16 – Agosto ‘85

agosto , 1985

Il Barbiere di Siviglia

I l Barbiere di Siviglia, di Giovanni Paisiello, sul libretto che l’abate romano Giuseppe Petrosellini ricavò dall’omonima commedia di Beaumarchais, non è un’ opera molto rappresentata; oscurata dalle fortune dell’altro Barbiere, musicato da Rossini.

È stato quindi con vero interesse che abbiamo seguito questo allestimento presentato al Teatro Nuovo di Spoleto dal Teatro Petruzzelli di Bari.

Non vorremmo indugiare sui soliti paragoni tra Paisiello e Rossini, e tantomeno avventurarci in disquisizioni intorno alla figura di Figaro – tra le tante versioni del personaggio noi preferiamo quella mozartiana, che pur si rifà ad un’altra commedia, sempre di Beaumarchais, e che trascende tutti i personaggi dei Rossini e Paisiello di questo mondo! Il Barbiere di Paisiello è un’opera meravigliosa di per sé: è un gioiello che brilla di luce propria; pur essendo anche espressione di un mondo e di uno stile, non è infatti chiusa nei limiti dell’opera di genere, magari di buona fattura.

Paisiello compose l’opera nel 1782, durante il suo soggiorno in Russia, alla corte di Caterina II, dove aveva un posto di maestro di cappella, con un contratto che gli permetteva una grande libertà d’azione nelle proprie scelte artistiche.

Commissionò da Pietroburgo il libretto facendo pervenire per lettera le istruzioni al suo autore, con molte indicazioni.

Si è detto assai male del lavoro fatto da Petrosellini; in realtà il libretto, pur senza essere un capolavoro ha una sua dignità e offre molti buoni spunti per un compositore con talento per il teatro. I personaggi del teatro musicale sono quasi sempre descritti con parole che li rendono involucri, fantasmi indefiniti; è la musica che dà loro la fisionomia, il colore, il carattere. Se i versi del librettista aiutano, tanto meglio!

Così è capitato anche con il libretto di questo Barbiere. La musica è corpo e anima; persino i recitativi secchi – seppur non raggiungono i livelli di quelli mozartiani i quali sono musica perfetta che potrebbero al limite essere eseguiti anche da soli, in concerto – hanno impennate, sinuosità, cadenze d’inganno, cadenze evitate, non pedissequamente confezionate; e i recitativi accompagnati sfumano nelle arie, nei duetti, nei concertati.

Sempre originalissima, ma senza stranezze è musica di grande scioltezza, con belle melodie, tornite con cura, per far cantare i personaggi solisticamente; o con bellissimi concertati come quello del finale, che dimostrano una profondissima sapienza polifonica e teatrale allo stesso tempo.

Lo spettatore è condotto, quasi per mano attraverso tante situazioni emotive, da linee melodiche chiare, che confluiscono spesso in perfette architetture sonore. In alcuni momenti il rapporto armonico e melodico è così fluido, semplice e profondo, che ricorda atmosfere mozartiane. Le tonalità si susseguono con logica ferrea, ma non rigida. Non c’è mai un accompagnamento convenzionale. Spunti contrappuntistici, appena accennati, commentano talvolta, con arguzia, la vicenda. Un’ironia sottile pervade tutta la partitura, insieme con un’intensa e un po’ conturbante malinconia.

La vicenda si può riassumere per sommi capi: il conte D’Almaviva è innamorato di Rosina, che è tenuta sotto stretta sorveglianza dal suo tutore, il vecchio Don Bartolo, che vuole sP9sarla. Con l’aiuto del barbiere, Figaro, le fa la sua dichiarazione, dicendo le però di chiamarsi Lindoro. Con uno stratagemma suggerito da Figaro, Lindoro riesce ad introdursi in casa dell’amata, fingendosi un soldato munito di un’ordinanza d’alloggio.

Il vecchio riesce però a scacciarlo esibendo un certificato che lo dispensa da quel dovere.

Preoccupato dalle insidie che sente intorno a lui, Don Bartolo decide di sposare subito la ragazza e manda Don Basilio, maestro di musica di Rosina e faccendiere, a cercare un notaio. Ancora su consiglio di Figaro, Lindoro, travestito da abatino, entra in casa col pretesto di dover sostituire Don Basilio, malato, nella lezione di musica.

Il trucco viene scoperto; ma intanto Lindoro è riuscito a far ratificare il suo matrimonio con Rosina dal notaio sopraggiunto e, rivelandosi come il nobile conte D’Almaviva, impone anche il consenso di Don Bartolo.

