Archivio di agosto 1985

16 – Agosto ‘85

giovedì, 1 agosto 1985

Il Barbiere di Siviglia

I l Barbiere di Siviglia, di Giovanni Paisiello, sul libretto che l’abate romano Giuseppe Petrosellini ricavò dall’omonima commedia di Beaumarchais, non è un’ opera molto rappresentata; oscurata dalle fortune dell’altro Barbiere, musicato da Rossini.

È stato quindi con vero interesse che abbiamo seguito questo allestimento presentato al Teatro Nuovo di Spoleto dal Teatro Petruzzelli di Bari.

Non vorremmo indugiare sui soliti paragoni tra Paisiello e Rossini, e tantomeno avventurarci in disquisizioni intorno alla figura di Figaro – tra le tante versioni del personaggio noi preferiamo quella mozartiana, che pur si rifà ad un’altra commedia, sempre di Beaumarchais, e che trascende tutti i personaggi dei Rossini e Paisiello di questo mondo! Il Barbiere di Paisiello è un’opera meravigliosa di per sé: è un gioiello che brilla di luce propria; pur essendo anche espressione di un mondo e di uno stile, non è infatti chiusa nei limiti dell’opera di genere, magari di buona fattura.

Paisiello compose l’opera nel 1782, durante il suo soggiorno in Russia, alla corte di Caterina II, dove aveva un posto di maestro di cappella, con un contratto che gli permetteva una grande libertà d’azione nelle proprie scelte artistiche.

Commissionò da Pietroburgo il libretto facendo pervenire per lettera le istruzioni al suo autore, con molte indicazioni.

Si è detto assai male del lavoro fatto da Petrosellini; in realtà il libretto, pur senza essere un capolavoro ha una sua dignità e offre molti buoni spunti per un compositore con talento per il teatro. I personaggi del teatro musicale sono quasi sempre descritti con parole che li rendono involucri, fantasmi indefiniti; è la musica che dà loro la fisionomia, il colore, il carattere. Se i versi del librettista aiutano, tanto meglio!

Così è capitato anche con il libretto di questo Barbiere. La musica è corpo e anima; persino i recitativi secchi – seppur non raggiungono i livelli di quelli mozartiani i quali sono musica perfetta che potrebbero al limite essere eseguiti anche da soli, in concerto – hanno impennate, sinuosità, cadenze d’inganno, cadenze evitate, non pedissequamente confezionate; e i recitativi accompagnati sfumano nelle arie, nei duetti, nei concertati.

Sempre originalissima, ma senza stranezze è musica di grande scioltezza, con belle melodie, tornite con cura, per far cantare i personaggi solisticamente; o con bellissimi concertati come quello del finale, che dimostrano una profondissima sapienza polifonica e teatrale allo stesso tempo.

Lo spettatore è condotto, quasi per mano attraverso tante situazioni emotive, da linee melodiche chiare, che confluiscono spesso in perfette architetture sonore. In alcuni momenti il rapporto armonico e melodico è così fluido, semplice e profondo, che ricorda atmosfere mozartiane. Le tonalità si susseguono con logica ferrea, ma non rigida. Non c’è mai un accompagnamento convenzionale. Spunti contrappuntistici, appena accennati, commentano talvolta, con arguzia, la vicenda. Un’ironia sottile pervade tutta la partitura, insieme con un’intensa e un po’ conturbante malinconia.

La vicenda si può riassumere per sommi capi: il conte D’Almaviva è innamorato di Rosina, che è tenuta sotto stretta sorveglianza dal suo tutore, il vecchio Don Bartolo, che vuole sP9sarla. Con l’aiuto del barbiere, Figaro, le fa la sua dichiarazione, dicendo le però di chiamarsi Lindoro. Con uno stratagemma suggerito da Figaro, Lindoro riesce ad introdursi in casa dell’amata, fingendosi un soldato munito di un’ordinanza d’alloggio.

Il vecchio riesce però a scacciarlo esibendo un certificato che lo dispensa da quel dovere.

Preoccupato dalle insidie che sente intorno a lui, Don Bartolo decide di sposare subito la ragazza e manda Don Basilio, maestro di musica di Rosina e faccendiere, a cercare un notaio. Ancora su consiglio di Figaro, Lindoro, travestito da abatino, entra in casa col pretesto di dover sostituire Don Basilio, malato, nella lezione di musica.

Il trucco viene scoperto; ma intanto Lindoro è riuscito a far ratificare il suo matrimonio con Rosina dal notaio sopraggiunto e, rivelandosi come il nobile conte D’Almaviva, impone anche il consenso di Don Bartolo.

L’edizione qui presentata raggiunge un livello davvero eccezionale: di rado si vede un’allestimento così unitario.

Direttore d’orchestra, scenografo, regista e interpreti hanno concordemente voluto immergersi in un’atmosfera fiabesca, quasi da teatrino di maschere, maschere che hanno, però un cuore caldo e appassionato.

L’ambiente settecentesco non è tradito; ma si è scelto un modo particolare di leggere il Settecento e quest’opera.

L’orchestra, ben amalgamata e duttile, ha ésposto fin dall’Ouverture, frasi musicali soffici, se pur precise; i punti di scansione erano evidenziati e smorzate le asperità buffonesche e questo è servito a introdurre il clima della storia.

Figaro , che non è il protagonista, perché forse quest’opera non ce l’ha, era interpretato dal baritono Roberto Coviello, una bella voce contenuta, un personaggio che fa capolino qua e là, più che essere il «factotum». Disincantato e un po’ cialtrone, . all’inizio sembra riempire tutta la scena, ma poi, lentamente, si tira in disparte, come per lasciar spazio ad altri personaggi, ad altri sentimenti, tanto che la stessa musica è poco personalizzata, in quanto deve fondersi sempre con quella degli altri, quasi ne fosse l’ombreggiatura.

Don Bartolo era il basso Giancarlo Ceccarini, corretto nell’interpretazione di un uomo consapevole fin dall’inizio dell’inevitabile sconfitta.

Forse, ha un po’ ecceduto nei toni sommessi. Per esempio nella bellissima e argutissima scena in cui vuol far confessare a Rosina di aver scritto un biglietto, osservando il dito macchiato d’inchiostro, è fin troppo rassegnato e, anche vocalmente, la musica suggerirebbe coloriti più intensi.

Il conte D’Almaviva era interpretato dal tenore Edoardo Gimenez, dalla bella voce calda. Si presenta con frasi scandite, quasi solfeggiando.

Un bell’effetto di straniamento, per un personaggio che si inserisce, estraneo, in un mondo non suo. Poi, man mano che si amalgama, seguendo il cangiare delle melodie, diviene seduttorio, ma anche bonario e un po’ ironico.

Il Don Basilio del basso Bruno Praticò ha realizzato più degli altri il «carattere» tipico, prescritto al personaggio dai canoni dell’opera buffa, con risultati eccellenti.

Eccezionale la Rosina di Patrizia Pace, sentimentale, accorata, talvolta sognante, come la principessa di una fiaba, tenera nel tentare i suoi piccoli sotterfugi, senza mai nessun accento da virago coi boccoli, di tanti personaggi femminili della commedia settecentesca; la sua voce era duttile, morbida, talvolta vibrante, certo, qua e là, con qualche pizzico di arguzia; fanno parte del carattere del pesonaggio anche le esitazioni.

