16 – Agosto ‘85

agosto , 1985

Concerto di mezzogiorno del 3 luglio

Mercoledì tre luglio il concerto di mezzogiorno era a cura del Maestro Menotti e si è aperto con una bellissima interpretazione della Sonata in do minore 30 n. 2 di L. Van Beethoven eseguita al violino da Henry Gronnier e da Anne Marie Ghirardelly al pianoforte.

In questa sonata non c’è un mattatore; i due strumenti dialogano e talvolta lottano in un perfetto equilibrio di impasti sonori.

Una semplice affermazione del pianoforte è ripresa dal violino e i due proseguono stringendosi e lasciandosi continuamente, limpido il violino, giustamente protervo il pianoforte.

Nello splendido secondo tempo, che ci commuove sempre, un ampio tema, che ha la dolcezza e la profondità di una preghiera, passa dal pianoforte al violino, che lo espone con struggente perfezione; seguono le scale angosciose del pianoforte; il tema compare e ricompare, frammisto ad altri pensieri, di un’altissima intensità; infine tutto si placa sulla tonica del pianoforte e sul lieve e intonatissimo bicorde del violino.

Dopo il bel dialogo ironico e saltellante del terzo tempo, nel quarto movimento il violino sprigiona tutta la sua forza; mai però con sonorità eccessive, in un bell’abbraccio col pianoforte, che gli si confronta con altrettanta concisione.

L’altro protagonista è stato il pianista Alan Kogosowski che ha eseguito brani di Chopin: il Notturno in mi minore opus postumum e quello in re bemolle op. 27, la Ballata in sol minore op. 23 e la Grande Polacca Brillante op. 22.

Questo giovane pianista riesce ad unire ad una tenera e appassionata cantabilità un virtuosismo brillante e travolgente; ma gli interessano, soprattutto, i chiaroscuri, che sono stati, ovviamente, più evidenti nella ballata e nella polacca.

La mano destra porgeva le belle melodie di Chopin con sonorità sensuali; vorremmo consigliargli, però, di controllare di più la mano sinistra, che, se pur precisa e sciolta, suona un po’ troppo forte.

Concerto .di mezzogiorno del 5 luglio

Il secondo dei concerti di mezzogiorno a cura del Maestro Menotti è stato un po’ mastodontico; però la musica era così bella e così ben eseguita che il tempo è volato e soltanto il gorgoglìo dello stomaco ci ha fatto avvertire che l’ora solita era passata.

Per primo, Siegfried Palm ha eseguito la Suite n. 2 per violoncello di J. S. Bach (e non ci è dispiaciuto l’averla ascoltata solo il giorno prima nella eccellente esecuzione di Colin Carr).

Palm ha iniziato con profonda ed equilibrata austerità; le sonorità del suo violoncello erano bellissime, intense e, talvolta, ovattate, con l’inserimento di un momento galante, incastonato come un gioiello nel mezzo del brano.

Paolo Bordoni, al pianoforte, ha poi attaccato con piglio giovanilmente deciso la Valse noble et séntimentale di F. Schubert, sviluppandone con buona fluidità la ricchezza di sentimenti, appena irrigidito, qua e là, da una precisione un po’ scolastica e ritrovando nel finale la decisione dell’inizio.

Pianoforte e violoncello hanno successivamente affrontato insieme la Sonata n. 1 in mi minore di J. Brahms, in modo egregio.

Il violoncello ha enunciato il primo tema con splendida cantabilità, cui ha fatto seguire accenti energici e drammatici, sostenendo, fino a tutto il terzo tempo, il ruolo di protagonista; senza però che il pianoforte si limitasse ad essere accompagnatore passivo.

Nel quarto tempo, dalla struttura contrappuntistica, i due strumenti si sono confrontati, in un buon rapporto dinamico ed espressivo.

Il concerto si è concluso con un finale tutto schubertiano: prima con la bella voce del basso Gregory Stapp, accompagnato dalla moglie Marcie al pianoforte, che ha cantato in modo ineccepibile i lieder Der Wanderer e Doppelgiinger.

Con grande piacere abbiamo visto infine i ragazzi del Westminster Choir prendere posto sul palco del Caio Melisso per eseguire, sempre di Schubert, Nachthelle. È stato un momento di emozione: le loro belle voci virili, sonorissime e musicali, avvolgevano quella giovane, gradevole e un po’ acerba del tenore Jonathan Green in un suggestivo dialogo.

Li dirigeva Joseph Flummerfelt e li accompagnava al pianoforte Glenn Parker.

Concerto di musica contemporanea

È molto encomiabile l’iniziativa di un concerto tutto dedicato alla musica contemporanea, anche se noi abbiamo l’impressione (ma questo è un processo alle intenzioni) che si tratti di un episodio di ghettizzazione.

A parte questa piccola cattiveria, riteniamo che sia sempre positivo avere il coraggio di proporre, ai non specialisti, la musica che i compositori di oggi creano e che è frutto spesso di faticose ricerche e seri studi. È inutile affrontare adesso l’argomento del linguaggio della musica contemporanea; la cosa più importante è scriverla, eseguirla, ascoltarla e discuterne.

