Psicoanalisi contro n. 17 – Troppo bello per essere vero

novembre , 1985

La vecchia Roma è bella, troppo bella. Talvolta, quando passeggio per i suoi vicoli, quando mi addosso al muro di un palazzo, quando entro in un androne, oppure quando sono in una chiesa, perfetta anche nelle sue sonorità, mi chiedo perché io continui a lavorare, a lottare, ad impegnarmi, ad agire, a parlare alla gente. Mi chiedo come io riesca ad occuparmi di altro che non sia passeggiare per questa città, nelle sue piazze, visitare chiese e musei, percepire i suoni e gli odori e poi, all’ora in cui la fame si fa sentire, sedere ad un tavolino, largo due palmi per due, dove pure so che mi verrà servito un Frascati cattivo, con spaghetti indecenti e ributtanti saltimbocca “alla romana”. “Alla Romana” è anche il cielo, in alto, dove finisce il muro giallo della casa. Quei cibi li lascerò lì, nel piatto e quel vino resterà nel bicchiere, mi accontenterò di pane e formaggio. A Roma si mangia male irrimediabilmente male; ma succede di mangiare male in luoghi talmente belli che uno, quasi, ringrazia Roma lo stesso delle schifezze che gli sono offerte. Se capitasse troppo spesso di mangiare bene, come si potrebbe resistere a questo eccesso di bellezza? Per fortuna, Roma ha tanti difetti, altrimenti sarebbe impossibile lavorare o fare altro che non fosse che contemplare lei: la città. Anche se non mi piace dire “lei”, perché Roma non ha, per me, quasi nulla di femminile, mi pare anzi possedere la bellezza e la tenerezza dei maschi, quando sono belli e teneri e, qualche volta, la trovo anche tronfia e ottusa, proprio come certi maschi.
Era sera,anzi, era notte,quando mi cercarono al telefono; in genere, se non si tratta di un amico molto intimi io non mi faccio passare le telefonate dopo una certa ora; ma mi fu detto che dall’altra parte del filo, c’era qualcuno che implorava aiuto con l’aria disperata per dirgli di richiamare il giorno dopo. Andai a rispondere, un po’ sbuffando: sentii la voce di un ragazzo dal profondo accento romanesco, una voce spezzata, ansimante. Mi disse: – Non vedo più, non vedo più, non posso più camminare, non posso muovere le braccia, non posso mangiare, non posso orinare….faccio fatica a parlare e a sentire ….Per favore parli forte, parli forte, perché sto diventando sordo….Ho venticinque anni, queste crisi mi sono incominciate quindici anni fa, a dieci anni, forse anche prima, ma sono così intense da una decina d’anni….-Poi incominciò a farfugliare , dicendo in modo smozzicato : – …non posso parlare …non sento…non parlo…- Gli domandai se fosse di Roma, mi rispose di sì, stupefatto. Gli dissi: – Beato te che sei nato in questa città! – Aggiunse ancora, ansioso e spaventato: – Che cosa sarà?- Risposi che non lo potevo sapere. Mi disse che aveva fatto tutti gli esami e non era risultato niente; gli occhi, le orecchie, le braccia, le gambe, tutto funzionava . Gli consigliai di andare a dormire, dopo essersi bevuto un bicchiere di vino. Decisi che lo avrei incontrato il giorno dopo , alla fine del mio orario di lavoro; sapevo che sarebbe stato faticoso; ma per lui, per me, in quel momento era Roma.

2.
La sera del giorno seguente, dopo aver visto tante persone, ero veramente stanco, quando entrò lui, un po’ imbarazzato: – Sono quello che ha telefonato ieri notte, …quello che non vede…non cammina. – Ma chi ti ha accompagnato qui?- No,adesso ci vedo, ieri sera ho bevuto un bicchiere di vino e sono andato a dormire; questa mattina mi sono svegliato che non avevo più niente. Mi succede spesso così. – Era un bel ragazzo, un po’ troppo bello per essere vero. Si sdraiò sul divano e incominciò a parlare della sua ragazza: – Voglio lasciare la mai ragazza, perché mi tradisce; ne sono sicuro; ma lei non vuole confessarmelo.- Ma: e la vista, la perdita dell’udito, il non poter camminare? -Quello succede ormai da molto tempo…io non ce la faccio più con quella lì. – Perché sei venuto da me? Ma l’ho detto ieri sera: perdo la vista, l’udito, l’uso delle gambe, mi si blocca tutto; mi sembra abbastanza grave… Però non so se le devo telefonare o no. Ieri sera, se non fossi, stato così male, avrei preso la macchina e sarei andato a casa sua, a vedere se la finestra era illuminata, se quell’altro era salito, se… Quella ragazza è bugiarda, bugiardissima, e io questo non lo sopporto. Io voglio vederci più chiaro. -

