16 – Agosto ‘85

agosto , 1985

Ristorarsi a Spoleto

L’arte culinaria non è culturalmente meno significativa di qualunque altra forma artistica. Spesso – come l’artista che compiace il committente per vendere di più – accade anche che il cuoco, non abbastanza stimolato da una clientela poco preparata ad apprezzare le raffinatezze di una buona cucina, ceda alla tentazione di tradire le proprie capacità e di essere indulgente con la propria onestà. Questo atteggiamento non danneggia solo le masse ebeti, diseducandole ancora di più; ma danneggia soprattutto la professionalità di un settore fondamentale per l’economia locale.
Per questo – e non per gioco – crediamo sia importante dire anche a Spoleto tutto quello che pensiamo. Lo possiamo fare in piena libertà, perché nessuno ci finanzia e nessuno ci raccomanda: entriamo nei ristoranti come anonimi clienti e come tali veniamo trattati, paghiamo i conti di tasca nostra ed esprimiamo in libertà il nostro parere. Si può non essere d’accordo con noi, ma non ci si può negare il diritto alla critica.

La Cantina del Torgiano

Percorrendo Fonte Secca, ci è accaduto di entrare in uno dei luoghi più belli e suggestivi che ci sia capitato di vedere in questi giorni a Spoleto. In un susseguirsi di archi e di colonne, volte e lucernari si offriva ai nostri occhi una complessa pagina di architettura. Gli elementi decorativi risaltavano, anche perché le poche pennellate di calce bianca e il pavimento di ghiaia riportata non alteravano i volumi e gli equilibri originari. In questo posto stupendo è ospitata La Cantina del Torgiano. Data l’impostazione piuttosto promozionale, non speravamo in nulla di inaspettato. Sorprendente invece fu la bontà delle cose che ci vedemmo offrire: una zuppa di fagioli e cotiche, gustosissima; una puré di fave con crostini all’aglio, davvero eccellente; una pizza bianca al rosmarino, fragrante e leggerissima e, infine, un pecorino dolce e saporito. Ovviamente, i vini erano quelli sostenuto preannunciati dall’insegna, che, bisogna pur dire, sono di grande rispetto.
È un vero peccato che tali deliziosi spuntini si possano gustare qui solo nel periodo del Festiva!. I prezzi non sono proprio bassi, ma neanche eccessivi.

Il Grottino

L ‘ insegna dice: Il Grottino, Trattoria con giardino, dentro, al numero 27 di Via del Macello. Vecchio, dopo qualche gradino in discesa, una sala linda che poi si apre su di un cortiletto interno. La conduzione è famigliare. Il locale non è chiaramente di molte pretese, ma ciò non giustifica un menù così desolante, e la semplicità non significa squallore: un po’ di rispetto per il cliente bisogna pure averlo, anche se non si è un ristorante di lusso. Si incomincia con la solita bruschetta detta pomposamente al tartufo, ma che è malamente condita da quell’indefinibile pappetta che col tartufo ha una conoscenza quanto mai superficiale e che ritroviamo identica a condire gli spaghetti passati di cottura; sui tortellini industriali c’è un triste ragù sabbio setto e lento.
Le scaloppine ai funghi sono di carne di cattiva qualità, coperte da un intingolo scuro con aggiunta di champignons; la cotoletta alla parmigiana è un’impanata su cui è versato anche il ragù dei tortellini e formaggio grattuggiato. I vini bianco e rosso della casa erano l’uno solo acido e l’altro solo amaro, assolutamente imbevibili entrambi. Tutt’altro che famigliare il trattamento diviene al momento del conto, decisamente salato per tanta pochezza.

Il Pentagramma

Il ristorante Il Pentagramma di Via Mortari 4 ha chiare pretese in fatto di gastronomia: presenta un menù vario e una discreta scelta di vini. Chi fosse molto sprovveduto potrebbe così illudersi con facilità; ma invece, in questo amenissimo luogo – d’estate i tavoli si estendono anche all’aperto, su piazza della Libertà – si mangia abbastanza male. In cucina regna il pressapochismo; non c’è una preparazione, fra quelle che abbiamo provato, che rallegri veramente; i più elementari errori si affollano: gli strangozzi al tartufo hanno il solito condimentaccio, con una punta di amaro in più; quelli piccanti sono acquosi; gli gnocchi alla parigina sono un insipido semolino, i ravioli tartufati troppo unti e gli spaghetti al pomodoro hanno una neutralità da corsia d’ospedale; un piccolo capolavoro dell’assurdo realizza il risotto alla Michelangelo: un pastoncino impiastricciato di panna (che è inutile chiamare crema di latte, tanto è la stessa cosa), con scorzette di arancia, prosciutto sbriciolato ed erbette verdi, su cui domina un fondo dolce in modo veramente eccessivo. Coi secondi è anche peggio; la mousse di pesce non ha un buon profumo e manca di ogni leggerezza, densa e collosa; il vitello al forno, la grigliata mista, il prosciutto al cartoccio hanno consistenze non alimentari e i contorni sono eccezionalmente trascurati.
È invece apprezzabile, oltre alla correttezza del servizio, il livello della cantina; infatti si beve abbastanza bene: Trebbiano, Montefalco e Sagrantino, di buone marche e ben tenuti, peccato che al vino dolce si accompagnino biscottini duri come sassi. Il prezzo, non eccessivo, ma sostenuto rispetto alla media locale.