Nel concerto di domenica sette luglio il direttore Spiros Argiris ha diretto la Spoleto Festival Orchestra nell’esecuzione di cinque composizioni di autori diversi. Diciamo subito che la conduzione è stata quanto mai corretta e attenta.

Ben tre brani richiedevano l’impiego di solisti: il violoncellista Siegfried Palm, che è stato perfetto; il pianista Paolo Bordoni, che ha dato un’ottima prestazione, sia in duo col violoncello, sia da solo; e il soprano Claudine Duprat, dalla voce duttile e precisa.

Prima l’orchestra esegue Tropoi, del compositore greco Dimitri Terzakis. Gli archi attaccano subito, con una melodia di sapore modale e un lungo bordone di contrabbassi, cui si contrappongono percussioni e fiati. Il discorso va poi disfacendosi nella ricerca di una comune direzione. Le percussioni con il gong e i fiati, hanno la meglio; succede un nuovo disorientamento e, dopo un episodio ritmico, quasi di jazz primitivo, ritorna la meditazione delle note lunghe e tenute, un po’ esasperanti: sottili dissonanze che si disciolgono in altre dissonanze. Un brano di indubbia efficacia.

Un boato dà inizio a Liaison, di Rolf Liebermann, per violoncello, pianoforte e orchestra.

Ci sono troppe sonorità da film giallo; ma, soprattutto, nonostante ostentati richiami ai moduli dei solisti, l’orchestra rimane rinchiusa in un discorso autonomo; inoltre è usata male: serie di note, formano gestalten banali e ritrite.

Migliore è il lavoro cameristico dei due solisti; bella una situazione del violoncello, che è quasi una cadenza di concerto classico, da cui scaturiscono però brutti accordi del pianoforte. Tutto sommato, una composizione senza unità e con troppe idee scontate.

Clair de lune, per pianoforte e orchestra, op. 25, di Salvatore Sciarrino è gradevole e smaccatamente descrittivo: le varie famiglie di strumenti riproducono il brulicare della notte, con suoni onomatopeici; tintinnanti arpeggi del pianoforte vogliono palesemente essere raggi di luna.

In tutto il brano c’è una consequenzialità logica e strutturale e i vari piani sonori si stratificano con coerenza.

Sarah, di Paul Uy per soprano e orchestra, con testo di Gaston Compère, si articola in quattro momenti di bella vocalità, in cui la voce è usata in modo assolutamente tradizionale.

Il primo, Je serai reine, è una melodia tesa, con alcune intensità espressioniste; gli succede Le mythe, ampio e gradevole canto di cui fanno eco distorta prima gli archi, e, poi, tutta l’orchestra; Vertiges è un vero e proprio recitativo in dialettica tensione con l’orchestra; l’ultimo brano, Adieu, ripropone su sonorità cupe una nuova, ampia frase musicale che diventa ripetitiva, quasi monotona. L’insieme è di buona fattura, forse non di grande originalità.

La musica di Wolfgang Rihm, Schwarzer und roter Tanz, è proprio scritta pour epatér les bougeois; si nota un uso sapiente dell’orchestra, ma con troppi effettacci, alcuni dei quali di cattivo gusto.

Il ritmo è quello di una danza ossessiva: dapprima gli archetti dei contrabbassi, battuti sugli strumenti, accompagnano ripetute cellule sonore dei violoncelli; poi, passando per Bartok e Strawinsky, si giunge ad un bruttissimo finale, con dissonanze sgradevoli e gratuite.

Le musiche che abbiamo ascoltato erano, secondo noi, alcune belle, altre mal costruite, però siamo rimasti aggrappati al velluto del nostro palchetto per tutto il tempo, con il fiato sospeso.

In testa, insieme con i suoni, ruotavano miriadi di pensieri: discorsi estetici, tecnici e personali.

Ascoltare un compositore di oggi, per noi, è sempre emotivamente coinvolgente e ci domandiamo: «Perché lui ha fatto quella scelta? Perché ha rinunciato a quell’altra possibilità? E noi che cosa facciamo?».

E poi ascoltavamo il pubblico: momenti di stanchezza e di noia, con parlottii e raschiamenti di gola.

Poi, ancora, momenti magici di silenzio assoluto; e noi pensavamo: «Ecco adesso capiscono».

Forse questa è la strada per riuscire a comunicare, per non rimanere soli con un linguaggio artificiale e corporativistico (per non rimanere neppure ancorati ad un passato splendido, ma che è irrimediabilmente trascorso.

O invece bisogna rimanere legati a quel passato? Qual è il linguaggio musicale che nella nostra cultura, il bambino introietta fin dalla nascita? La mamma canta melodie che si basano sulla dominante, sottodominante, sensibile e tonica.

Questa è una prigionia? È giusto ribellarsi a questo linguaggio? È corretto seguire Webern, Schoenberg, Boulez, Cage? Se abbiamo introiettato la scala diatonica, anche i compositori all’avanguardia fischiettano melodie costruite su queste mentre si fanno la barba o si passano rossetto sulle labbra, in bagno, è giusto che tradiscano la loro nudità?