È giusto che, se una persona perde o crede di perdere improvvisamente la vista, l’udito, l’uso degli arti, se si sente bloccato, paralizzato, cerchi l’aiuto di qualcuno che lo curi. Queste manifestazioni sintomatiche non sempre passano con uno sforzo di volontà, anzi, spesso, più ci si impunta a voler inibire i sintomi, più questi si manifestano in modo aggressivo. Ricordo una ragazza che aveva una forte paura degli insetti, tutto sommato però abbastanza controllabile. Era una persona energica e robusta, era, come si suol dire, una persona razionale. Si trovò assurda con quella sua paura degli insetti, cominciò ad affrontarli, proprio come se fossero belve, a fissarli, si impose di non cacciare urla di raccapriccio quando un calabrone entrava dalla finestra. Improvvisamente crollò. I suoi lo chiamarono esaurimento nervoso. In realtà non aveva più il coraggio di uscire di casa; un timor panico l’aveva dapprima travolta e poi era subentrata una depressione profonda: avevano vinto gli insetti.
Bisogna stare molti attenti con la spavalderia. La migliore difesa contro il disagio mentale, la nevrosi o la psicosi, è spesso l’autoironia: saper prendere in giro le proprie paure, riconoscerle e anche un po’ coccolarle. Guai invece a prenderle di petto: sono pericolose, molto più pericolose dei calabroni che entrano dalla finestra!

3.
Quel ragazzo che per me era il simbolo di Roma, troppo bello per essere vero, incominciò a rivelarmi subito la verità, senza saperlo. Era convinto di essere venuto da me per quei sintomi, così terribili, oggettivamente; ma subito mi aveva parlato del suo rapporto con quella ragazza che forse lo tradiva con un amico comune. Una volta, era arrivato all’improvviso in casa di lei, aveva suonato furiosamente ed era riuscito a farsi aprire in fretta: c’era anche l’altro, con l’aria imbarazzata. – È venuto a trovarmi stavamo chiacchierando. – si era affrettata a dire la ragazza. Però poi tutto era degenerato in una lite. Mi raccontò in seguito la sua storia, tipica ed unica allo stesso tempo. Quando era bambino, suo padre era emigrato in Svizzera; la madre aveva un altro uomo: un signore molto distinto, che portava regali, a lui, al fratello e alla sorella; però,quando questo signore arrivava, con una bella automobile, il volto sorridente e i capelli bianchi, il ragazzo, troppo bello per essere vero, scappava in strada con gli amici. Correvano sotto gli archi medioevali, negli androni barocchi, ad esibirsi l’un l’altro gli organi genitali, a cercare di penetrarsi, a baciarsi intensamente; per poi scappare con un turbamento così profondo che neppure la più bella delle donne riesce ora a provocare in quel ragazzo, troppo bello per essere vero. Verrebbe alla mente un’interpretazione banale: forti pulsioni omosessuali rimosse e timore dell’omosessualità. In realtà era geloso dell’amico, da sempre desiderato. Banalità! Non sempre le banalità sono false; ma la banalità sta sovente troppo stretta alla verità, la verità deve andare oltre. Quanto è lecito andare oltre? Far scoprire a quel ragazzo la sua omosessualità fu anche troppo facile, troppo semplice, tanto era lì, a fior di pelle. I sintomi fisici per un po’ non si ripresentarono; poi esplosero improvvisamente, regredirono ad un tratto, si affacciarono e scomparirono più volte; prima di eclissarsi definitivamente. Un giorno, il ragazzo mi disse: – Se qualcuno mi chiedesse perché ho incominciato l’analisi, direi che sono venuto qui per quei disturbi; ma adesso mi sembra che non sia così; adesso ho di fronte a me altri problemi, tutto quello che è scaturito dal nostro lavoro… Quei sintomi sono scomparsi, perché non voglio smettere l’analisi?