Molto bravi anche il basso Giovanni Savoiardo e il tenore Maurizio Scardovi, nei ruoli minori.

Il direttore Marcello Viotti, con gesto preciso e attento, non lasciava andare perduta nessuna delle possibilità utili a evidenziare il tipo di lettura che si era dato dell’opera.

La regia di Maurizio Scaparro, coordinava le azioni, creando atmosfere sospese.

Strabiliante l’effetto delle scene di Emanuele Luzzati, e ci è sembrato che proprio da questa magica scatola blu, che a un certo punto si apre spandendo intorno fantasia e colore, nascesse e si costruisse tutto lo spettacolo. Perfetti i costumi di Santuzza Calì.

Opera Chuan di Sichuan

Anche lo spettacolo offerto dalla Chuan Opera del Sichuan rientra nel tipo di spettacolo che noi preferiamo, in cui sono presenti tutti i generi espressivi:

musica, danza, recitazione. L’opera cinese è antichissima e molto differenziata da regione a regione.

Nella regione del Sichuan si è affermata l’opera chiamata Chuan in cui ha grande importanza la parte musicale, che riassume gli antichi cinque generi, che prendevano denominazione dai cinque tipi di arie:

queste arie sono ora variamente presenti nel corso di una stessa opera.

Nella storia che abbiamo visto rappresentare: Il Serpente Bianco, una vicenda quanto mai complessa si articola in ben otto atti o scene che raccontano come Serpente Bianco, dopo aver lasciato per amore il Regno degli dèi celesti, si batta, aiutata in ciò da Serpente Verde, che per amore si è trasformato in schiava fedele, per difendere il suo amato marito Xuxian dall’ira degli dèi. Questo canovaccio risulta poi complicatissimo per la varietà dei personaggi, delle figure simboliche e delle trasformazioni che si inseriscono. Tutto sommato si tratta di uno spettacolo però facile: le scene sono essenziali e i costumi ricchissimi, i colori sono sempre molto vivaci, pieni di effetti. Se la scenografia fosse di un occidentale, si potrebbe dire che eccede nelle cineserie, ma qui tutto è autentico. Ogni attore sostiene il proprio personaggio, di creatura umana o divina, di genio benefico o malefico o addirittura di onda o di nuvola, prestandogli la totalità delle sue possibilità; sempre impegnato in un virtuosismo vocale o acrobatico.

La musica, erede di un patrimonio antichissimo e codificato” sembra assai semplice: talvolta è riconducibile ai toni di minore e maggiore. Ripete spesso brevi moduli cadenziali, facendoli ruotare su loro stessi; alcune melodie sono orecchiabilissime, con un leggero piglio da canzonetta. Non è difficile capire, almeno a grandi linee, gli elementi grammaticali e sintattici su cui il linguaggio si basa, in modo particolare dopo che qualche strumento ha esposto in successione alcuni gradi di qualche scala. Crediamo comunque che sia molto anche ciò che per la nostra comprensione è andato perduto.

L’esecuzione della piccola orchestra di fiati, percussioni e archi, con l’aggiunta di una voce femminile, ci è sembrata sciolta e precisa. La vocalità di ogni interprete ha espresso tutte le gamme possibili: dal canto pieno al recitativo, tenendo sempre presente l’obiettivo della massima musicalità.

Les Grands Ballets Canadiens

Attesa da tanti è arrivata a Spoleto quella danza, per antonomasia, che noi amiamo assai poco.

L’amiamo poco soprattutto quando è offerta in condizioni così trascurate, quando la musica è maltrattata e umiliata da riproduzioni pessime e si aggiunge come elemento estraneo.

Non ci piacciono proprio questi balletti in play back; lo spettacolo di danza deve venire costruendosi come unità inscindibile di gesto e di musica.

È disumano pensare che chi balla debba confrontarsi con un riproduttore meccanico, che non può comunque mettersi in sin toni a con i suoi sentimenti di quel momento, con il suo modo di esprimere i contenuti della coreografia e della musica.

Manca insomma la meraviglia di un impasto che si realizza, ogni volta irripetibilmente nuovo, sensibile anche al messaggio che viene dal pubblico.

I danzatori di questi Grands Ballets Canadiens presentano due programmi diversi, a sere alterne.

Noi abbiamo potuto seguire il Concerto Barocco, In Paradisum e Carmina Burana.

Concerto Barocco è una coreografia di Balanchine del 1940 sul Concerto in re minore per due violini di J.S. Bach, si rifà quindi a una concezione piuttosto accademica della danza e necessita, per risaltare, di esecuzioni perfette; ma i danzatori, non certo aiutati dalla pessima riproduzione musicale che rendeva tutte le note calanti, dovevano inseguire le tracce dei propri passi affidandosi soltanto alla memoria, per cui risultavano spesso fuori tempo, dando l’impressione di eseguire movimenti scoordinati tra di loro e privi di significato. .

La coreografia di James Kudelka per il balletto In Paradisum, su musiche di Michael J. Baker è molto più recente (1983). Ingenuamente simbolista intende esprimere le vicende del paese dei morti.

Tutto un aggrovigliarsi, contorcersi, lasciarsi e ritrovarsi, che suggestiona molto le anime semplici degli spettatori; ma che, a parte qualche efficace figura d’insieme e qualche passaggio ben eseguito, si ripete troppo ed è reso confuso dallo svolazzare delle lunghe gonne scure realizzate dal costumi sta Denis Joffre; la musica di Baker ha tutti i difetti della povertà di idee e della ripetitività stucchevole.

La terza parte, Carmina Burana, si basa, oltre che sulle splendide musiche di Orff, su di una coreografia di Fernand Nault che risale al 1966, arricchita dai costumi di François Barbeau e dalle scene di Robert Prévost, di buon effetto, dà la possibilità, per l’ampiezza dello svolgimento, di esternare tutto il patrimonio acquisito dalla compagnia, che ci pare però caratterizzato da scarsa originalità, e mancanza di una tradizione solidamente fondata. Ne risentono i danzatori, che paiono indecisi tra le scelte decisamente nuove e reminiscenze accademiche; così che risultano spesso imprecisi e poco comunicativi.

