16 – Agosto ‘85

agosto , 1985

Album Teatrale Italiano (Scrittori a teatro)

L’ iniziativa che riunisce in questo Album Teatrale Italiano quattro scrittori di grande notorietà alle prese con le scene, è senz’altro di grande interesse, anche indipendentemente dai risultati che le singole opere possono aver sortito. Ci pare che il teatro che ne è scaturito sia forse un po’ troppo di parola, per non dire di chiacchiera.

Il sicario e la signora

Il sicario e la signora è il titolo dell’atto unico di Leonardo Sciascia. Noi abbiamo per questo autore un grande rispetto, sia come romanziere, sia come impegnato uomo di cultura; ma siamo rimasti veramente delusi da questo suo lavoro teatrale; gli facevamo, infatti, credito di maggior buon gusto. Il testo è di una vacuità assoluta, privo inoltre della più elementare sensatezza teatrale. Persino l’idea, diciamo: narrativa, è di una banalità sconcertante. Una ricca signora borghese riceve il sicario che il marito ha pagato per ucciderla e lo convince, promettendogli di più, ad uccidere invece il marito stesso.
I due personaggi sono pressoché immobili per tutto il tempo, anche psicologicamente; parlano dicendo un cumulo di gratuite sciocchezze; non c’è sviluppo, non c’è tensione drammatica; il finale è scontato fin da subito. Il malcapitato regista, Giorgio Albertazzi, e i due attori che cosa mai potevano fare? Ecco allora la vieta trovatina di fare entrare il sicario dal fondo della sala, la voce narrante fuori campo e il rumore di un motore d’automobile che si allontana. La recitazione di Paola Bacci e Luigi Diberti è piatta e scialba: lui risulta un sicario molliccio, con la erre blesa; lei, che dovrebbe essere una signora furbissima, appare come una casalinga dalla voce e dai gesti opachi e sembra dissociarsi dal suo personaggio col gesto conclusivo di togliersi la parrucca bionda. Non capiamo perché, nel suo bozzetto scenico, Flaminia Petrucci abbia scelto di inserire il dipinto di Piero Dorazio e abbia ignorato l’indicazione dell’autore che prescrive sullo sfondo una grande carta geografica: era la sola buona idea, che rivela inoltre in Sciascia un promettente scenografo. Doverosamente banali i costumi di Diane von Fürstenberg.

La poltrona

La poltrona si intitola la brevissima commedia in due tempi di Natalia Ginzburg. Il testo è privo persino di un qualunque assennato filo conduttore, accozzando senza senso insieme tre personaggi: un marito arrabbiato, una moglie frustrata e una vicina invadente. Il fatto che la moglie ami la poltrona che ha voluto comprare dal fratello, rivela, forse, abissi di profondità psicoanalitica – l’incesto? -.
Nel primo atto, i tre personaggi si conoscono, nel salotto della coppia; nel secondo, alcuni anni dopo, la coppia si è sciolta e la vicina, che ha avuto il tempo di essere anche l’amante di lui, torna a trovarlo, mette un po’ d’ordine nel salotto sfatto, rievoca il passato e le piante seccate sul terrazzo, e se ne va, mentre lui sta cercando di ricordare qualcosa che le vorrebbe dire. Raccontato in poche parole, il tutto sembra avere, nella sua stralunatezza, una certa dignità; ma non è così: uno squallido dialogo realistico di quart’ordine, si ripete con monotonia, senza bizzarrie, senza fantasia, senza interesse alcuno e la noia pervade il tutto.
La regia di Mattia Sbragia ha puntato su di un tono giovanilistico e agitato, nel primo tempo; costernato e depresso, nella seconda parte.
La recitazione di Paola Bacci non ha la minima variazione di toni dall’inizio alla fine.
Isabella Martelli che ha la fortuna, essendo la moglie, di stare in scena un solo atto, esaurisce la sua recitazione in un muoversi concitato e gratuito.
Luigi Diberti delinea grossolanamente un personaggio prima in fase maniacale e poi depresso.
Flaminia Petrucci, che coinvolge questa volta Toti Scialoja nel suo bozzetto, ha idee solo grigie come i costumi di Diane von Fürstenberg.
Brevi squarci di musiche originali, composte da Antonio Coppola, leniscono, ogni tanto, la sofferenza degli spettatori.