4.
Una terapia psicoanalitica si realizza principalmente attraverso lo svolgimento di due copioni. Nel primo copione il paziente si presenta con i sintomi, che quasi regrediscono abbastanza rapidamente si parla d’altro, lo stesso paziente non sembra molto interessato a loro, si lavora insieme, con intensità e una certa tranquillità, talvolta con allegria, talora con un po’ di sofferenza, fino a che i sintomi che avevano dato inizio al lavoro sembrano dimenticati; ma ad un certo punto ricompaiono, sempre. Allora bisogna riprendere tutto da capo, ripercorrere le tappe più a fondo E’ il momento in cui esplodono le difese: se la personalità del paziente è particolarmente narcisistica, compaiono episodi sado-masochistici più o meno intensi, e viceversa. E’ questa una fase estremamente delicata e pericolosa; sappiamo infatti quanto sia grave la sovrapposizione dei due principali meccanismi di difesa: il narcisismo e il sadomasochismo, in quanto provoca la perdita di contatto con la realtà. I fantasmi del passato sembrano circondare il paziente, il terapeuta diventa persecutore oppure viene negato. Il paziente vuol fare il lavoro da solo e si incammina imperterrito su una strada che è sempre quella sbagliata. In questo momento, che non può essere evitato, l’analista deve saper essere un buon nocchiero: deve guidare la navigazione con polso sicuro e lo può fare soltanto se ha una solida preparazione e sa bene dove bisogna andare. Se l’analista è sicuro non c’è nessun pericolo; ma guai se l’analista è incerto, guai all’analista eclettico, che ha raffazzonato la sua preparazione piluccando di qua e di là e ora si muove sull’ispirazione del momento, qui come farebbe la Klein, là Jung o Lacan. Bisogna diffidare degli analisti che non hanno scelto una scuola, perché la tempesta potrebbe disorientarli e farli annegare, insieme coi loro pazienti. Il tipo di lavoro analitico che stiamo esaminando attraversa poi un periodo di bonaccia, anche questo pericoloso per il paziente e che presenta per il terapeuta grosse difficoltà: l’analisi rischia di insabbiarsi in una consuetudine ripetitiva che rende gradevole il rituale della seduta perché dà una sorta di sicurezza, ma non si va né avanti né indietro, si resta fermi. Si è insediato un amore tranquillo, come quello tra vecchi coniugi. È giusto che anche questo avvenga, e in questa calma apparente, se l’analista è attento, può scoprire molte cose; è importante però che non si adagi anche lui in questa situazione, che non si metta le pantofole e non guardi la storia del proprio paziente come si guardano i programmi televisivi, la sera, quando si è stanchi, si è appena mangiato e si ha sonno.
Poi arriva quello che, in teatro, si chiama sottofinale: la ricomparsa dei sintomi, attenuati, ma ormai demistificati. Lo stesso paziente li sente come qualcosa di estraneo ed essi, lentamente, regrediscono senza sforzo.

Il lavoro va ancora avanti e-quando il paziente capisce che si potrebbe interrompere l’analisi, perché sembra non avere più senso il continuarla, perché tutto sembra chiaro, perché ci sono altri che ne hanno più bisogno ancora, ecco l’esplosione violenta: i sintomi compaiono nuovamente. Anche il paziente a questo punto è consapevole che si è procurato il loro ritorno per non dover interrompere il lavoro analitico: è un richiamo d’amore di cui egli stesso sorride, insieme con l’analista. Qui può iniziare il secondo livello per questo tipo di analisi, o si può decidere di fermarsi. Se si continuerà sarà, però, per una strada che non ha più nulla a che vedere con quella guarigione che si era cercata all’inizio.