16 – Agosto ‘85

giovedì, 1 agosto 1985

Anteprime

Steaming, con la regia di Joseph Losey, presentato tra le Anteprime nella rassegna Spoleto cinema ‘85, è un film di raffinatezza alessandrina, con tutti gli aspetti, positivi e negativi, di questo genere artistico ed è decadente fino allo spasimo.
Racconta la storia, senza tempo, o meglio: al di là del tempo, di un gruppo di donne abituali frequentatrici di un bagno turco a Londra.
Nello scenario fastoso e fatiscente di questo vecchio bagno sette donne cercano un rifugio in cui poter sognare, esibirsi, aggredirsi, parlare degli uomini e giocare con la propria omosessualità.
In un contrasto di marmi sontuosi e piastrelle incrostate, in un’architettura solenne e desolata ad un tempo, tra lettini e attrezzi ginnici, si muove un coro di donne, più o meno nude, che contornano i personaggi principali di Nancy, una statuaria ed attonita Vanessa Redgrave, borghese disincantata; Sarah, la sua amica velleitaria, interpretata con vivacità da Sarah Miles; Violet, una Diana Dors imponente come una maschera tragica, che è la direttrice dei bagni; Josie, proletaria disperata e puttanella, resa in modo straordinariamente efficace, con alternarsi di vive emozioni, da Patti Love;
la vecchia signora Meadows, stralunata ed angosciata da una figlia Dawn, non in grado di badare a se stessa, e Celia, un’inserviente.
L’azione appena si rapprende attorno ad un fatto: la decisione presa dall’alto di chiudere i bagni per costruire alloro posto un centro culturale.
Le donne si organizzano e con una mobilitazione riescono ad ottenere la proroga del provvedimento.
Quello che conta non è però la vicenda, ma la descrizione delle atmosfere rese rarefatte e levigate dalla bella fotografia, preziosa, di Christopher Challis; la ricerca psicologica sui volti e sui gesti, sui dettagli eloquenti.
La macchina da presa va alla ricerca degli effetti sulle superfici di marmo, tra gli sbuffi di vapore, nei riflessi dell’acqua della piscina.
La musica di Richard Harvey è appena una sottolineatura, usata con sapienza: brevi frasi al sintetizzatore con effetti, non a caso, di chiaroscuri sonori.
Una caduta nel finale, quando il tripudio delle donne vittoriose è descritto senza ironia né buon gusto.
Ma che importa? Sono tre minuti soltanto.

16 – Agosto ‘85

giovedì, 1 agosto 1985

Les Grands Ballets Canadiens

Attesa da tanti è arrivata a Spoleto quella danza, per antonomasia, che noi amiamo assai poco.
L’amiamo poco soprattutto quando è offerta in condizioni così trascurate, quando la musica è maltrattata e umiliata da riproduzioni pessime e si aggiunge come elemento estraneo.
Non ci piacciono proprio questi balletti in play back; lo spettacolo di danza deve venire costruendosi come unità inscindibile di gesto e di musica.
È disumano pensare che chi balla debba confrontarsi con un riproduttore meccanico, che non può comunque mettersi in sin toni a con i suoi sentimenti di quel momento, con il suo modo di esprimere i contenuti della coreografia e della musica.
Manca insomma la meraviglia di un impasto che si realizza, ogni volta irripetibilmente nuovo, sensibile anche al messaggio che viene dal pubblico.
I danzatori di questi Grands Ballets Canadiens presentano due programmi diversi, a sere alterne.
Noi abbiamo potuto seguire il Concerto Barocco, In Paradisum e Carmina Burana.
Concerto Barocco è una coreografia di Balanchine del 1940 sul Concerto in re minore per due violini di J.S. Bach, si rifà quindi a una concezione piuttosto accademica della danza e necessita, per risaltare, di esecuzioni perfette; ma i danzatori, non certo aiutati dalla pessima riproduzione musicale che rendeva tutte le note calanti, dovevano inseguire le tracce dei propri passi affidandosi soltanto alla memoria, per cui risultavano spesso fuori tempo, dando l’impressione di eseguire movimenti scoordinati tra di loro e privi di significato. .
La coreografia di James Kudelka per il balletto In Paradisum, su musiche di Michael J. Baker è molto più recente (1983). Ingenuamente simbolista intende esprimere le vicende del paese dei morti.
Tutto un aggrovigliarsi, contorcersi, lasciarsi e ritrovarsi, che suggestiona molto le anime semplici degli spettatori; ma che, a parte qualche efficace figura d’insieme e qualche passaggio ben eseguito, si ripete troppo ed è reso confuso dallo svolazzare delle lunghe gonne scure realizzate dal costumi sta Denis Joffre; la musica di Baker ha tutti i difetti della povertà di idee e della ripetitività stucchevole.
La terza parte, Carmina Burana, si basa, oltre che sulle splendide musiche di Orff, su di una coreografia di Fernand Nault che risale al 1966, arricchita dai costumi di François Barbeau e dalle scene di Robert Prévost, di buon effetto, dà la possibilità, per l’ampiezza dello svolgimento, di esternare tutto il patrimonio acquisito dalla compagnia, che ci pare però caratterizzato da scarsa originalità, e mancanza di una tradizione solidamente fondata. Ne risentono i danzatori, che paiono indecisi tra le scelte decisamente nuove e reminiscenze accademiche; così che risultano spesso imprecisi e poco comunicativi.

16 – Agosto ‘85

giovedì, 1 agosto 1985

Concerto di mezzogiorno del 3 luglio

Mercoledì tre luglio il concerto di mezzogiorno era a cura del Maestro Menotti e si è aperto con una bellissima interpretazione della Sonata in do minore 30 n. 2 di L. Van Beethoven eseguita al violino da Henry Gronnier e da Anne Marie Ghirardelly al pianoforte.

In questa sonata non c’è un mattatore; i due strumenti dialogano e talvolta lottano in un perfetto equilibrio di impasti sonori.

Una semplice affermazione del pianoforte è ripresa dal violino e i due proseguono stringendosi e lasciandosi continuamente, limpido il violino, giustamente protervo il pianoforte.

Nello splendido secondo tempo, che ci commuove sempre, un ampio tema, che ha la dolcezza e la profondità di una preghiera, passa dal pianoforte al violino, che lo espone con struggente perfezione; seguono le scale angosciose del pianoforte; il tema compare e ricompare, frammisto ad altri pensieri, di un’altissima intensità; infine tutto si placa sulla tonica del pianoforte e sul lieve e intonatissimo bicorde del violino.

Dopo il bel dialogo ironico e saltellante del terzo tempo, nel quarto movimento il violino sprigiona tutta la sua forza; mai però con sonorità eccessive, in un bell’abbraccio col pianoforte, che gli si confronta con altrettanta concisione.

L’altro protagonista è stato il pianista Alan Kogosowski che ha eseguito brani di Chopin: il Notturno in mi minore opus postumum e quello in re bemolle op. 27, la Ballata in sol minore op. 23 e la Grande Polacca Brillante op. 22.

Questo giovane pianista riesce ad unire ad una tenera e appassionata cantabilità un virtuosismo brillante e travolgente; ma gli interessano, soprattutto, i chiaroscuri, che sono stati, ovviamente, più evidenti nella ballata e nella polacca.

La mano destra porgeva le belle melodie di Chopin con sonorità sensuali; vorremmo consigliargli, però, di controllare di più la mano sinistra, che, se pur precisa e sciolta, suona un po’ troppo forte.

Concerto .di mezzogiorno del 5 luglio

Il secondo dei concerti di mezzogiorno a cura del Maestro Menotti è stato un po’ mastodontico; però la musica era così bella e così ben eseguita che il tempo è volato e soltanto il gorgoglìo dello stomaco ci ha fatto avvertire che l’ora solita era passata.

Per primo, Siegfried Palm ha eseguito la Suite n. 2 per violoncello di J. S. Bach (e non ci è dispiaciuto l’averla ascoltata solo il giorno prima nella eccellente esecuzione di Colin Carr).

