L’altro giorno siamo tornati a casa un po’ immalinconiti, dopo un pranzo Al Moro di vicolo delle Bollette. La strada ha l’atmosfera meravigliosa e suggestiva di tutte le stradine della vecchia Roma; ma, come si apre la porta scorrevole e si entra nei ristorante, un che di scostante vi assale: salettine anguste e inospitali per l’eccessivo affollamento di minuscoli tavolini su cui fanno ingombro non solo gli immancabili posacenere, ma anche i ributtanti contenitori di stuzzicadenti. Seduti ai tavoli, gomito contro costole, numerosi vice-capi ufficio, ulcerosi sottoburocrati della politica e della finanza, grigi nel vestivo e giallastri nel colorito e qualche turista dirottato dalla vicina Trevi. Tutti mangiano con aria distrattamente ottusa i piatti di una cucina, più che dignitosa e gradevole, meritevole di ben altra attenzione: magari un po’ banali, ma perfetti nella cottura e nella preparazione gli spaghetti alla Moro, vessillo della casa, buona la minestra di riso e indivia, non sgradevoli anche se un po’ consueti gli involtini alla romana con patate Ascé(?), squisito e morbido il capretto romanesco con patate al forno e il menu del giorno offriva anche ma discreta varietà di scelte di carne e di pesce. Un piccolo tonfo nei dessert: dolciastra e collosa la mousse allo zabaione per la troppa panna mentre il semifredda era riscattato solo in parte dalla bontà della cioccolata calda. Varia e qualificata la lista dei vini, ma decisamente cattivo il rosso della casa: insipido e dal cattivo profumo. Prezzo non basso ma ragionevole.
Archivio di giugno 1984
4 – Giugno ‘84
venerdì, 1 giugno 1984Psicoanalisi contro n. 4 – Speriamo non capisca
venerdì, 1 giugno 1984Una sera, a teatro, mi sono smarrito nell’attesa. Abitavo ancora in una fredda città del nord. Mi sentivo addosso l’odore del dopobarba, insieme con quello della nebbia che mi si era appiccicata tra i capelli e sui vestiti. Fuori l’aria era buia e gelida; le automobili lucide sotto i colori sgargianti dei neon delle insegne: in quella città del nord le macchine sono sempre tutte scintillanti e sfrecciano silenziosamente, un po’ funebri. Un caldo un po’ greve mi avvolgeva e mi stordiva; la sala era abbastanza affollata, il velario era abbassato, l’aria sapeva di polvere e di profumi; dappertutto odore di teatro, un odore che per me è meraviglioso. Lo spettacolo esigeva anche l’intervento di una piccola orchestra: gli strumentisti, sotto la ribalta, incominciavano a riscaldare e accordare gli strumenti: suono, consonanze e dissonanze, note tenute lunghe, terze e seste dei violini, una scala in si bemolle del clarino e su quel si un la stridente del violino, come una piccola esplosione. Immerso in quei suoni consueti, di sempre, parlavo con il mio amico, in un’attesa vissuta tante volte. Le voci si scontravano, producendo piccole esplosioni, come tra quei si bemolle e quel la: quell’accento del nord che mi fa sempre un po’ vergognare quando lo sento negli altri e tra le mie labbra.
Le luci si abbassarono, il velario venne illuminato, l’orchestra si azzittì: un’orchestrina, senza direttore che sale sul podio; non ci furono quindi applausi. C’era il silenzio, teso, dell’attesa: stava per cominciare. Provai un piacere intensissimo, che mi smarrì. Per un istante non seppi più che cosa stavo aspettando. Era un piacere quasi staccato da tutto il resto, il piacere di quel momento, in quel silenzio caldo. Sentivo attorno la gente, sapevo che fuori c’erano la nebbia, il freddo e le auto che scivolavano lucide; e il caldo dentro; nella sala l’odore del teatro e l’attesa di un inizio, l’attesa di uno spettacolo, l’attesa dello spettacolo.