La Torricella

Su una bella terrazza che domina la vallata è piacevole sedere in una sera d’estate, guardando le luci di Spoleto, assaporando nell’attesa del pranzo il fresco Trebbiano Spoletino. Il ristorante La Torricella offre un’immagine di sé assai gradevole; oltre alla grande e fiorita terrazza, un salone luminoso a grandi vetrate, con tavoli apparecchiati con sobria grazia. Lo chef si fa vedere ornato dal suo simbolico copricapo, il cameriere e la giovane ragazza sono gentili e premurosi. Ma le aspettative sono destinate ad essere deluse, perché il cuoco, deliberatamente, non ha rispetto per la sua clientela, per cui, anche se sarebbe, forse, in grado di cucinare in modo diverso, propone u,n menù in cui sono riunite le più insipide ovvietà. Regina dell’ovvio ci è parsa la cattiva insalata suprema: un pastrocchio di salmone, caviale, asparagi, avocado, gamberetti, coperto di stucchevole salsa allo yogurt. Le bruschette al tartufo sono buone, ma la pasta degli strangozzi, sia o no fatta in casa, è rinsecchita e avvilisce il buon condimento. Le crèpes ai funghi distruggerebbero lo stomaco di uno struzzo tanto sono ricche di grassi, così che risulta difficile apprezzare il sapore dei funghi. Il filetto al pepe consiste in un gustoso pezzo di carne avvilito dal dolciastro intingolo di pepe e panna. Ridicola poi la zuppa inglese: viscido miscuglio con ananas. Un insulto alla rispettabilità il vinsanto offerto a fine pasto. Il conto è quasi il doppio di quello medio dei ristoranti cittadini, si esce amareggiati e col sospetto che il tutto sia premeditato.

Il Tartufo

Siamo ritornati più volte nel ristorante Il Tartufo di piazza Garibaldi, sia d’inverno sia durante la stagione del Festival, ci sentiamo quindi di esprimere un giudizio abbastanza fondato su questa cucina, che sembra accurata, ma che cela un grosso bluff gastronomico e sul servizio che pretende di essere compìto ed è invece funereo. La sala è con le pareti rivestite di lucido legno, illuminazione e arredamento ispirati ad un’idea non spiacevole di moderno designo A differenza di altri posti in cui dietro piatti sbagliati, si intravede un’impostazione professionale, qui, dietro la facciata accurata, si percepisce la più totale mancanza di capacità culinaria e i cibi, che nel piatto sembrano allettanti, risultano sgradevoli al palato. Prendiamo come esempio il menù «A modo nostro»: l’unica cosa appetibile sono i due crostini abbondantemente guarniti di tartufo; poi è la desolazione. Le tagliatelle al caviale e tartufo realizzano un abbinamento assurdo, nelle penne alle erbe sembra che qualcuno abbia lasciato cadere il vaso delle erbe medicinali, le uova strapazzate al tartufo e formaggio annegano nella acquosità eccessiva, le tre scaloppine: al salmone, alla senape e alle acciughe e capperi, veramente, non sono né carne né pesce. La crescionda, la zuppa inglese, il tiramisù e il salame al cioccolato non hanno personalità che li differenzi abbastanza l’uno dall’altro. Potremmo parlare di altri piatti assaggiati in occasioni diverse, ma non ci pare il caso, anche per non infierire. I vini della lista sono molti, ma nessuno che spicchi per caratteristiche eccezionali.
Il prezzo è veramente spropositato e non trova giustificazione né per la qualità, né per la quantità; inoltre dopo le ventitre c’è una maggiorazione sul costo del servizio.

Trattoria del Ponte

In un vicolo alle porte di Spoleto, abbiamo scoperto, per caso (ma poi abbiamo visto nei dintorni la grossa segnalazione) la Trattoria del Ponte di via Cerquiglia 4. È un posto rinnovato da poco, dove siamo stati accolti da un signore che malgrado l’apparenza ingenua si è poi rivelato di una raffinata astuzia, nel tenere fede al personaggio che andava creando per noi. Eravamo rassegnati e la semplicità del menù pareva confermare i nostri presagi; ma non fu così. La pasta degli strangozzi era fatta in casa ed era, questa volta davvero, condita con abbondante tartufo nero – magari estivo – profumatissimo, che, trattato con perizia e senza avarizia o vischiose aggiunte, serbava tutta la sua ricchezza di gusto; altrettanto eccezionale il sugo piccante, un’armonia di sapori esaltati e non sopraffatti dal piccante. Eccellenti le carni e gustosi i sughi, sia del coniglio alla cacciatora sia dello spezzatino d’agnello. Rustiche e sapide le melanzane al funghetto. Il nostro simpatico oste ci ha servito con rammarico due semifreddi, anodini, di piccolo artigianato e si è riservato la rivincita.
È venuto il momento di parlare dei buonissimi vini che abbiamo bevuto: un Trebbiano spoletino fresco e aromatico, poi un ottimo Rosso di Montefalco di Spello ed infine la grande sorpresa: in una bottiglia ordinaria, senza etichetta, il nostro amico ha portato in tavola un Aleatico di sogno, dal bel colore rosso rubino intenso, limpido, di stoffa eccezionale, dai profumi e sapori persistenti e armonici; un nettare che abbiamo bevuto accompagnandolo con un buon ciambellone rustico.
Con discrezione intanto e per tutta la durata del pasto, l’oste ci ha parlato del suo modo di far cucina, dei suoi criteri in cantina, rivelando i tesori di un’arte acquisita con l’esperienza. Il prezzo è stato contenuto. Speriamo che questo angolo di buona cucina e di buona cantina non sia inquinato troppo presto dalle orde del turismo festivaliero ed estivo; noi quasi non avremmo voluto parlarne, per quel po’ di gelosia per i buoni posti; ma il dovere prima di tutto!