Palm ha iniziato con profonda ed equilibrata austerità; le sonorità del suo violoncello erano bellissime, intense e, talvolta, ovattate, con l’inserimento di un momento galante, incastonato come un gioiello nel mezzo del brano.

Paolo Bordoni, al pianoforte, ha poi attaccato con piglio giovanilmente deciso la Valse noble et séntimentale di F. Schubert, sviluppandone con buona fluidità la ricchezza di sentimenti, appena irrigidito, qua e là, da una precisione un po’ scolastica e ritrovando nel finale la decisione dell’inizio.

Pianoforte e violoncello hanno successivamente affrontato insieme la Sonata n. 1 in mi minore di J. Brahms, in modo egregio.

Il violoncello ha enunciato il primo tema con splendida cantabilità, cui ha fatto seguire accenti energici e drammatici, sostenendo, fino a tutto il terzo tempo, il ruolo di protagonista; senza però che il pianoforte si limitasse ad essere accompagnatore passivo.

Nel quarto tempo, dalla struttura contrappuntistica, i due strumenti si sono confrontati, in un buon rapporto dinamico ed espressivo.

Il concerto si è concluso con un finale tutto schubertiano: prima con la bella voce del basso Gregory Stapp, accompagnato dalla moglie Marcie al pianoforte, che ha cantato in modo ineccepibile i lieder Der Wanderer e Doppelgiinger.

Con grande piacere abbiamo visto infine i ragazzi del Westminster Choir prendere posto sul palco del Caio Melisso per eseguire, sempre di Schubert, Nachthelle. È stato un momento di emozione: le loro belle voci virili, sonorissime e musicali, avvolgevano quella giovane, gradevole e un po’ acerba del tenore Jonathan Green in un suggestivo dialogo.

Li dirigeva Joseph Flummerfelt e li accompagnava al pianoforte Glenn Parker.

Concerto di musica contemporanea

È molto encomiabile l’iniziativa di un concerto tutto dedicato alla musica contemporanea, anche se noi abbiamo l’impressione (ma questo è un processo alle intenzioni) che si tratti di un episodio di ghettizzazione.

A parte questa piccola cattiveria, riteniamo che sia sempre positivo avere il coraggio di proporre, ai non specialisti, la musica che i compositori di oggi creano e che è frutto spesso di faticose ricerche e seri studi. È inutile affrontare adesso l’argomento del linguaggio della musica contemporanea; la cosa più importante è scriverla, eseguirla, ascoltarla e discuterne.

Nel concerto di domenica sette luglio il direttore Spiros Argiris ha diretto la Spoleto Festival Orchestra nell’esecuzione di cinque composizioni di autori diversi. Diciamo subito che la conduzione è stata quanto mai corretta e attenta.

Ben tre brani richiedevano l’impiego di solisti: il violoncellista Siegfried Palm, che è stato perfetto; il pianista Paolo Bordoni, che ha dato un’ottima prestazione, sia in duo col violoncello, sia da solo; e il soprano Claudine Duprat, dalla voce duttile e precisa.

Prima l’orchestra esegue Tropoi, del compositore greco Dimitri Terzakis. Gli archi attaccano subito, con una melodia di sapore modale e un lungo bordone di contrabbassi, cui si contrappongono percussioni e fiati. Il discorso va poi disfacendosi nella ricerca di una comune direzione. Le percussioni con il gong e i fiati, hanno la meglio; succede un nuovo disorientamento e, dopo un episodio ritmico, quasi di jazz primitivo, ritorna la meditazione delle note lunghe e tenute, un po’ esasperanti: sottili dissonanze che si disciolgono in altre dissonanze. Un brano di indubbia efficacia.

Un boato dà inizio a Liaison, di Rolf Liebermann, per violoncello, pianoforte e orchestra.

Ci sono troppe sonorità da film giallo; ma, soprattutto, nonostante ostentati richiami ai moduli dei solisti, l’orchestra rimane rinchiusa in un discorso autonomo; inoltre è usata male: serie di note, formano gestalten banali e ritrite.

Migliore è il lavoro cameristico dei due solisti; bella una situazione del violoncello, che è quasi una cadenza di concerto classico, da cui scaturiscono però brutti accordi del pianoforte. Tutto sommato, una composizione senza unità e con troppe idee scontate.

Clair de lune, per pianoforte e orchestra, op. 25, di Salvatore Sciarrino è gradevole e smaccatamente descrittivo: le varie famiglie di strumenti riproducono il brulicare della notte, con suoni onomatopeici; tintinnanti arpeggi del pianoforte vogliono palesemente essere raggi di luna.

In tutto il brano c’è una consequenzialità logica e strutturale e i vari piani sonori si stratificano con coerenza.

Sarah, di Paul Uy per soprano e orchestra, con testo di Gaston Compère, si articola in quattro momenti di bella vocalità, in cui la voce è usata in modo assolutamente tradizionale.

Il primo, Je serai reine, è una melodia tesa, con alcune intensità espressioniste; gli succede Le mythe, ampio e gradevole canto di cui fanno eco distorta prima gli archi, e, poi, tutta l’orchestra; Vertiges è un vero e proprio recitativo in dialettica tensione con l’orchestra; l’ultimo brano, Adieu, ripropone su sonorità cupe una nuova, ampia frase musicale che diventa ripetitiva, quasi monotona. L’insieme è di buona fattura, forse non di grande originalità.

La musica di Wolfgang Rihm, Schwarzer und roter Tanz, è proprio scritta pour epatér les bougeois; si nota un uso sapiente dell’orchestra, ma con troppi effettacci, alcuni dei quali di cattivo gusto.

Il ritmo è quello di una danza ossessiva: dapprima gli archetti dei contrabbassi, battuti sugli strumenti, accompagnano ripetute cellule sonore dei violoncelli; poi, passando per Bartok e Strawinsky, si giunge ad un bruttissimo finale, con dissonanze sgradevoli e gratuite.

Le musiche che abbiamo ascoltato erano, secondo noi, alcune belle, altre mal costruite, però siamo rimasti aggrappati al velluto del nostro palchetto per tutto il tempo, con il fiato sospeso.

In testa, insieme con i suoni, ruotavano miriadi di pensieri: discorsi estetici, tecnici e personali.

Ascoltare un compositore di oggi, per noi, è sempre emotivamente coinvolgente e ci domandiamo: «Perché lui ha fatto quella scelta? Perché ha rinunciato a quell’altra possibilità? E noi che cosa facciamo?».

E poi ascoltavamo il pubblico: momenti di stanchezza e di noia, con parlottii e raschiamenti di gola.

Poi, ancora, momenti magici di silenzio assoluto; e noi pensavamo: «Ecco adesso capiscono».

Forse questa è la strada per riuscire a comunicare, per non rimanere soli con un linguaggio artificiale e corporativistico (per non rimanere neppure ancorati ad un passato splendido, ma che è irrimediabilmente trascorso.

O invece bisogna rimanere legati a quel passato? Qual è il linguaggio musicale che nella nostra cultura, il bambino introietta fin dalla nascita? La mamma canta melodie che si basano sulla dominante, sottodominante, sensibile e tonica.