Vivevo l’attesa proiettato in avanti, o ero dentro a quell’attesa? Eppure, se io non avessi già conosciuto quell’attesa, quei suoni, quel si bemolle, quel la, quelle voci, quell’accento che mi fa un po’ vergognare e quell’odore di teatro, avrei avuto quell’emozione?
Già conosciuto; conosciuto da quando? Da sempre; ma da sempre quando? Da sempre e basta. Se non ci fosse stato tutto quello; quell’attesa che cosa sarebbe stata? L’attesa, quell’attesa, era il frutto di una scelta, una scelta che quel mio amico e io avevamo fatto: – Questa sera andiamo al Carignano. Si chiama così quel teatro in quella fredda città del nord, quel teatro che ha un così buon odore di teatro. – Andiamo al Carignano a… – L’attesa era quindi stata preparata da un’altra attesa, che era stata una scelta: la scelta di quello spettacolo. Perché avevamo scelto proprio quello spettacolo? Io avevo le mie ragioni, il mio amico le sue, un po’ simili e un po’ diverse. Su cosa si fondavano quelle ragioni? Sulla conoscenza del testo, sulla conoscenza degli attori, del regista. Io speravo anche di incontrare una persona, forse; non ricordo, ma può darsi.
Si sceglie qualcosa perché si sa, in parte almeno, che cosa si va a scegliere. Non si può scegliere qualcosa di cui non si sa nulla. Non basta neppure saperne solo l’esistenza; perché l’esistenza pura e semplice, come ben sappiamo, non ha senso. Esistere è sempre questo o quell’esistere; quindi ha sempre una fisionomia, un volto, un colore, un odore, un suono. Una presenza che sa di ignoto; ma che è già più del puro e semplice, essere. Per l’uomo, l’essere non esiste, come non esiste l’esistere: c’è questo e c’è quello.
Questo e quello hanno una fisionomia con caratteristiche percepite immediatamente; quindi si sceglie ciò che già un po’ si conosce e non soltanto perché si sa che esiste; ma perché ha alcune caratteristiche, fin da subito, poi ne avrà altre. Si sceglie perché sì conosce, però si conosce perché si sceglie. Allora, è come se già si sapesse tutto? No; altrimenti la vita sarebbe assolutamente monotona, o meglio: immobile. Se fosse immobile, non ci sarebbe l’attesa. L’attesa fa esplodere la vita in tanti frammenti, frammenti di tempo e di speranze. L’attesa è nel presente, ma trae il significato da ciò che non è presente. Tutto, sempre, è anche un’attesa, quindi la conoscenza sorge nell’attesa e l’attesa sorge dalla conoscenza di ciò che si attende. La scelta dipende dalla conoscenza, la conoscenza, a sua volta, guida la scelta. Mi ritorna in mente la piccola esplosione di quella dissonanza si bemolle-la; chissà perché, mentre scrivo, l’attesa tesa mi sembra una esplosione; quindi già la risoluzione di un’attesa. Eppure quel si bemolle-la è, per me, il simbolo dell’attesa. Un clarino e un violino, due strumenti che fanno rima e che io conosco, riconosco, e che tante volte ho scelto per le mie composizioni. Li ho scelti perché già li conoscevo. E il discorso potrebbe ricominciare, ruotando su se stesso.
Non è possibile, mai, sapere qualcosa che sia del tutto nuovo; eppure tutto è, sempre, un po’ nuovo.
Dal ricordo di un’attesa sono passato a parlare della scelta; la scelta di qualche cosa. In questo mio lungo divagare ero in attesa di parlare di una scelta: la scelta della psicoanalisi.
Perché qualcuno sceglie la psicoanalisi? 0 meglio: quando si sceglie di iniziare un’analisi?
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Non voglio adesso affrontare il problema dei perché si sceglie di diventare analisti; ma voglio chiedermi: perché si sceglie, ad un certo punto, di sottoporsi ad un trattamento psicoanalitico?