5.
L’altro tipo di analisi che voglio prendere in esame segue un copione abbastanza diverso dal precedente: i sintomi dell’inizio non scompaiono mai del tutto, divengono però sempre meno essenziali; lentamente vengono isolati, il paziente impara a convivere con essi, ad usarli; ma non se ne vuole separare e sa di non volersene separare; sa anche perché non se ne vuole separare. Essi perdono, via via, d’importanza, ma permangono: ora si affievoliscono, poi tornano più intensi, si rifanno flebili, però sono sempre lì, come soprammobili inerti che non danno neppure molto fastidio. L’analisi prosegue, cercando di non tenerne conto: si giunge a una buona ristrutturazione complessiva della personalità; si verificano sbalorditivi miglioramenti in tutta la situazione esistenziale del paziente, con modifiche positive di molti aspetti psichici e fisici, tanto che il paziente, spesso, sembra diventato un’altra persona agli occhi degli amici e dei famigliari, quasi rinato; ma i sintomi rimangono lì, come cristallizzati, mummificati, plastificati e divengono persino maneggevoli con una certa facilità. Tutto si muove, meno questi sintomi.
Anche in questo tipo di analisi si verifica, sia pure in modo meno evidente, il momento dell’intensificazione dei sintomi e il successivo loro affievolirsi, che segnalano l’inizio di un sommovimento dei meccanismi difensivi, per cui compaiono nel paziente difese di segno opposto alle sue caratteristiche psichiche di base: i narcisisti innalzano barriere sado-masochistiche e viceversa.
Nessun essere umano mette in atto soltanto difese di tipo narcisistico o solo di tipo sadomasochistico; ma in ogni analisi è di fondamentale importanza riuscire ad individuare le caratteristiche difensive che sono peculiari della persona per poi riuscire ad evidenziare e a controllare i capovolgimenti, le sovrapposizioni e gli spostamenti.

L’individuazione dei meccanismi di difesa è sempre di notevole difficoltà. Ciò che contribuisce a confondere le acque sono le fantasie sadomasochiste dei pazienti narcisisti. Il narcisista racconta spesso con ricchezza eccessiva le proprie sensazioni, che paiono sempre venire dal di fuori: colori, suoni, parole. Nessuno infatti può parlare di sé, senza parlare anche un po’ del mondo che gli sta attorno. Spesso, sembra che una persona la quale racconta se stessa e la propria vita, stia raccontando un mondo reale, percepito, mentre invece si riferisce ad un mondo soprattutto fantastico.
Come può l’analista rendersi conto di quanto c’è di troppo fantastico in un racconto del genere? Come può capire il suo paziente, in realtà, non percepisce gli altri, ma sovrappone loro le proprie fantasie e i fantasmi del proprio passato? La cosa è particolarmente difficile da scoprire, perché tutti, almeno un poco, ci comportiamo così. Certo, non è difficile individuare la chiusura narcisistica, se si ha di fronte una situazione clamorosa di delirio, in cui la distorsione del reale e l’invasione del passato remoto nel presente e l’incapacità di cogliere il senso del tempo sono eccessivamente evidenti. Il giovane analista si trova così in difficoltà quando si tratta di capire quanto il sadomasochismo evidente sia compromesso dal narcisismo, o se invece sia rivolto verso oggetti realmente percepiti, sia pure in un’ansia di distruzione. Di volta in volta viene il dubbio che esista solo il narcisismo oppure solo il sadomasochismo. Questa difficoltà può essere superata soltanto attraverso un’attenta osservazione empirica.

6.
Bisogna anzitutto avere ben presenti quali sono i comportamenti tipici di ciascuna categoria di difese. Soltanto così, da segni impercettibili, l’analista riuscirà a distinguere un tipo di difesa abitualmente narcisistico da uno abitualmente sadomasochistico. Vorrei attirare l’attenzione sul termine «abitualmente», perché sarà il metro che renderà più agevole la distinzione. Sarebbe bene che l’analista potesse vedere anche fuori dello studio il proprio paziente, perché ciò gli faciliterebbe la comprensione del significato complessivo del suo comportamento. Confrontando il comportamento nelle diverse situazioni, gli sarebbe più facile trarre le dovute conclusioni. Se ciò non è possibile, però è sempre possibile un incontro nel corridoio, andare a prendere un caffè insieme, una breve passeggiata in strada, prima di iniziare il lavoro. Sono preziosi momenti che lo psicoanalista non deve lasciarsi sfuggire. Io sono contrario agli assurdi divieti che la psicoanalisi anticamente poneva, e tutt’ora pone, durante il periodo del rapporto analitico, per cui non deve esistere comunicazione, al di fuori dell’analisi, tra paziente e terapeuta, e si deve addirittura evitare il più possibile ogni infiltrazione del mondo dell’uno nel mondo dell’altro. Questi divieti e queste precauzioni non sono soltanto ridicoli; ma dimostrano, da parte di chi ne sostiene la validità, poca conoscenza di che cosa sia veramente la ricerca scientifica.La ricerca scientifica deve soprattutto saper adattare il proprio metodo all’oggetto di cui si occupa. La asetticità del «setting» in questo caso non si realizza certamente attraverso l’applicazione di piccole norme di comportamento; ma si può esprimere soltanto attraverso il possesso di una salda concezione metapsicologica e di una tecnica flessibile, ben radicata in una solida cultura. L’analista deve essere capace anche di lasciarsi andare davanti al proprio paziente, saperlo percepire e riuscire a coglierlo. Certo, deve saper porre a se stesso norme e divieti, che talvolta possono risultare anche più faticosi da applicare di quanto non lo sia il ridicolo rituale della «vecchia» psicoanalisi; sono divieti e imposizioni che rischiano talora di andare contro le più elementari regole della cortesia (benché io inviti sempre chi impara da me il mestiere dell’analista ad essere molto attento prima di applicare la scelta di un comportamento scortese, perché la mancanza di cortesia è un male e il cielo la condanna).

