla, canta, salta e recita sempre correttamente, ma in modo anonimo e impersonale. Marisa Merlini che ci è piaciuta nel primo quadretto: Tatatango, diventa poi come di. cartapesta, sfiatata e molle. Toni Ucci riesce a dare credibilità al personaggio di se stesso con una prestazione di routine.
Ottimo soltanto Arturo Brachetti, l’unico che fa davvero spettacolo. Pur nella sua precisione un po’ vitrea, riesce non solo a sbalordire, ma anche a divertire, con ironica aggressività.
Gli altri sgambettano, saltellano, canticchiano, ma hanno un’aria sdegnosa verso la materia che stanno rappresentando, come se non volessero davvero confondersi con dei lavoratori del «varietà». Le musiche, che sono la cosa più bella dello spettacolo, scelte da e a cura di Fiorenzo Carpi e Bruno Nicolai, sono eseguite bene da Calogero Taormina al pianoforte, Mario Cannizzo al contrabasso, Giuseppe Carrieri al sax, Giovanni Crasta alla tromba, Luigi De Filippi al violino, Mario Molino alla chitarra, Ernesto Pumbo al trombone e Angelo Zappulla alla batteria; ma è un’esecuzione quasi imbalsamata, tanto meccanica e precisa da non avere più anima. Le coreografie di Gino Landi sono realizzate con correttezza, in uno scenario volutamente spoglio di Roberto Francia, da un gruppo di ballerini ben allenato e abbastanza amalgamato. Il varietà è fatto di pezzi tra loro slegati. La regia ha il dovere di rispettare questa discontinuità ritmandola: noi qui non abbiamo capito che cosa Maurizio Scaparro abbia voluto fare.

Al teatro Flaiano è stata tentata, con buoni risultati, un’operazione difficile: rievocare un’epoca della storia recente dello spettacolo senza cadere nella commemorazione o nel funerale, e riuscendo, per contro a fare teatro. Addio Cabaret non si svolge in un cabaret, non ci sono i tavolini coi bicchieri di whisky o di sangrilla e i famosi spaghetti finali sono soltanto detti. Non si è fatto quindi cabaret, ma un bello spettacolo teatrale, con testi presi qua e là dal passato cabarettistico; testi sciolti, frizzanti, spiritosi, talvolta di un umorismo un po’ macabro e qualche altra volta un po’ forzato, ma nel complesso divertenti. I testi recitati si sono alternati, con ottimo ritmo, a pezzi cantati e a musiche mirabilmente eseguite in scena da Federico Troiani al pianoforte, Raffaello Angelini al violoncello e Franco Di Stefano alla batteria. Veramente bravi tutti gli interpreti: dall’eccezionale Sandro Massimini, protagonista, coordinatore e, si sarebbe tentati di dire regista – non ce ne voglia Ruggero Miti, che firma la regia di questo eccellente spettacolo – estroverso e preciso, poliedrico e capace di abilissimi passaggi virtuosistici. Bravi però anche tutti gli altri: Laura Devoti, Daniele Giarratana, Domenico Irene, Giulietta Raranelli e Roberto Tedesco; attori giovani, ma con un’impostazione promettente, le cui gradevoli presenze ci aspettiamo di ritrovare. Personalità di spicco ci sono sembrati già fin d’ora, Pier Francesco Poggi e Silvia Nebbia. Lui è un comico schietto, presente con tempestività ed efficacia per tutta la durata dello spettacolo, ed è stato capace di una gustosissima interpretazione del celeberrimo A me mi piaciono i crauti. Lei bella, proterva, dalla duttile voce, con un buonissimo senso del teatro. Peccato veniale della serata è stata un’invadente telecamera che ci è parsa estranea non solo ai testi raccolti da Roberto Mazzucco, ma anche alla scena di Roberto Francia, alle coreografie di Mirella Aguiaro e ai costumi di Mariolina Bono.