L’edizione qui presentata raggiunge un livello davvero eccezionale: di rado si vede un’allestimento così unitario.

Direttore d’orchestra, scenografo, regista e interpreti hanno concordemente voluto immergersi in un’atmosfera fiabesca, quasi da teatrino di maschere, maschere che hanno, però un cuore caldo e appassionato.

L’ambiente settecentesco non è tradito; ma si è scelto un modo particolare di leggere il Settecento e quest’opera.

L’orchestra, ben amalgamata e duttile, ha ésposto fin dall’Ouverture, frasi musicali soffici, se pur precise; i punti di scansione erano evidenziati e smorzate le asperità buffonesche e questo è servito a introdurre il clima della storia.

Figaro , che non è il protagonista, perché forse quest’opera non ce l’ha, era interpretato dal baritono Roberto Coviello, una bella voce contenuta, un personaggio che fa capolino qua e là, più che essere il «factotum». Disincantato e un po’ cialtrone, . all’inizio sembra riempire tutta la scena, ma poi, lentamente, si tira in disparte, come per lasciar spazio ad altri personaggi, ad altri sentimenti, tanto che la stessa musica è poco personalizzata, in quanto deve fondersi sempre con quella degli altri, quasi ne fosse l’ombreggiatura.

Don Bartolo era il basso Giancarlo Ceccarini, corretto nell’interpretazione di un uomo consapevole fin dall’inizio dell’inevitabile sconfitta.

Forse, ha un po’ ecceduto nei toni sommessi. Per esempio nella bellissima e argutissima scena in cui vuol far confessare a Rosina di aver scritto un biglietto, osservando il dito macchiato d’inchiostro, è fin troppo rassegnato e, anche vocalmente, la musica suggerirebbe coloriti più intensi.

Il conte D’Almaviva era interpretato dal tenore Edoardo Gimenez, dalla bella voce calda. Si presenta con frasi scandite, quasi solfeggiando.

Un bell’effetto di straniamento, per un personaggio che si inserisce, estraneo, in un mondo non suo. Poi, man mano che si amalgama, seguendo il cangiare delle melodie, diviene seduttorio, ma anche bonario e un po’ ironico.

Il Don Basilio del basso Bruno Praticò ha realizzato più degli altri il «carattere» tipico, prescritto al personaggio dai canoni dell’opera buffa, con risultati eccellenti.

Eccezionale la Rosina di Patrizia Pace, sentimentale, accorata, talvolta sognante, come la principessa di una fiaba, tenera nel tentare i suoi piccoli sotterfugi, senza mai nessun accento da virago coi boccoli, di tanti personaggi femminili della commedia settecentesca; la sua voce era duttile, morbida, talvolta vibrante, certo, qua e là, con qualche pizzico di arguzia; fanno parte del carattere del pesonaggio anche le esitazioni.

Molto bravi anche il basso Giovanni Savoiardo e il tenore Maurizio Scardovi, nei ruoli minori.

Il direttore Marcello Viotti, con gesto preciso e attento, non lasciava andare perduta nessuna delle possibilità utili a evidenziare il tipo di lettura che si era dato dell’opera.

La regia di Maurizio Scaparro, coordinava le azioni, creando atmosfere sospese.

Strabiliante l’effetto delle scene di Emanuele Luzzati, e ci è sembrato che proprio da questa magica scatola blu, che a un certo punto si apre spandendo intorno fantasia e colore, nascesse e si costruisse tutto lo spettacolo. Perfetti i costumi di Santuzza Calì.

Opera Chuan di Sichuan

Anche lo spettacolo offerto dalla Chuan Opera del Sichuan rientra nel tipo di spettacolo che noi preferiamo, in cui sono presenti tutti i generi espressivi:

musica, danza, recitazione. L’opera cinese è antichissima e molto differenziata da regione a regione.

Nella regione del Sichuan si è affermata l’opera chiamata Chuan in cui ha grande importanza la parte musicale, che riassume gli antichi cinque generi, che prendevano denominazione dai cinque tipi di arie:

queste arie sono ora variamente presenti nel corso di una stessa opera.