La ragione più ovvia potrebbe essere il disagio: un tale più o meno improvvisamente, sente dentro di sé qualche cosa che non funziona: un’angoscia, una paura; il mondo e gli altri sembrano ostili, sembra incombere sul capo un’inevitabile ed oscura catastrofe. Oppure possono manifestarsi sintomi più clamorosi ed evidenti: rituali ossessivi, terrore ingiustificato di avere una grave malattia, la comparsa di disturbi fisici non spiegabili solo come affezioni organiche concrete; e poi ancora una serie infinita e indefinibile di sintomi che possono rendere la vita penosa.
Ecco che, allora, si decide di affrontare il disagio alla radice: le cause affonderanno in qualche meccanismo psichíco non evidenziato, si pensa; e questo primo disturbo, a sua volta, avrà origini ancora più oscure e misteriose, nascoste chissà dove. Fare questi ragionamenti significa, però, già assumere un atteggiamento psicoanalitico, accettare la realtà dell’inconscio e la possibilità che traumi e conflitti misteriosi producano il disagio evidente.
Per lo più, non accade così: quando la sofferenza e il disorientamento si fanno più intensi, il caso sembra prendere il sopravvento. Si cerca aiuto; ma lo si cerca in modo anche sconsiderato non è facile infatti orientarsi nella miriade di proposte terapeutiche pubblicizzate e più o meno esaltate: oggi, la psicoanalisi è, anche, alla moda. E’ di moda curarsi con la psicoanalisi. Cosa voglia dire che qualcosa è di moda è molto difficile spiegarlo. Determinati comportamenti si dicono alla moda quando sono frutto di un contagio collettivo che non esprime “ reali “ bisogni, ma un superficiale e frivolo bisogno d’imitazione. Questi tipi di comportamento sono spesso macroscopici; ma , qualche volta , si ritiene frivolo qualche cosa che in realtà, ha di per sé un valore e può avere un profondo significato, sebbene sia stato, per qualche ragione accettato con grande leggerezza da una maggioranza di persone. Succede quindi che, anziché ritenere frivoli e stupidi coloro che accettano con ottusa leggerezza un comportamento, si svaluta la cosa in sé. Questo è un atteggiamento, a sua volta frivolo e sciocco. E’ diventato di moda condannare, sempre e inevitabilmente, tutto ciò che è alla moda. Semplicemente moltiplicando, anziché ridurre, la stupidità.
Riuscire a sapere quali che siano i bisogni reali di una persona o di un gruppo è quanto mai difficile; anzi: sarebbe meglio dire che i bisogni reali non esistono. I bisogni sono bisogni: è importante saper discernere tra i bisogni che hanno valore e quelli che non ne hanno; e conoscere le basi su cui fondiamo il concetto di valore ma ciò che sta alla base è l’intensità del bisogno. Di dove sorge l’intensità del bisogno? Dal condizionamento. Ma chi manovra il condizionamento? Di nuovo, anche qui, la ricerca della causa prima non è altro che un cane che si morde la coda. L’importanza è far capire al cane che non gli serve a niente a girare in tondo; perché la sua coda gli verrà sempre dietro. Ma il cane incomincia dalla coda o dalla testa? Questo dovremo chiederlo ai cani; noi non abbiamo il diritto di dire, come ci verrebbe spontaneo: dalla testa. E’ giusto dire che la psicoanalisi è alla moda ma non è soltanto una moda.
La psicoanalisi turba; un discorso psicoanalitico spesso coinvolge, mette a disagio, stimola. Nonostante che molti di coloro che parlano di psicoanalisi dicano un mucchio di sciocchezze, nonostante venga sbriciolata in formulette tra il triviale e il cabarettistico in un tronfio pseudoscientismo, la psicoanalisi è capace di affermazioni ed osservazioni che mettono a disagio e fanno riflettere.