Questa è una prigionia? È giusto ribellarsi a questo linguaggio? È corretto seguire Webern, Schoenberg, Boulez, Cage? Se abbiamo introiettato la scala diatonica, anche i compositori all’avanguardia fischiettano melodie costruite su queste mentre si fanno la barba o si passano rossetto sulle labbra, in bagno, è giusto che tradiscano la loro nudità?

16 – Agosto ‘85

giovedì, 1 agosto 1985

Leoncillo

Il Consorzio Economico Urbanistico per i Beni Culturali del Comprensorio Spoletino ha allestito in una sala dell’ Appartamento Piccolomini, alla Rocca, una mostra dedicata a un’opera dello scultore spoletino Leoncillo (Leoncillo Leonardi, Spoleto 1915 – Roma 1968). L’opera di cui si tratta è la Partigiana veneta, monumento in ceramica policroma, originariamente collocata nei Giardini di Castello, a Venezia. La Partigiana ebbe fin da subito una storia travagliata: l’autore dovette modificarla, su pressioni esterne e, dopo quattro anni dalla sua sistemazione, un attentato fascista la distrusse, il 27 giugno 1961.
Dalle fotografie e dal bozzetto è difficile valutare l’esito artistico della scultura. A noi pare di vederci soprattutto un pregio: la più assoluta mancanza di retorica, in cui, dato l’argomento, sarebbe stato invece facile cadere. Ci è parso anche di percepire un limite: l’assenza di eroismo, che non necessariamente si esprime attraverso la retorica. Pensiamo che il compromesso scelto dall’autore, tra il realismo espressivo e l’astrattismo informale, abbia ottenuto il risultato di. rattrappire e rendere scialba la figura.
La cosa che ci ha dato l’emozione più intensa è stata la documentazione fotografica. sui resti del monumento. Questo è il vero significato della mostra: una condanna definitiva della barbarie.

Licata

Lungo le pareti dello scalone d’onore del Palazzo Comunale di Spoleto sono esposte le opere di Riccardo Licata, nato a Torino nel 1929. Una serie di tele che sono un inno alla noia e alla banalità.
La ripetitività insulsa, monotona, di qualunque gesto produce noia e in questi quadri si ripete la stessa piccola ideuzza di un grafismo che traccia segni variamente colorati che si inseguono su larghe bande, con andamento per lo più orizzontale, quasi a suggerire il ricordo di antiche scritture, vagamente orientali oppure, più precisamente, egizie.
La banalità sorge dai gesti scontati e prevedibili, che, a loro volta, divengono noia. L’arte di Licata oscilla tra questi due poli e tutti gli sproloqui pseudo-culturali che su di essa si possono fare servono soltanto a sottolinearne l’inutilità. L’artista deve dire quello che pensa, compromettersi, rischiare, sforzandosi di farsi capire attraverso l’arte sua; ma dipingendo, parlando e scrivendo Riccardo Licata rischia solo il ridicolo.

Ororvieto

iCon spirito di bella collaborazione tra i due Comuni è stata allestita a Palazzo Ancaiani di Spoleto, la mostra Ororvieto, che riunisce documentazioni e reperti dell’antica arte umbra provenienti dal museo dell’Opera del Duomo di Orvieto e pregevoli esempi dell’artigianato orafo contemporaneo di quella città, con l’aggiunta di un Omaggio a Maurizio Ravelli, artigiano del metallo orvietano da poco scomparso.
Anche con la successione delle sale la mostra vuole suggerire la linea ideale di continuità tra i capolavori del passato e le opere dei maestri orafi di oggi. Diapositive, frammenti di ceramiche, gioielli, offrono un panorama coerente di questo stile umbro, che raggiunge risultati preziosi, pur rifuggendo da ogni esteriorità.

Moseid

Se Penelope non avesse mai disfatto la tela tessuta nei lunghi anni di attesa di Odisseo avrebbe probabilmente ottenuto lo stesso risultato di Moseid, artista norvegese di sessantasette anni, anche ceramista ti vetraio, che espone nelle sale di Palazzo Rosari Spada il suo Orpheus, un grande fregio ricamato della lunghezza di ben cinquanta metri. La mostra è patrocinata dal comune di Spoleto.
Non solo il soggetto e le dimensioni della tela fanno pensare a Penelope, ma anche l’atmosfera che si respira davanti a quest’opera, che ha un che di ingenuo e sempliciotto, esprimendo bene i sentimenti di una buona mamma di famiglia, magari una regina di terz’ordine, che di notte si annoia. Quella che scaturisce dall’ago è una storia piena di ricordi di una cultura da scuole medie superiori frequentate tempo addietro: suggestioni della Grecia arcaica e alessandrina, miti filtrati dalla poesia tardoromantica, tracce di immagini viste non si sa dove del secessionismo e Klimt in particolare.
Lungo il pannello si svolge la storia del divino cantore e del suo amore per Euridice; i fili colorati formano le erbe e i fiori della natura germogliante, ma anche i lineamenti evanescenti di Flora, di Melpomene e di Ermes. Il fondo si fa di un cupo violetto e i fili colorati diventano fluorescenti nell’ Ade, affollato di Spiriti dove abita la Regina della Notte (quasi una reminiscenza mozartiana) insieme con Persefone e il suo sposo e dove giunge Eros che conduce verso la chiara atmosfera di Eleusium e dove trionfano la Musica e l’Amore nel cui giardino irraggiato da mille fili multicolori finisce felicemente la vicenda.
È un percorso che si compie con lieve piacere; gradevoli sono anche alcuni arazzi di meno inconsuete dimensioni e in cui si leggono tracce del vetraio di cattedrali e del ceramista. Moseid è laborioso e paziente e le notti della Scandinavia sono lunghe e fredde!

Ex voto del Brasile

L’ Istituto Italo-Latino-Americano ha allestito in via Saffi una piccola e interessante mostra di ex voto provenienti dai santuari del Brasile. Anche attraverso gli ex voto è possibile leggere la testimonianza di una civiltà. Un popolo racconta le proprie paure e le proprie speranze. Si ringrazia la divinità per lo scampato pericolo, . per la malattia debellata; ma l’inconscio collettivo esplode rivelando tutti i suoi desideri inconfessati, le libidini proibite. In una piccola, ingenua, tavoletta di legno dipinta si condensa il momento finale di una storia drammatica. In questi disegni e in questi oggetti diventano concreti i fantasmi di un gruppo sociale. La divinità benigna sa tutto questo e non ha bisogno di capire; ma noi uomini abbiamo un’opportunità di capire e di capirci. Vi invitiamo ad addentrarvi in questa mostra come si entra in un sogno e vi accorgerete così di entrare davvero nei sogni di questa gente.

