17 – Novembre ‘85

novembre , 1985

Nonostante tutto, è doveroso impegnarsi perché si esegua, si faccia eseguire e si offra l’opportunità di ascoltare la musica contemporanea. Perciò plaudiamo incondizionatamente alla decisione dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia di organizzare il concerto di musiche di Luigi Nono, all’auditorio di via della Conciliazione, in occasione del convegno che negli stessi giorni del fine settimana tra il dieci e il tredici ottobre si è tenuto a Roma sulla «condizione del compositore oggi». Della musica si può certo parlare; ma la musica si deve soprattutto ascoltare. La cosa che condanniamo invece senza riserve è l’atteggiamento del pubblico in occasioni come questa: idiota e passivo, subisce qualunque volgarità o stupidaggine, più o meno sonora, gli venga rovesciata addosso, senza approvare, senza ribellarsi, senza discutere, limitandosi ad applausi, di circostanza.

In un’atmosfera da obitorio è così accaduto che un’esigua platea di persone imbelli – e anche noi tra loro, coinvolti in quella viltà – abbiano assistito la sera del 10 ottobre al concerto Guai ai gelidi mostri, con musiche di Luigi Nono, dirette da Roberto Cecconi, con la partecipazione dei soprani: Ingrid Ade, Monika Bayr-Ivenz, Monika Brustmann; i contralti: Elisabeth Laurence e Susanne Otto; la viola Charlotte Geselbracht, il violoncello Christine Theus, il contrabasso Stefano Scodanibbio, il flauto Roberto Fabbriciani, il clarinetto Ciro Scarponi e la tuba Giancarlo Schiaffini; la regia sonora era di Hans Peter Haller.
Nono ha presentato tre brani che hanno rivelato la più desolante incapacità compositiva, coadiuvato anche da un’insulsa operazione letteraria di Massimo Cacciari, che rivela nel filosofo elaboratore dei testi di vari autori – da Lucrezio a Nietzsche – una deplorevole mancanza di rispetto per la letteratura e una concezione culturale alquanto discutibile e certo frivola.

Il primo brano A Pierre (Boulez), del 1985, costruisce, attraverso un’assoluta monotonia timbrica, appena ravvivata da qualche grumo piú intenso, labili immagini sonore che si esauriscono, per fortuna, in pochi minuti.
Guai ai gelidi mostri, del 1983, è il titolo di una musica che ci sembrerebbe l’appropriato sottofondo per un cabaret medianico: sonorità dilatate, assolutamente gratuite nella loro inconsequenzialità.

In Quando stanno morendo. Diario polacco n. 2, ha notevole importanza un coro a cappella che, analizzato a fondo, sembra un po’ troppo una canzonetta di montanari, anche negli accostamenti armonici, nonostante gli occhieggiamenti al gregoriano, cui succede, nella seconda parte un elementare passaggio strumentale cui si aggiunge un inserto vocale: qui, tra brusii e tonfi, il coro ripropone la sua «montanara».
Gli esecutori hanno fatto il possibile e forse anche bene; ma la parte del leone, almeno nella pruriginosa curiosità dei presenti; l’hanno fatta le macchine live electronics dello studio di Friburgo, per mezzo delle quali due tecnici e un assistente manipolavano i suoni, filtrandoli, dilantandoli, ritardandoli, capovolgendoli, con effetti anche piuttosto interessanti.

Domenica 6 ottobre si è tenuta la prima conferenza del ciclo Liszt: cent’anni dopo lezioni concerto a cura di Roman Vlad, che si terranno per quattro domeniche alle 11 di mattina nella sala del teatro Olimpico, organizzate dall’Accademia Filarmonica Romana. La parte musicale vedeva all’opera il pianista Michele Campanella, primo tra i solisti che parteciperanno al ciclo.