La parola tagliata in bocca

Ci ha lasciati insospettatamente soddisfatti Enzo Siciliano, autore de La parola tagliata in bocca, un atto unico di buona fattura teatrale che è uno spigliato esempio di commedia boulévardière, con i colpi di scena al momento giusto, battute spiritose, serrate, inserite in una coerente architettura interna.
Non c’è da gridare al miracolo, ma chi ha scritto questo testo dimostra buon senso, tanto che quando sfiora qualche discorso troppo serio, se ne discosta subito, per non cadere nello sbrodolamento intellettualistico, che la commedia non sopporterebbe.
L’inizio è un po’ lento, vi è un sospetto di noia, di cui si capisce in seguito la funzionalità: due uomini, un professore universitario e il suo giovane assistente, chiacchierano di amene avventure e al professore sale l’ansia perché la moglie Irene ritarda.
Quando costei piomba in scena, irosa e aggressiva, dopo breve tergiversare, dichiara di essere tornata solo per fare la valigia e andarsene per sempre con qualcuno che ha conosciuto nei gabinetti di un autogrill. Il nuovo amore è una donna che l’ha travolta sensualmente e sentimentalmente. I due uomini restano esterrefatti. Irene, liberatasi del rospo e divenuta garrula, se ne riparte con la sua valigia. A questo punto si scopre che i due uomini sono amanti; ma che trovavano più gusto a doversi amare di nascosto da Irene. Li consolerà una canzonetta suonata sul grammofono. La regia, dello stesso Siciliano, è garbata: i tre caratteri sono evidenziati con cura e vivacità di tratti, soltanto, specialmente nella parte iniziale, si nota qualche pausa troppo lunga. I tre interpreti sono veramente bravi.
Su tutti primeggia Giorgio Crisafi, nei panni impacciati e sottilmente ironici dell’assistente; Massimo De Francovich è bravo nel ruolo del professore petulante, ansioso e depresso, con problemi gastroenterici; molto efficace l’interpretazione di Elisabetta Pozzi, sia nei momenti di furia, sia nelle sfumature frivole e beffarde. La Petrucci si serve questa volta di un brutto quadro di Mario Schifano, per dare tono a un bozzetto ovvio e la Fürstenberg veste con giusta mediocrità i personaggi.

L’angelo dell’informazione

Dichiariamo subito – per onestà – che non abbiamo mai nutrito alcuna stima né dell’opera narrativa di Alberto Moravia, che riteniamo scialba e inefficace, né della sua figura di intellettuale, perché consideriamo la sua consistenza culturale assai fragile. Già i suoi precedenti teatrali – da Il mondo è quello che è in poi – e le sue dilettantesche critiche cinematografiche, rivelano quanto poco capace egli sia di capire quali sono i requisiti richiesti a una qualunque forma di spettacolo; ora, con questo testo de L’angelo dell’informazione non fa che confermarlo.
Di teatrale non c’è proprio niente, la vicenda è immobile, basata su parole che, ora sono descrizione di giochini sessuali, ora affrontano il problema della verità e dell’informazione.
Le une semplice pornografia di infima qualità, senza erotismo; le altre fanno il verso a Pirandello e a Mc Luhan, con l’aggiunta di un po’ di spazzatura filosofica.
La storia è questa: Dirce, dopo aver appena fatto l’amore con il marito Matteo, gli dice che ha per amante un pilota di nome Vasco, che la prende tutto vestito, col coso di fuori, dietro una porta.
Poi va da costui e gli dice di essere rimasta incinta, ma grazie al marito.
Tornata dal marito, gli racconta dettagliatamente l’ultimo amplesso col pilota e comunica anche a lui di aspettare un bambino. Tutto finisce qui.
Ottima è stata la trasposizione scenica di tanta sconcezza goliardica.
Giorgio Albertazzi, anche regista oltre che interprete, ha dimostrato tutta la sua solida professionalità: i ritmi erano giusti, le intonazioni perfette; il suo personaggio è risultato insinuante, aggressivo, arrabbiato, geloso… etc. Pensiamo che, con la sua vitalità, sia riuscito ad animare anche i suoi compagni: una Ombretta Colli in gran forma e il giovane Walter Toschi, assai efficace nei panni del pilota membruto e televisivo.
Evidentemente, tutto quello che c’è di credibile nei personaggi è merito soltanto del regista e degli interpreti. Senza illustri contributi, il bozzetto scenico di Flaminia Petrucci ha mostrato la corda e i costumi di Diane von Fürstenberg hanno espresso il meglio con un paio di mutande a pois.
Una sola cosa ci ha dato più fastidio del testo, ed è stata la volgarità del pubblico – ovviamente ci riferiamo solo alla rappresentazione cui abbiamo assistito -, composto principalmente di uomini e donne attempati che gorgogliavano risatine fingendo di scandalizzarsi, con un atteggiamento laido, di tartufi rimpannucciati nei loro vestiti firmati.
Un dubbio, ancora, ci rimane: come faceva l’angelo a trovare i gigli fioriti anche a gennaio?