Non si può certo dire che l’Enrico IV di Pirandello sia una tragedia della follia; è così inverosimile la descrizione clinica di quel delirio che non ha nemmeno senso imputarla ad una ignoranza dell’autore. L’Enrico IV è il dramma della cattiveria umana e dell’impossibilità a non essere cattivi. Il mondo è diviso in due schiere: una, esigua, di cattivi che capiscono (in questo caso il protagonista) e poi c’è la schiera smisurata degli imbecilli, che non sono neppure consapevoli della loro crudeltà. Matilde Spina è un’oca romantica, sua figlia Frida una cagnetta petulante, il giovane fidanzato di questa, Carlo, è vacuo e vile; il barone Belcredi è volgare e ottuso; il dottor Genoni, psichiatra, desolatamente stupido e tronfio. I più umani di tutti sono i finti consiglieri e i servi: forse in loro risiede un barlume di speranza per l’umanità, anche se di ciò l’autore non mostra di essere consapevole. È una storia assolutamente inverosimile, ma splendida nella sua assurdità: un gentiluomo, colpito al capo durante una festa mascherata, crede di essere davvero Enrico IV, il rivale di Papa Gregorio VII; lo crede per dodici lunghi anni, ma quando rinsavisce decide di continuare nella finzione, per molti anni ancora fino a vendicarsi della donna amata e dell’amante di lei, uccidendolo. Dopo il delitto, sceglie di restare prigioniero della sua pazzia, insieme con la sua piccola corte di finti consiglieri che la nuova tragedia lega per sempre a lui.
Non si diventa matti in quel modo e non si rinsavisce in quella maniera e tutto sembra un pretesto per condurre il personaggio fino alla conclusione; e la conclusione non è altro che la definitiva scelta omosessuale di Enrico IV, che si rinchiude per sempre in un sodalizio virile coi suoi complici guardiani, rifiutando un mondo che gli pare troppo crudele. Ma il mondo, purtroppo, è così: è difficile sapere chi siamo, restiamo tutti prigionieri del nostro desiderio di non perdere, mentre rotoliamo vorticosamente incontro alla morte e gli altri cercano di strapparci quello che abbiamo e ci costringono ad essere quello che non vogliamo essere, ma che fa loro comodo che noi siamo. L’amore dovrebbe annidarsi come salvezza da qualche parte, ma l’imperatore Enrico lo troverà, forse, solo dopo che sarà calato il sipario.
L’interpretazione di Salvo Randone è stata meravigliosa: un Enrico IV stanco e trasognato, che all’inizio sussurra, scandendo le sillabe, e che poi, man mano che la sua presenza fisica sulla scena si fa più consistente, usa la voce e i gesti per far aumentare la tensione in attesa di un’esplosione che tutti ci aspettiamo debba avvenire da un momento all’altro; una tensione che non si scarica più e resta dentro agli spettatori anche dopo la catastrofe finale. Un Enrico IV così non si dimentica! La messinscena complessiva del regista Nello Rossati è stata buona: in una ambientazione da castello neo-gotico, piacevolmente realizzata da Toni Rossati e Cecilia Lorenzin, gli attori: Maria Teresa Bax, Sabina Ludovich, Claudio Capuano, Giulio Platone, Edoardo Borioli, Claudio De Angelis, Bruno Santini, Marco Giorgetti, Renato Condoleo, Leo Allegrini, Michele Bagnato e Roberto Calà si sono mossi con correttezza, facendo da contorno al gigante protagonista, senza però alcuno stridente contrasto: tutti adeguati e precisi nel delineare figure psicologicamente plausibili.
Ci è parso gesto di grande sensibilità culturale e umana la realizzazione di una mostra omaggio al grande Randone per i suoi ottant’anni e per i circa sessanta dedicati al teatro: un omaggio di grande dignità per un uomo degno.

Per quattro minuti di buon teatro abbiamo sofferto circa due ore! Il testo di Vestire gli ignudi di Luigi Pirandello, in scena al Teatro Quirino è una noiosa accozzaglia di frasi psico-tragico-filosofico-intimistiche, pronunciate da personaggi improbabili. Ersilia Drei ha tentato il suicidio: forse perché il suo datore di lavoro, il console italiano a Smirne, l’ha licenziata; forse per il rimorso di aver causato involontariamente la morte della figlioletta del console, della quale era la governante; forse perché il fidanzato, tenente di vascello, l’ha lasciata, forse….
La cronaca giornalistica del tentato suicidio ha affascinato un vecchio e famoso scrittore che decide di accoglierla in casa quando è dimessa dall’ospedale. Ersilia crede che le sue pene siano finite, ecco invece che si trova ancora sommersa da accuse, recriminazioni, impossibilità di chiarire che la spingono un’altra volta verso la morte. Solo la morte potrà infatti coprire la sua indifesa nudità esistenziale, con un abito dignitoso che la vita le ha negato.
Vogliamo parlare subito di Mariangela Melato, l’unica vera attrice tra i componenti del cast. Nel ruolo di Ersilia Drei, si è dapprima barcamenata, la sua voce, profonda e ricca di armonici, porgeva con monotonia le ridicole battute del testo, dando solo coi gesti un po’ d’anima ad un personaggio che l’autore ha concepito come uno stereotipo. Tanto che siamo arrivati, tra annoiati e sospesi, agli ultimi minuti del dramma, dove improvvisamente, abbiamo ritrovato il grande Pirandello, che, in poche battute delinea un personaggio grande e reale. Anche la Melato si è trasformata ed ha espresso in quelle poche frasi tutto ciò che non aveva potuto o non aveva saputo esprimere prima: la sua recitazione si è fatta convinta, intensa, ricca di sfumature, accorata ed eroica.
Tutto il resto ci è parso, dall’inizio alla fine, un disastro. Gli attori recitavano come filodrammatici, agitando pupazzi sconnessi, capaci solo di uno stesso registro. Luigi Diberti, Renato Scarpa, Daniele Griggio, Anna Menichetti, Carlo Colombo e Stefania Bifano non hanno saputo dare ai loro personaggi nient’altro che manichini su cui appoggiarsi; e se questa era l’intenzione del regista Giancarlo Sepe, non siamo d’accordo con lui. La regia non ci ha per nulla convinto: tante trovatine slegate che hanno frantumato e reso ancora più disarticolata una situazione già sgangherata nel testo. Lo scenografo Paolo Tommasi ha scelto di tenere immersi gli interpreti nella semioscurità di un enorme e burocratico stanzone, facendoli ogni tanto passare alla luce di un praticabile, oltre il quale si intravedeva una Roma di cartapesta, realistica come un presepio.
Ottime le musiche di Stefano Marcucci, ben costruite ed efficaci. Purtroppo venivano in primo piano solo per qualche istante e si limitavano poi a seguire, appena percepibili, tutta la vicenda, senza però che si realizzasse un vero parallelismo emozionale. Alla fine, appunto, ci siamo ritrovati a porci l’inevitabile domanda: Vale la pena tanta fatica per quattro minuti?