Nuove matite

In questi giorni è possibile vedere a Spoleto una mostra alquanto straordinaria, che è anche difficile reperire perché ha un carattere itinerante: ora in via Saffi, ora in via del Mercato, ma anche in diversi altri. punti del centro cittadino. È una mostra di disegni che alcuni ragazzini appendono sui muri delle case, mettendoli direttamente in vendita al prezzo di cinquecento lire l’uno (ma non fatevi spaventare dal prezzo, tanto c’è la possibilità dello sconto). Tra questi giovani pittori ne abbiamo notati due, di dieci e undici anni.
Luca Sabatini lavora principalmente con matite a cera. Ricordiamo una bella natura morta dalla articolata concezione compositiva che rivela una mano già sicura e una Signora in blu in cui l’intenso sguardo della donna è messo in risalto dallo sfondo bicolore, giallo e marrone, e da un accentuato gioco di chiaroscuro sui lineamenti del volto.
Francesco Ragni si avventura anche nell’informale geometrico e usa con sapienza gli effetti vivaci di colore, mostrandosi anche molto ricettivo a suggestioni esterne, come rivelano certi suoi cavalli alati. Parlare di questi ragazzi ci pare un modo di augurare un felice futuro artistico – e non solo all’antica città di Spoleto, già così ricca di passato e di presente

16 – Agosto ‘85

giovedì, 1 agosto 1985

Ristorarsi a Spoleto

L’arte culinaria non è culturalmente meno significativa di qualunque altra forma artistica. Spesso – come l’artista che compiace il committente per vendere di più – accade anche che il cuoco, non abbastanza stimolato da una clientela poco preparata ad apprezzare le raffinatezze di una buona cucina, ceda alla tentazione di tradire le proprie capacità e di essere indulgente con la propria onestà. Questo atteggiamento non danneggia solo le masse ebeti, diseducandole ancora di più; ma danneggia soprattutto la professionalità di un settore fondamentale per l’economia locale.
Per questo – e non per gioco – crediamo sia importante dire anche a Spoleto tutto quello che pensiamo. Lo possiamo fare in piena libertà, perché nessuno ci finanzia e nessuno ci raccomanda: entriamo nei ristoranti come anonimi clienti e come tali veniamo trattati, paghiamo i conti di tasca nostra ed esprimiamo in libertà il nostro parere. Si può non essere d’accordo con noi, ma non ci si può negare il diritto alla critica.

La Cantina del Torgiano

Percorrendo Fonte Secca, ci è accaduto di entrare in uno dei luoghi più belli e suggestivi che ci sia capitato di vedere in questi giorni a Spoleto. In un susseguirsi di archi e di colonne, volte e lucernari si offriva ai nostri occhi una complessa pagina di architettura. Gli elementi decorativi risaltavano, anche perché le poche pennellate di calce bianca e il pavimento di ghiaia riportata non alteravano i volumi e gli equilibri originari. In questo posto stupendo è ospitata La Cantina del Torgiano. Data l’impostazione piuttosto promozionale, non speravamo in nulla di inaspettato. Sorprendente invece fu la bontà delle cose che ci vedemmo offrire: una zuppa di fagioli e cotiche, gustosissima; una puré di fave con crostini all’aglio, davvero eccellente; una pizza bianca al rosmarino, fragrante e leggerissima e, infine, un pecorino dolce e saporito. Ovviamente, i vini erano quelli sostenuto preannunciati dall’insegna, che, bisogna pur dire, sono di grande rispetto.
È un vero peccato che tali deliziosi spuntini si possano gustare qui solo nel periodo del Festiva!. I prezzi non sono proprio bassi, ma neanche eccessivi.

Il Grottino

L ‘ insegna dice: Il Grottino, Trattoria con giardino, dentro, al numero 27 di Via del Macello. Vecchio, dopo qualche gradino in discesa, una sala linda che poi si apre su di un cortiletto interno. La conduzione è famigliare. Il locale non è chiaramente di molte pretese, ma ciò non giustifica un menù così desolante, e la semplicità non significa squallore: un po’ di rispetto per il cliente bisogna pure averlo, anche se non si è un ristorante di lusso. Si incomincia con la solita bruschetta detta pomposamente al tartufo, ma che è malamente condita da quell’indefinibile pappetta che col tartufo ha una conoscenza quanto mai superficiale e che ritroviamo identica a condire gli spaghetti passati di cottura; sui tortellini industriali c’è un triste ragù sabbio setto e lento.
Le scaloppine ai funghi sono di carne di cattiva qualità, coperte da un intingolo scuro con aggiunta di champignons; la cotoletta alla parmigiana è un’impanata su cui è versato anche il ragù dei tortellini e formaggio grattuggiato. I vini bianco e rosso della casa erano l’uno solo acido e l’altro solo amaro, assolutamente imbevibili entrambi. Tutt’altro che famigliare il trattamento diviene al momento del conto, decisamente salato per tanta pochezza.

Il Pentagramma

Il ristorante Il Pentagramma di Via Mortari 4 ha chiare pretese in fatto di gastronomia: presenta un menù vario e una discreta scelta di vini. Chi fosse molto sprovveduto potrebbe così illudersi con facilità; ma invece, in questo amenissimo luogo – d’estate i tavoli si estendono anche all’aperto, su piazza della Libertà – si mangia abbastanza male. In cucina regna il pressapochismo; non c’è una preparazione, fra quelle che abbiamo provato, che rallegri veramente; i più elementari errori si affollano: gli strangozzi al tartufo hanno il solito condimentaccio, con una punta di amaro in più; quelli piccanti sono acquosi; gli gnocchi alla parigina sono un insipido semolino, i ravioli tartufati troppo unti e gli spaghetti al pomodoro hanno una neutralità da corsia d’ospedale; un piccolo capolavoro dell’assurdo realizza il risotto alla Michelangelo: un pastoncino impiastricciato di panna (che è inutile chiamare crema di latte, tanto è la stessa cosa), con scorzette di arancia, prosciutto sbriciolato ed erbette verdi, su cui domina un fondo dolce in modo veramente eccessivo. Coi secondi è anche peggio; la mousse di pesce non ha un buon profumo e manca di ogni leggerezza, densa e collosa; il vitello al forno, la grigliata mista, il prosciutto al cartoccio hanno consistenze non alimentari e i contorni sono eccezionalmente trascurati.
È invece apprezzabile, oltre alla correttezza del servizio, il livello della cantina; infatti si beve abbastanza bene: Trebbiano, Montefalco e Sagrantino, di buone marche e ben tenuti, peccato che al vino dolce si accompagnino biscottini duri come sassi. Il prezzo, non eccessivo, ma sostenuto rispetto alla media locale.

