17 – Novembre ‘85

novembre , 1985

Varietà, frammenti di storia del teatro di varietà messi sul palcoscenico del teatro Argentina, è uno spettacolo mal riuscito. È difficile indicare con precisione che cosa è che non funziona; ma, per tutta la durata dei due tempi, si percepisce qualcosa di stonato. Anzitutto è uno spettacolo triste, che non riesce mai a diventare gioioso. Quasi tutti gli sketch sono bruttini e i testi, scelti da Oreste Del Buono e Mario Verdone, dal repertorio degli anni tra i venti e i quaranta, sono troppo deboli e lasciano vedere evidenti quei canovacci, che per i grandi interpreti del passato erano solo pretesti, quasi occultati dalla loro straordinaria capacità di inventare teatro.
Massimo Ranieri sembra di legno, persino la sua bella voce, normalmente duttile, risulta opaca, spenta, inefficace. Balla, canta, salta e recita sempre correttamente, ma in modo anonimo e impersonale. Marisa Merlini che ci è piaciuta nel primo quadretto: Tatatango, diventa poi come di. cartapesta, sfiatata e molle. Toni Ucci riesce a dare credibilità al personaggio di se stesso con una prestazione di routine.
Ottimo soltanto Arturo Brachetti, l’unico che fa davvero spettacolo. Pur nella sua precisione un po’ vitrea, riesce non solo a sbalordire, ma anche a divertire, con ironica aggressività.
Gli altri sgambettano, saltellano, canticchiano, ma hanno un’aria sdegnosa verso la materia che stanno rappresentando, come se non volessero davvero confondersi con dei lavoratori del «varietà». Le musiche, che sono la cosa più bella dello spettacolo, scelte da e a cura di Fiorenzo Carpi e Bruno Nicolai, sono eseguite bene da Calogero Taormina al pianoforte, Mario Cannizzo al contrabasso, Giuseppe Carrieri al sax, Giovanni Crasta alla tromba, Luigi De Filippi al violino, Mario Molino alla chitarra, Ernesto Pumbo al trombone e Angelo Zappulla alla batteria; ma è un’esecuzione quasi imbalsamata, tanto meccanica e precisa da non avere più anima. Le coreografie di Gino Landi sono realizzate con correttezza, in uno scenario volutamente spoglio di Roberto Francia, da un gruppo di ballerini ben allenato e abbastanza amalgamato. Il varietà è fatto di pezzi tra loro slegati. La regia ha il dovere di rispettare questa discontinuità ritmandola: noi qui non abbiamo capito che cosa Maurizio Scaparro abbia voluto fare.

Al teatro Flaiano è stata tentata, con buoni risultati, un’operazione difficile: rievocare un’epoca della storia recente dello spettacolo senza cadere nella commemorazione o nel funerale, e riuscendo, per contro a fare teatro. Addio Cabaret non si svolge in un cabaret, non ci sono i tavolini coi bicchieri di whisky o di sangrilla e i famosi spaghetti finali sono soltanto detti. Non si è fatto quindi cabaret, ma un bello spettacolo teatrale, con testi presi qua e là dal passato cabarettistico; testi sciolti, frizzanti, spiritosi, talvolta di un umorismo un po’ macabro e qualche altra volta un po’ forzato, ma nel complesso divertenti. I testi recitati si sono alternati, con ottimo ritmo, a pezzi cantati e a musiche mirabilmente eseguite in scena da Federico Troiani al pianoforte, Raffaello Angelini al violoncello e Franco Di Stefano alla batteria. Veramente bravi tutti gli interpreti: dall’eccezionale Sandro Massimini, protagonista, coordinatore e, si sarebbe tentati di dire regista – non ce ne voglia Ruggero Miti, che firma la regia di questo eccellente spettacolo – estroverso e preciso, poliedrico e capace di abilissimi passaggi virtuosistici. Bravi però anche tutti gli altri: Laura Devoti, Daniele Giarratana, Domenico Irene, Giulietta Raranelli e Roberto Tedesco; attori giovani, ma con un’impostazione promettente, le cui gradevoli presenze ci aspettiamo di ritrovare. Personalità di spicco ci sono sembrati già fin d’ora, Pier Francesco Poggi e Silvia Nebbia. Lui è un comico schietto, presente con tempestività ed efficacia per tutta la durata dello spettacolo, ed è stato capace di una gustosissima interpretazione del celeberrimo A me mi piaciono i crauti. Lei bella, proterva, dalla duttile voce, con un buonissimo senso del teatro. Peccato veniale della serata è stata un’invadente telecamera che ci è parsa estranea non solo ai testi raccolti da Roberto Mazzucco, ma anche alla scena di Roberto Francia, alle coreografie di Mirella Aguiaro e ai costumi di Mariolina Bono.