17 – Novembre ‘85

venerdì, 1 novembre 1985

Così sia

Il sonno della ragione non genera più mostri. Non c’è però motivo di consolazione: infatti il mondo intero sembra essersi addormentato. Addormentate folle di sonnambuli seguono pochi pifferai che li guidano verso le nere acque. Il mito della ragione è forse quello che ha meno radici nella realtà della storia umana, o meglio: la ragione degli uomini dorme da sempre e dal suo sonno sono sempre scaturite quelle che gli uomini si sono compiaciuti di chiamare mostruosità. Oggi però viene meno anche ogni senso epico e lo spirito della tragedia sembra sempre più estraneo alla vita quotidiana di milioni di imbecilli. Clamoroso in tal senso è forse stato il modo in cui il mondo ha percepito il fenomeno sismico verificatosi in Messico e le sue conseguenze. L’inciviltà dell’immagine ha riempito gli occhi di tutti; senza discrezione, senza pietà, senza verità, la morte e il dolore sono stati spettacolo avvincente dell’ora di pranzo; l’ansia per le vite sospese, stupido thrilling digestivo. Cronisti pieni soltanto di sé hanno insultato disperazioni e speranze, carpendo coi loro microfoni voci che dovevano restare segrete e frugando con le telecamere alla ricerca del sensazionale e dell’atroce. Raramente l’equivoco immorale del documento ha permesso tanto sciacallaggio morale. Piccolo boccone in confronto a tanto banchetto è stata la morte recente di un famoso divo del cinema; ma riccamente condito dalla salsa dello scandalo, la stessa salsa con cui l’opinione pubblica rende oggi più saporite tante piccole morti. Non è la paura del contagio o l’ansia profilattica infatti che rende così appetitosa ogni notizia relativa alla sindrome di immunodeficienza acquisita; ma è proprio la gioiosa sensazione che si tratta di un pericolo di morte che riguarda altri, che sono, certo, diversi da noi. Tanto questo delirante sonno di ogni ragione è però prevalso che gli stessi “diversi” si sono investiti del ruolo di vittime designate, felici di segnare di una sacralità un po’ eroica un quotidiano che la permissività interessata delle maggioranze stava rendendo privo del fascino della trasgressione. Il cattolico Manzoni si compiacque di far morire proprio di peste quel Don Ferrante post-aristotelico che negava alla peste sostanza e accidente e non è certo il caso di negare alla peste di oggi il suo potenziale di strage; ma: se è giusto provvedere a che una nuova possibilità di morte non rischi di coinvolgere l’umanità intera a causa del mancato controllo su alcuni comportamenti diversi; come si può evitare dal mettere in guardia contro il comportamento di un’umanità intera che ha scelto di dormire in attesa di morire?Il sonno della ragione umana è oggi popolato da immagini che sembrano sogni. Da ogni parte generosi elargitori hanno cura che non un momento della nostra giornata resti al buio. Le morti che vediamo non sono però morti sognate e gli assassini che vediamo non sono il racconto di assassini onirici; sono le reali morti degli altri quelle di cui ci appaghiamo di essere spettatori, mente altri sono in attesa della spettacolo della morte nostra.

17 – Novembre ‘85

venerdì, 1 novembre 1985

Mino Maccari alla Galleria Eliseo, Via Nazionale 183. Raccogliere in poco spazio tante opere di Mino Maccari e lasciarle così, si sarebbe tentati di dire, indifese, all’osservazione di chi, specialista, amatore o profano, si trovi a visitare una galleria d’arte, due sale in Via Nazionale, è un’operazione che ci pare rischiosa. Maccari ha alle spalle decenni di lavoro ed ha conquistato un posto di rispetto tra gli artisti del nostro tempo.

Noi non siamo molto concordi con gli accostamenti e i riferimenti che troppo spesso vengono fatti alla caricatura tedesca e all’espressionismo, perché pensiamo che la sua satira e la sua pittura siano ricche di una giocosità e di una luminosità che le rendono anche lievi. Ci avrebbe fatto piacere che questo percorso artistico fosse più ragionato e che, oltre al piacere di guardare, questa mostra desse l’opportunità di meglio capire un artista che si muove tra tecniche così diverse, che passa dal segno satirico alla notazione lirica e psicologica, e che ha il grande pregio di una modestia e semplicità narrativa poco familiari a troppi pseudo-artisti contemporanei.