La Torricella

Su una bella terrazza che domina la vallata è piacevole sedere in una sera d’estate, guardando le luci di Spoleto, assaporando nell’attesa del pranzo il fresco Trebbiano Spoletino. Il ristorante La Torricella offre un’immagine di sé assai gradevole; oltre alla grande e fiorita terrazza, un salone luminoso a grandi vetrate, con tavoli apparecchiati con sobria grazia. Lo chef si fa vedere ornato dal suo simbolico copricapo, il cameriere e la giovane ragazza sono gentili e premurosi. Ma le aspettative sono destinate ad essere deluse, perché il cuoco, deliberatamente, non ha rispetto per la sua clientela, per cui, anche se sarebbe, forse, in grado di cucinare in modo diverso, propone u,n menù in cui sono riunite le più insipide ovvietà. Regina dell’ovvio ci è parsa la cattiva insalata suprema: un pastrocchio di salmone, caviale, asparagi, avocado, gamberetti, coperto di stucchevole salsa allo yogurt. Le bruschette al tartufo sono buone, ma la pasta degli strangozzi, sia o no fatta in casa, è rinsecchita e avvilisce il buon condimento. Le crèpes ai funghi distruggerebbero lo stomaco di uno struzzo tanto sono ricche di grassi, così che risulta difficile apprezzare il sapore dei funghi. Il filetto al pepe consiste in un gustoso pezzo di carne avvilito dal dolciastro intingolo di pepe e panna. Ridicola poi la zuppa inglese: viscido miscuglio con ananas. Un insulto alla rispettabilità il vinsanto offerto a fine pasto. Il conto è quasi il doppio di quello medio dei ristoranti cittadini, si esce amareggiati e col sospetto che il tutto sia premeditato.

Il Tartufo

Siamo ritornati più volte nel ristorante Il Tartufo di piazza Garibaldi, sia d’inverno sia durante la stagione del Festival, ci sentiamo quindi di esprimere un giudizio abbastanza fondato su questa cucina, che sembra accurata, ma che cela un grosso bluff gastronomico e sul servizio che pretende di essere compìto ed è invece funereo. La sala è con le pareti rivestite di lucido legno, illuminazione e arredamento ispirati ad un’idea non spiacevole di moderno designo A differenza di altri posti in cui dietro piatti sbagliati, si intravede un’impostazione professionale, qui, dietro la facciata accurata, si percepisce la più totale mancanza di capacità culinaria e i cibi, che nel piatto sembrano allettanti, risultano sgradevoli al palato. Prendiamo come esempio il menù «A modo nostro»: l’unica cosa appetibile sono i due crostini abbondantemente guarniti di tartufo; poi è la desolazione. Le tagliatelle al caviale e tartufo realizzano un abbinamento assurdo, nelle penne alle erbe sembra che qualcuno abbia lasciato cadere il vaso delle erbe medicinali, le uova strapazzate al tartufo e formaggio annegano nella acquosità eccessiva, le tre scaloppine: al salmone, alla senape e alle acciughe e capperi, veramente, non sono né carne né pesce. La crescionda, la zuppa inglese, il tiramisù e il salame al cioccolato non hanno personalità che li differenzi abbastanza l’uno dall’altro. Potremmo parlare di altri piatti assaggiati in occasioni diverse, ma non ci pare il caso, anche per non infierire. I vini della lista sono molti, ma nessuno che spicchi per caratteristiche eccezionali.
Il prezzo è veramente spropositato e non trova giustificazione né per la qualità, né per la quantità; inoltre dopo le ventitre c’è una maggiorazione sul costo del servizio.

Trattoria del Ponte

In un vicolo alle porte di Spoleto, abbiamo scoperto, per caso (ma poi abbiamo visto nei dintorni la grossa segnalazione) la Trattoria del Ponte di via Cerquiglia 4. È un posto rinnovato da poco, dove siamo stati accolti da un signore che malgrado l’apparenza ingenua si è poi rivelato di una raffinata astuzia, nel tenere fede al personaggio che andava creando per noi. Eravamo rassegnati e la semplicità del menù pareva confermare i nostri presagi; ma non fu così. La pasta degli strangozzi era fatta in casa ed era, questa volta davvero, condita con abbondante tartufo nero – magari estivo – profumatissimo, che, trattato con perizia e senza avarizia o vischiose aggiunte, serbava tutta la sua ricchezza di gusto; altrettanto eccezionale il sugo piccante, un’armonia di sapori esaltati e non sopraffatti dal piccante. Eccellenti le carni e gustosi i sughi, sia del coniglio alla cacciatora sia dello spezzatino d’agnello. Rustiche e sapide le melanzane al funghetto. Il nostro simpatico oste ci ha servito con rammarico due semifreddi, anodini, di piccolo artigianato e si è riservato la rivincita.
È venuto il momento di parlare dei buonissimi vini che abbiamo bevuto: un Trebbiano spoletino fresco e aromatico, poi un ottimo Rosso di Montefalco di Spello ed infine la grande sorpresa: in una bottiglia ordinaria, senza etichetta, il nostro amico ha portato in tavola un Aleatico di sogno, dal bel colore rosso rubino intenso, limpido, di stoffa eccezionale, dai profumi e sapori persistenti e armonici; un nettare che abbiamo bevuto accompagnandolo con un buon ciambellone rustico.
Con discrezione intanto e per tutta la durata del pasto, l’oste ci ha parlato del suo modo di far cucina, dei suoi criteri in cantina, rivelando i tesori di un’arte acquisita con l’esperienza. Il prezzo è stato contenuto. Speriamo che questo angolo di buona cucina e di buona cantina non sia inquinato troppo presto dalle orde del turismo festivaliero ed estivo; noi quasi non avremmo voluto parlarne, per quel po’ di gelosia per i buoni posti; ma il dovere prima di tutto!

16 – Agosto ‘85

giovedì, 1 agosto 1985

Album Teatrale Italiano (Scrittori a teatro)

L’ iniziativa che riunisce in questo Album Teatrale Italiano quattro scrittori di grande notorietà alle prese con le scene, è senz’altro di grande interesse, anche indipendentemente dai risultati che le singole opere possono aver sortito. Ci pare che il teatro che ne è scaturito sia forse un po’ troppo di parola, per non dire di chiacchiera.

Il sicario e la signora

Il sicario e la signora è il titolo dell’atto unico di Leonardo Sciascia. Noi abbiamo per questo autore un grande rispetto, sia come romanziere, sia come impegnato uomo di cultura; ma siamo rimasti veramente delusi da questo suo lavoro teatrale; gli facevamo, infatti, credito di maggior buon gusto. Il testo è di una vacuità assoluta, privo inoltre della più elementare sensatezza teatrale. Persino l’idea, diciamo: narrativa, è di una banalità sconcertante. Una ricca signora borghese riceve il sicario che il marito ha pagato per ucciderla e lo convince, promettendogli di più, ad uccidere invece il marito stesso.
I due personaggi sono pressoché immobili per tutto il tempo, anche psicologicamente; parlano dicendo un cumulo di gratuite sciocchezze; non c’è sviluppo, non c’è tensione drammatica; il finale è scontato fin da subito. Il malcapitato regista, Giorgio Albertazzi, e i due attori che cosa mai potevano fare? Ecco allora la vieta trovatina di fare entrare il sicario dal fondo della sala, la voce narrante fuori campo e il rumore di un motore d’automobile che si allontana. La recitazione di Paola Bacci e Luigi Diberti è piatta e scialba: lui risulta un sicario molliccio, con la erre blesa; lei, che dovrebbe essere una signora furbissima, appare come una casalinga dalla voce e dai gesti opachi e sembra dissociarsi dal suo personaggio col gesto conclusivo di togliersi la parrucca bionda. Non capiamo perché, nel suo bozzetto scenico, Flaminia Petrucci abbia scelto di inserire il dipinto di Piero Dorazio e abbia ignorato l’indicazione dell’autore che prescrive sullo sfondo una grande carta geografica: era la sola buona idea, che rivela inoltre in Sciascia un promettente scenografo. Doverosamente banali i costumi di Diane von Fürstenberg.