Nella storia che abbiamo visto rappresentare: Il Serpente Bianco, una vicenda quanto mai complessa si articola in ben otto atti o scene che raccontano come Serpente Bianco, dopo aver lasciato per amore il Regno degli dèi celesti, si batta, aiutata in ciò da Serpente Verde, che per amore si è trasformato in schiava fedele, per difendere il suo amato marito Xuxian dall’ira degli dèi. Questo canovaccio risulta poi complicatissimo per la varietà dei personaggi, delle figure simboliche e delle trasformazioni che si inseriscono. Tutto sommato si tratta di uno spettacolo però facile: le scene sono essenziali e i costumi ricchissimi, i colori sono sempre molto vivaci, pieni di effetti. Se la scenografia fosse di un occidentale, si potrebbe dire che eccede nelle cineserie, ma qui tutto è autentico. Ogni attore sostiene il proprio personaggio, di creatura umana o divina, di genio benefico o malefico o addirittura di onda o di nuvola, prestandogli la totalità delle sue possibilità; sempre impegnato in un virtuosismo vocale o acrobatico.

La musica, erede di un patrimonio antichissimo e codificato” sembra assai semplice: talvolta è riconducibile ai toni di minore e maggiore. Ripete spesso brevi moduli cadenziali, facendoli ruotare su loro stessi; alcune melodie sono orecchiabilissime, con un leggero piglio da canzonetta. Non è difficile capire, almeno a grandi linee, gli elementi grammaticali e sintattici su cui il linguaggio si basa, in modo particolare dopo che qualche strumento ha esposto in successione alcuni gradi di qualche scala. Crediamo comunque che sia molto anche ciò che per la nostra comprensione è andato perduto.

L’esecuzione della piccola orchestra di fiati, percussioni e archi, con l’aggiunta di una voce femminile, ci è sembrata sciolta e precisa. La vocalità di ogni interprete ha espresso tutte le gamme possibili: dal canto pieno al recitativo, tenendo sempre presente l’obiettivo della massima musicalità.

Les Grands Ballets Canadiens

Attesa da tanti è arrivata a Spoleto quella danza, per antonomasia, che noi amiamo assai poco.

L’amiamo poco soprattutto quando è offerta in condizioni così trascurate, quando la musica è maltrattata e umiliata da riproduzioni pessime e si aggiunge come elemento estraneo.

Non ci piacciono proprio questi balletti in play back; lo spettacolo di danza deve venire costruendosi come unità inscindibile di gesto e di musica.

È disumano pensare che chi balla debba confrontarsi con un riproduttore meccanico, che non può comunque mettersi in sin toni a con i suoi sentimenti di quel momento, con il suo modo di esprimere i contenuti della coreografia e della musica.

Manca insomma la meraviglia di un impasto che si realizza, ogni volta irripetibilmente nuovo, sensibile anche al messaggio che viene dal pubblico.

I danzatori di questi Grands Ballets Canadiens presentano due programmi diversi, a sere alterne.

Noi abbiamo potuto seguire il Concerto Barocco, In Paradisum e Carmina Burana.

Concerto Barocco è una coreografia di Balanchine del 1940 sul Concerto in re minore per due violini di J.S. Bach, si rifà quindi a una concezione piuttosto accademica della danza e necessita, per risaltare, di esecuzioni perfette; ma i danzatori, non certo aiutati dalla pessima riproduzione musicale che rendeva tutte le note calanti, dovevano inseguire le tracce dei propri passi affidandosi soltanto alla memoria, per cui risultavano spesso fuori tempo, dando l’impressione di eseguire movimenti scoordinati tra di loro e privi di significato. .

La coreografia di James Kudelka per il balletto In Paradisum, su musiche di Michael J. Baker è molto più recente (1983). Ingenuamente simbolista intende esprimere le vicende del paese dei morti.

Tutto un aggrovigliarsi, contorcersi, lasciarsi e ritrovarsi, che suggestiona molto le anime semplici degli spettatori; ma che, a parte qualche efficace figura d’insieme e qualche passaggio ben eseguito, si ripete troppo ed è reso confuso dallo svolazzare delle lunghe gonne scure realizzate dal costumi sta Denis Joffre; la musica di Baker ha tutti i difetti della povertà di idee e della ripetitività stucchevole.

La terza parte, Carmina Burana, si basa, oltre che sulle splendide musiche di Orff, su di una coreografia di Fernand Nault che risale al 1966, arricchita dai costumi di François Barbeau e dalle scene di Robert Prévost, di buon effetto, dà la possibilità, per l’ampiezza dello svolgimento, di esternare tutto il patrimonio acquisito dalla compagnia, che ci pare però caratterizzato da scarsa originalità, e mancanza di una tradizione solidamente fondata. Ne risentono i danzatori, che paiono indecisi tra le scelte decisamente nuove e reminiscenze accademiche; così che risultano spesso imprecisi e poco comunicativi.