7.

Ho fin qui descritto due tipi fondamentali di sviluppo possibile di un rapporto analitico. Ho fatto un po’ come fanno gli storici della musica, quando debbono incominciare a parlare delle differenze tra contrappunto e polifonia, da un lato, e melodia accompagnata, dall’altro lato: schematizzando, spiegano come l’una forma consista in due o più voci che si intrecciano tra loro, mantenendo la stessa dignità e importanza; e come l’altra forma privilegi invece una delle voci, in subordine alla quale vengono strutturate le altre parti, in successioni accordali, asservite alla voce principale. Ma anche i manualetti più semplificati debbono però poi avvisare chi legge che, in pratica, questa rigida divisione non si verifica e che i buoni compositori, soprattutto, si muovono con estrema scioltezza, passando continuamente dall’una all’altra di queste due forme. Così debbo anch’io dire che la schematizzazione che ho fin qui operato può sì valere per qual che caso, ma rischia di impoverire troppo la storia di un rapporto che è sempre molto più ricco e variegato e che non sopporta eccessive schematizzazioni.

8.
La guarigione dunque non consiste nella scomparsa dei sintomi; ma è qualcosa di più profondo, strettamente legato a ciò che, insieme, paziente e terapeuta, hanno imparato ad intuire che la guarigione sia: un modo diverso di affrontare la vita e il mondo, gli altri e se stessi. A questo punto, la tecnica si confonde con la scienza e questa con la filosofia e la filosofia con qualcosa che è oltre e che potremmo chiamare «metafisica», se
il termine non fosse così compromesso e quindi così poco efficace. Io mi chiedo se sia giusto invitare l’altro a seguirmi in questa avventura. Sempre, quando scrivo, quando parlo per tante persone, cerco di andare a fondo, di non darmi tregua, di non rassegnarmi. Cerco di snidare la stupidità e il qualunquismo; voglio andare contro il perbenismo delle frasi fatte, sperando di non fabbricarne di nuove, consapevole però che corro anche questo rischio. Tutto questo è terapia: curare gli altri e me stesso; ma in tutti questi casi gli altri possono sottrarsi, possono distogliere da me lo sguardo e l’udito, possono strappare le pagine che scrivo; soltanto nel rapporto psicoanalitico ciò non è così facile: giunti ad un certo punto dell’analisi devo dire chiaramente a chi sta lavorando con me che c’è un passo ulteriore da compiere, che però non so quanto sia bene e giusto compierlo. Io sono convinto di quello che dico e credo di aver capito un po’ come è fatto l’uomo; ma, soprattutto, penso di sapere come dovrebbe essere e lotto perché gli uomini divengano simili al mio ideale di uomo. So anche, però, di vivere un momento della storia del mondo, di essere frutto del passato, di essere in grado di vedere alcune cose e di non essere in grado di vederne altre. Per questo ho il dovere di chiedere a chi mi ha seguito fino ad un certo punto, se abbia voglia di continuare. Ho il dovere di spiegargli come, per un verso, sia ormai guarito, ma, per un altro verso, sia ancora malato. Vuole accettare questa guarigione? Rifiutare di andare oltre non è necessariamente un gesto di viltà. Questo è il momento più difficile per chi si prende cura e per chi ha accettato di essere curato; l’importante però è non ingannare, esplicitare che, di qui in poi, non si sa bene dove si andrà. O meglio: io, l’analista, lo so. Ma seguirmi e farmi seguire è ormai una questione di amore e non solo di salute. Qui ho detto una bestemmia; perché innamoramento e salute coincidono. Re Lear non è folle quando delira ottenebrato dalla disperazione; ma lo è quando, all’inizio del dramma, ancora potente e apparentemente sano, non riesce a capire chi lo ama davvero.