Non si può certo dire che l’Enrico IV di Pirandello sia una tragedia della follia; è così inverosimile la descrizione clinica di quel delirio che non ha nemmeno senso imputarla ad una ignoranza dell’autore. L’Enrico IV è il dramma della cattiveria umana e dell’impossibilità a non essere cattivi. Il mondo è diviso in due schiere: una, esigua, di cattivi che capiscono (in questo caso il protagonista) e poi c’è la schiera smisurata degli imbecilli, che non sono neppure consapevoli della loro crudeltà. Matilde Spina è un’oca romantica, sua figlia Frida una cagnetta petulante, il giovane fidanzato di questa, Carlo, è vacuo e vile; il barone Belcredi è volgare e ottuso; il dottor Genoni, psichiatra, desolatamente stupido e tronfio. I più umani di tutti sono i finti consiglieri e i servi: forse in loro risiede un barlume di speranza per l’umanità, anche se di ciò l’autore non mostra di essere consapevole. È una storia assolutamente inverosimile, ma splendida nella sua assurdità: un gentiluomo, colpito al capo durante una festa mascherata, crede di essere davvero Enrico IV, il rivale di Papa Gregorio VII; lo crede per dodici lunghi anni, ma quando rinsavisce decide di continuare nella finzione, per molti anni ancora fino a vendicarsi della donna amata e dell’amante di lei, uccidendolo. Dopo il delitto, sceglie di restare prigioniero della sua pazzia, insieme con la sua piccola corte di finti consiglieri che la nuova tragedia lega per sempre a lui.
Non si diventa matti in quel modo e non si rinsavisce in quella maniera e tutto sembra un pretesto per condurre il personaggio fino alla conclusione; e la conclusione non è altro che la definitiva scelta omosessuale di Enrico IV, che si rinchiude per sempre in un sodalizio virile coi suoi complici guardiani, rifiutando un mondo che gli pare troppo crudele. Ma il mondo, purtroppo, è così: è difficile sapere chi siamo, restiamo tutti prigionieri del nostro desiderio di non perdere, mentre rotoliamo vorticosamente incontro alla morte e gli altri cercano di strapparci quello che abbiamo e ci costringono ad essere quello che non vogliamo essere, ma che fa loro comodo che noi siamo. L’amore dovrebbe annidarsi come salvezza da qualche parte, ma l’imperatore Enrico lo troverà, forse, solo dopo che sarà calato il sipario.
L’interpretazione di Salvo Randone è stata meravigliosa: un Enrico IV stanco e trasognato, che all’inizio sussurra, scandendo le sillabe, e che poi, man mano che la sua presenza fisica sulla scena si fa più consistente, usa la voce e i gesti per far aumentare la tensione in attesa di un’esplosione che tutti ci aspettiamo debba avvenire da un momento all’altro; una tensione che non si scarica più e resta dentro agli spettatori anche dopo la catastrofe finale. Un Enrico IV così non si dimentica! La messinscena complessiva del regista Nello Rossati è stata buona: in una ambientazione da castello neo-gotico, piacevolmente realizzata da Toni Rossati e Cecilia Lorenzin, gli attori: Maria Teresa Bax, Sabina Ludovich, Claudio Capuano, Giulio Platone, Edoardo Borioli, Claudio De Angelis, Bruno Santini, Marco Giorgetti, Renato Condoleo, Leo Allegrini, Michele Bagnato e Roberto Calà si sono mossi con correttezza, facendo da contorno al gigante protagonista, senza però alcuno stridente contrasto: tutti adeguati e precisi nel delineare figure psicologicamente plausibili.
Ci è parso gesto di grande sensibilità culturale e umana la realizzazione di una mostra omaggio al grande Randone per i suoi ottant’anni e per i circa sessanta dedicati al teatro: un omaggio di grande dignità per un uomo degno.