La poltrona

La poltrona si intitola la brevissima commedia in due tempi di Natalia Ginzburg. Il testo è privo persino di un qualunque assennato filo conduttore, accozzando senza senso insieme tre personaggi: un marito arrabbiato, una moglie frustrata e una vicina invadente. Il fatto che la moglie ami la poltrona che ha voluto comprare dal fratello, rivela, forse, abissi di profondità psicoanalitica – l’incesto? -.
Nel primo atto, i tre personaggi si conoscono, nel salotto della coppia; nel secondo, alcuni anni dopo, la coppia si è sciolta e la vicina, che ha avuto il tempo di essere anche l’amante di lui, torna a trovarlo, mette un po’ d’ordine nel salotto sfatto, rievoca il passato e le piante seccate sul terrazzo, e se ne va, mentre lui sta cercando di ricordare qualcosa che le vorrebbe dire. Raccontato in poche parole, il tutto sembra avere, nella sua stralunatezza, una certa dignità; ma non è così: uno squallido dialogo realistico di quart’ordine, si ripete con monotonia, senza bizzarrie, senza fantasia, senza interesse alcuno e la noia pervade il tutto.
La regia di Mattia Sbragia ha puntato su di un tono giovanilistico e agitato, nel primo tempo; costernato e depresso, nella seconda parte.
La recitazione di Paola Bacci non ha la minima variazione di toni dall’inizio alla fine.
Isabella Martelli che ha la fortuna, essendo la moglie, di stare in scena un solo atto, esaurisce la sua recitazione in un muoversi concitato e gratuito.
Luigi Diberti delinea grossolanamente un personaggio prima in fase maniacale e poi depresso.
Flaminia Petrucci, che coinvolge questa volta Toti Scialoja nel suo bozzetto, ha idee solo grigie come i costumi di Diane von Fürstenberg.
Brevi squarci di musiche originali, composte da Antonio Coppola, leniscono, ogni tanto, la sofferenza degli spettatori.

La parola tagliata in bocca

Ci ha lasciati insospettatamente soddisfatti Enzo Siciliano, autore de La parola tagliata in bocca, un atto unico di buona fattura teatrale che è uno spigliato esempio di commedia boulévardière, con i colpi di scena al momento giusto, battute spiritose, serrate, inserite in una coerente architettura interna.
Non c’è da gridare al miracolo, ma chi ha scritto questo testo dimostra buon senso, tanto che quando sfiora qualche discorso troppo serio, se ne discosta subito, per non cadere nello sbrodolamento intellettualistico, che la commedia non sopporterebbe.
L’inizio è un po’ lento, vi è un sospetto di noia, di cui si capisce in seguito la funzionalità: due uomini, un professore universitario e il suo giovane assistente, chiacchierano di amene avventure e al professore sale l’ansia perché la moglie Irene ritarda.
Quando costei piomba in scena, irosa e aggressiva, dopo breve tergiversare, dichiara di essere tornata solo per fare la valigia e andarsene per sempre con qualcuno che ha conosciuto nei gabinetti di un autogrill. Il nuovo amore è una donna che l’ha travolta sensualmente e sentimentalmente. I due uomini restano esterrefatti. Irene, liberatasi del rospo e divenuta garrula, se ne riparte con la sua valigia. A questo punto si scopre che i due uomini sono amanti; ma che trovavano più gusto a doversi amare di nascosto da Irene. Li consolerà una canzonetta suonata sul grammofono. La regia, dello stesso Siciliano, è garbata: i tre caratteri sono evidenziati con cura e vivacità di tratti, soltanto, specialmente nella parte iniziale, si nota qualche pausa troppo lunga. I tre interpreti sono veramente bravi.
Su tutti primeggia Giorgio Crisafi, nei panni impacciati e sottilmente ironici dell’assistente; Massimo De Francovich è bravo nel ruolo del professore petulante, ansioso e depresso, con problemi gastroenterici; molto efficace l’interpretazione di Elisabetta Pozzi, sia nei momenti di furia, sia nelle sfumature frivole e beffarde. La Petrucci si serve questa volta di un brutto quadro di Mario Schifano, per dare tono a un bozzetto ovvio e la Fürstenberg veste con giusta mediocrità i personaggi.

L’angelo dell’informazione

Dichiariamo subito – per onestà – che non abbiamo mai nutrito alcuna stima né dell’opera narrativa di Alberto Moravia, che riteniamo scialba e inefficace, né della sua figura di intellettuale, perché consideriamo la sua consistenza culturale assai fragile. Già i suoi precedenti teatrali – da Il mondo è quello che è in poi – e le sue dilettantesche critiche cinematografiche, rivelano quanto poco capace egli sia di capire quali sono i requisiti richiesti a una qualunque forma di spettacolo; ora, con questo testo de L’angelo dell’informazione non fa che confermarlo.
Di teatrale non c’è proprio niente, la vicenda è immobile, basata su parole che, ora sono descrizione di giochini sessuali, ora affrontano il problema della verità e dell’informazione.
Le une semplice pornografia di infima qualità, senza erotismo; le altre fanno il verso a Pirandello e a Mc Luhan, con l’aggiunta di un po’ di spazzatura filosofica.
La storia è questa: Dirce, dopo aver appena fatto l’amore con il marito Matteo, gli dice che ha per amante un pilota di nome Vasco, che la prende tutto vestito, col coso di fuori, dietro una porta.
Poi va da costui e gli dice di essere rimasta incinta, ma grazie al marito.
Tornata dal marito, gli racconta dettagliatamente l’ultimo amplesso col pilota e comunica anche a lui di aspettare un bambino. Tutto finisce qui.
Ottima è stata la trasposizione scenica di tanta sconcezza goliardica.
Giorgio Albertazzi, anche regista oltre che interprete, ha dimostrato tutta la sua solida professionalità: i ritmi erano giusti, le intonazioni perfette; il suo personaggio è risultato insinuante, aggressivo, arrabbiato, geloso… etc. Pensiamo che, con la sua vitalità, sia riuscito ad animare anche i suoi compagni: una Ombretta Colli in gran forma e il giovane Walter Toschi, assai efficace nei panni del pilota membruto e televisivo.
Evidentemente, tutto quello che c’è di credibile nei personaggi è merito soltanto del regista e degli interpreti. Senza illustri contributi, il bozzetto scenico di Flaminia Petrucci ha mostrato la corda e i costumi di Diane von Fürstenberg hanno espresso il meglio con un paio di mutande a pois.
Una sola cosa ci ha dato più fastidio del testo, ed è stata la volgarità del pubblico – ovviamente ci riferiamo solo alla rappresentazione cui abbiamo assistito -, composto principalmente di uomini e donne attempati che gorgogliavano risatine fingendo di scandalizzarsi, con un atteggiamento laido, di tartufi rimpannucciati nei loro vestiti firmati.
Un dubbio, ancora, ci rimane: come faceva l’angelo a trovare i gigli fioriti anche a gennaio?