La profonda conoscenza che Vlad ha della musica ci è ben nota e ammiriamo anche la sua sapienza compositiva, che ci può trovare talora più o meno d’accordo, ma che sempre raccoglie il nostro grande rispetto. Il compositore Vlad infatti manifesta una bella volontà di comunicare, senza dire mai cose ovvie o banali. Fin dalle prime frasi della sua lezione, egli ha dichiarato esplicitamente quale è la sua opinione su Liszt e il fine che si propone con questi incontri: cancellare, cioè l’immagine di un Liszt solo brillante e salottiero, compositore soprattutto adatto a svenevoli signorine ottocentesche dal vitino di vespa.
Per Vlad, invece, Franz Liszt è un compositore che non solo lasciò ben presto il virtuosismo pianistico; ma si addentrò nella composizione musicale con genialità e spregiudicatezza; anche se, indubbiamente, vi è anche un Liszt esuberante e piacevole, come quello del famoso Sogno d’amore o delle Rapsodie ungheresi, brani, questi, di tutto rispetto. Con l’andare degli anni, la sua musica diviene sempre più scarna e l’agglomerarsi delle note perde l’intento funambolico, per esprimere piuttosto la voglia di capire a fondo l’animo umano e il mondo, servendosi proprio delle quasi infinite possibilità della musica. Siamo d’accordo con Vlad sulla necessità di presentare al pubblico, con coraggio, il grande Liszt, più grande forse, secondo Vlad e anche secondo noi, dello stesso Wagner, il quale, se pur a denti stretti confessò di dovergli molto come compositore (e, si sa, non soltanto). Un’altra affermazione che abbiamo trovato pregnante, anche se fatta quasi di sfuggita, è stata che la musica è sempre asemantica e che non ha senso perciò parlare di musica descrittiva: il suo valore è intrinseco ed essa esprime tutti i sentimenti possibili e poi va ancora oltre; per cui è superfluo che un compositore per esempio costringa il pianista a pestare per tre minuti sui tasti, con grandi accordi delle note basse e scriva sullo spartito «temporale». Ingiustamente Liszt è stato ritenuto solo un compositore descrittivo, mentre invece, raggiungendo talvolta l’essenza della musica, egli va ben oltre i semplici impasti sonori. Molto perplessi ci ha lasciato però l’affermazione del maestro Vlad per cui la grandezza di Liszt risiederebbe anche nella sua sbalorditiva modernità; più avanti di Wagner, e non soltanto: usa scale e moduli orientali, agglomerati sonori alla Debussy, è capace persino di intuizioni dodecafoniche e atonali.

Noi non riteniamo che precorrere i tempi sia, necessariamente, segno di grandezza: talvolta, per un musicista, può addirittura essere sintomo di incapacità. Non è certo il caso di Liszt; ma non ci lascia assolutamente ammirati il fatto che egli precorra questo o quell’altro. A noi piace la sua musica in sé: questo suo scavare che diventa sempre più interiore; inoltre pensiamo che il discorso di Vlad possa essere del tutto capovolto. Purtroppo su queste pagine non è possibile fare esempi musicali!

Ci pare insomma che Liszt non tanto mirasse a nuove forme linguistiche, quanto tendesse piuttosto a spingere fino alle estreme conseguenze l’armonia classica, proprio quella di: tonica, dominante, sottodominante e sensibile. Un esempio che ci conferma in questa nostra idea è il brano Dopo una lettura di Dante dal II dei Pèlèrinages: vi è qui un inciso in re minore che non presenta mai la nota base della tonalità (cioè il re); e questo non significa che ci sia un tentativo di contraddire o sfuggire la tonalità; ma anzi, come ben spiega la psicoanalisi, l’assenza è così macroscopicamente evidente che equivale ad una macroscopica presenza. Lo stesso si può dire a proposito del MefistoValzer, che, se è pur vero che presenta quinte che, messe in successione, costituiscono una serie dodecafonica, servono però qui a imprigionare il brano in una policromia anche fin troppo tonale: un tono che sfugge sempre – tanto è vero che il sottotitolo del brano è «bagatelle sans tonalité» – proprio perché le tonalità ci sono tutte, ricercate, sognate e volute.

Questi quattro incontri si annunciano comunque quanto mai interessanti e affascinanti. Vorremmo solo sottolineare, con un po’ di malizia, un lapsus, più volte ripetuto, di Vlad, che quando citava date della vita di Liszt, sostituiva sempre «ottocento» con «novecento»: rifletta un po’, Maestro! La spiegazione è facilissima: si capisce il desiderio di Vlad di portare nel nostro secolo Liszt. I compositori di oggi hanno troppo senso di colpa, perché, forse, hanno troppo tradito.

L’esecuzione che Michele Campanella ha dato del II volume degli Années de pèlèrinages e del Mefisto- Valzer è stata precisa, irruenta e fantasmagorica. Forse per meglio esemplificare quello che Vlad aveva appena detto, il bravo pianista avrebbe potuto volare un po’ meno sulla tastiera, senza pestare sui tasti, ma cercando di dilatare al massimo la musica per farne cogliere le interne connessure e la perfezione strutturale.