Per quattro minuti di buon teatro abbiamo sofferto circa due ore! Il testo di Vestire gli ignudi di Luigi Pirandello, in scena al Teatro Quirino è una noiosa accozzaglia di frasi psico-tragico-filosofico-intimistiche, pronunciate da personaggi improbabili. Ersilia Drei ha tentato il suicidio: forse perché il suo datore di lavoro, il console italiano a Smirne, l’ha licenziata; forse per il rimorso di aver causato involontariamente la morte della figlioletta del console, della quale era la governante; forse perché il fidanzato, tenente di vascello, l’ha lasciata, forse….
La cronaca giornalistica del tentato suicidio ha affascinato un vecchio e famoso scrittore che decide di accoglierla in casa quando è dimessa dall’ospedale. Ersilia crede che le sue pene siano finite, ecco invece che si trova ancora sommersa da accuse, recriminazioni, impossibilità di chiarire che la spingono un’altra volta verso la morte. Solo la morte potrà infatti coprire la sua indifesa nudità esistenziale, con un abito dignitoso che la vita le ha negato.
Vogliamo parlare subito di Mariangela Melato, l’unica vera attrice tra i componenti del cast. Nel ruolo di Ersilia Drei, si è dapprima barcamenata, la sua voce, profonda e ricca di armonici, porgeva con monotonia le ridicole battute del testo, dando solo coi gesti un po’ d’anima ad un personaggio che l’autore ha concepito come uno stereotipo. Tanto che siamo arrivati, tra annoiati e sospesi, agli ultimi minuti del dramma, dove improvvisamente, abbiamo ritrovato il grande Pirandello, che, in poche battute delinea un personaggio grande e reale. Anche la Melato si è trasformata ed ha espresso in quelle poche frasi tutto ciò che non aveva potuto o non aveva saputo esprimere prima: la sua recitazione si è fatta convinta, intensa, ricca di sfumature, accorata ed eroica.
Tutto il resto ci è parso, dall’inizio alla fine, un disastro. Gli attori recitavano come filodrammatici, agitando pupazzi sconnessi, capaci solo di uno stesso registro. Luigi Diberti, Renato Scarpa, Daniele Griggio, Anna Menichetti, Carlo Colombo e Stefania Bifano non hanno saputo dare ai loro personaggi nient’altro che manichini su cui appoggiarsi; e se questa era l’intenzione del regista Giancarlo Sepe, non siamo d’accordo con lui. La regia non ci ha per nulla convinto: tante trovatine slegate che hanno frantumato e reso ancora più disarticolata una situazione già sgangherata nel testo. Lo scenografo Paolo Tommasi ha scelto di tenere immersi gli interpreti nella semioscurità di un enorme e burocratico stanzone, facendoli ogni tanto passare alla luce di un praticabile, oltre il quale si intravedeva una Roma di cartapesta, realistica come un presepio.
Ottime le musiche di Stefano Marcucci, ben costruite ed efficaci. Purtroppo venivano in primo piano solo per qualche istante e si limitavano poi a seguire, appena percepibili, tutta la vicenda, senza però che si realizzasse un vero parallelismo emozionale. Alla fine, appunto, ci siamo ritrovati a porci l’inevitabile domanda: Vale la pena tanta fatica per quattro minuti?