17 – Novembre ‘85

novembre , 1985

Il breve libro di Peter B. Medawar, I limiti della scienza (ed. Boringhieri, 1985, pagg 93, L. 12.000) è ambiguo, bizzarro e anche grottesco. L’autore ha ricevuto nel 1960 il premio Nobel per la medicina e la fisiologia, si è occupato a lungo del problema del rigetto e si occupa ora di biologia dei tumori. Ciò nonostante farebbe meglio a non pubblicare libri come questo: tutto il primo capitolo è di una stupidità desolante, pieno di affermazioni ritrite e ovvie, come quella che la scienza tende al vero, ma, qualche volta, sbaglia. Oppure ridicole, come quella per cui le donne possono anche fare le scienziate, ma meglio fanno a seguire l’esempio di Marie Curie il cui «merito veramente eccezionale» è stato di aver messo al mondo «una figlia, Irene, la quale, invece di rinnegare i genitori e le loro opere intraprendendo la professione d’indossatrice o andando in India alla ricerca dell’Illuminazione, come fanno molti giovani d’oggi, giunse a sua volta a vincere il premio Nobel».

Altre affermazioni sono invece pericolose e mirano a tenere fuori della mischia politica lo scienziato, sostenendo che le scoperte scientifiche non possono che essere buone di per sé, e solo il loro cattivo uso può renderle cattive. Una sola osservazione ci è sembrata interessante: quella per cui, nonostante l’opposta convinzione dei pezzi grossi di Whashington e di Whitehall, «Non esiste il metodo scientifico». Lo scienziato infatti non applica alle sue ricerche «un procedimento logico preciso e stabilito una volta per tutte», ma applica invece «tutta una serie di strategie di ricerca» cui non sono estranee neppure fantasia e fortuna. Quando poi Medawar si pone il problema dei limiti della scienza e delle sue capacità di rispondere ai quesiti ultimi sul significato dell’esistenza, dà una risposta molto perbenista, dicendo che: «esula dalle competenze della scienza dar risposta agli interrogativi di fondo, ma che per le questioni che essa è in grado di risolvere le sue capacità sono illimitate». Questa non è solo una tautologia, ma esprime anche l’illogicità di quegli scienziati che distinguono la scienza dagli altri campi di ricerca, definendo però la scienza in base a parametri che essi stessi hanno prima dato come scientifici.
Poi tutto finisce in gloria, con l’esortazione generale a lottare per un mondo migliore.

Di avviso completamente diverso sono John Eccles e Daniel Robinson, autori del volumetto: La meraviglia di essere uomo (ed. Armando, 1985, pagg. 199, L. 15.000), infatti costoro credono di poter dimostrare scientificamente l’esistenza dell’anima e di Dio. Nei dodici capitoli i salti al di là di ogni logica si sprecano; ad ogni pagina si trovano affermazioni basate sul principio che: «Poiché le soluzioni materialistiche non spiegano l’unicità che ciascuno di noi esperisce, siamo costretti ad attribuire l’unicità della psiche, o dell’anima, ad una creazione spirituale soprannaturale (…) È la certezza del carattere unico del nucleo più intimo dell’individualità che rende necessaria la “creazione divina”. Noi sosteniamo che nessun’altra spiegazione è sostenibile». Dal canto nostro, noi non sosteniamo certo l’assoluta oggettività della scienza; ma vorremmo, almeno, che gli scienziati si rendessero conto delle loro contraddizioni e anche dei loro desideri. Solo così potranno dire qualcosa di valido e non si limiteranno a vendere fumo. Le due teorie contro le quali gli autori si scagliano con particolare veemenza sono il pan-psichismo (esiste solo il principio spirituale, tutto è animato) e il materialismo radicale. Confutano il pan-psichismo dicendo semplicemente che è una sciocchezza e spendono invece molte pagine per sconfessare il materialismo assoluto, senza mai nulla dimostrare e solo affermando.
Si appoggiano al sistema dei «tre mondi» di Karl Popper per distinguere il cervello da quella facoltà mentale in cui, a loro avviso, risiederebbero la volontà e il libero arbitrio, ma anche qui la loro è solo un’affermazione. Dopo aver affermato che Dio crea l’anima riscoprono la glandola pineale di Cartesio e la localizzano nell’Area Motoria Supplementare (AMS), individuata dal neurochirurgo Wilder Penfield: attraverso quest’area l’anima riesce a influire sul corpo. L’assoluta incapacità che i due rivelano a dimostrare i loro assunti metafisici attraverso una metodologia scientifica, parrebbe dar ragione a chi, come Medawar, sostiene che la scienza non può travalicare se stessa. Ma, siamo certi che i tre sappiano che cosa è la scienza? C’è troppa tracotanza e troppa sicurezza di saperlo nei due libri di cui ci siamo qui occupati.