Molti si difendono dalla psicoanalisi proprio grazie al gran numero d’ovvietà e stupidaggini che in nome della psicoanalisi vengono dette; ma certi concetti entrano ugualmente dentro e causano turbamento. Si ha paura, si resiste, si biasima un atteggiamento alla moda; ma, quando il disagio esplode, ci si ricorda di quel turbamento e, quasi inconsapevolmente ci si dice: – Se mi ha emozionato così profondamente quel poco che ne ho sentito dire, chissà che la psicoanalisi non abbia realmente un’efficacia e che riesca a liberarmi da queste angosce. – Può anche darsi che una frase sentita ad una conferenza, o alla radio, ci sia sembrata proprio riferita al nostro caso e ci abbia fatto pensare che quello psicoanalista che sapeva raccontare così bene la nostra storia magari poteva anche sapere perché e come la storia era nata. 0 un amico ci ha consigliato «quello psicoanalista che è tanto in gamba» senza che si capisse bene se è in gamba perché fa lo psicoanalista o se fa lo psicoanalista perché è in gamba: in questo caso l’amico descrive lo psicoanalista come un mago e tu vai da quello un po’ intimidito e un po’ tracotante.
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Ci sono poi coloro che iniziano l’analisi proprio perché si vogliono conoscere. Un giorno, una persona venne da me, compassata ed austera; parlava a labbra strette, le mani ieraticamente irrigidite in grembo; mi disse: – Prima stavo male, molto male; ho lottato fino a che sono stato meglio; ora sto bene. Proprio per questo ho deciso di incominciare un’analisi. Prima non ero in grado di guardare dentro di me; adesso sono sufficientemente forte. Se non fosse stato che quella persona non era per nulla <>, quel ragionamento avrebbe anche potuto non essere scorretto. Il fatto resta che quella persona non era forte abbastanza e il suo disagio era ancora profondo: semplicemente era negato, perché solo così era stato possibile trovare il coraggio di iniziare l’analisi.
Tutti quelli che decidono di iniziare un’analisi devono trovarsi in una situazione di disagio profondo? Io non credo che davvero molte persone inizino l’analisi per conoscere se stesse; anche se tutti, assolutamente tutti coloro che la scelgono dicono di aver scelto la psicoanalisi perché va alla ricerca delle cause, non si ferma alla cura dei sintomi, ma va alla fonte. <> è una frase pubblicitaria, buona per ogni tipo di psicoanalisi e forse è anche la frase che meglio di altre può definire la psicoanalisi.
Ho detto che non si può conoscere nulla che sia completamente nuovo, il conoscere è sempre anche un riconoscere; ciò che è nuovo sarebbe incomprensibile se fosse del tutto nuovo. Conoscere significa inserire in un catalogo già predisposto.
Quali cause nascoste può allora scoprire la psicoanalisi se ogni causa è sempre l’effetto di un’altra causa? Bisogna dunque risalire all’infinito: torniamo all’esempio del cane che si morde la coda. Importante per il cane, e non solo per lui, è che smetta di girare in tondo. L’infinito non esiste.
Ci sono delle persone che scelgono la psicoanalisi perché ne hanno paura. Poiché ne hanno tanta paura preferiscono affrontarla. Costoro assumono due atteggiamenti, principalmente: la sfida o l’esorcismo. Coloro che assumono un atteggiamento di sfida sono in genere i più patetici; perché si difendono con accanimento, pronti a tutto, anche a farsi distruggere pur di mostrare che la psicoanalisi non serve a niente. Accade talvolta che la psicoanalisi li coinvolga e li destrutturi, allora perdono i punti di riferimento; ma di ciò parleremo altrove.
Alcuni sfidano più la psicoanalisi in sé che lo psicoanalista: apparentemente docili, sciolti, rilassati, si stendono, si alzano, guardano il terapeuta o si nascondono al suo sguardo, tengono comportamenti diversi che non si possono elencare, ma hanno in comune il gusto sado-masochistico di ripetere a se stessi, continuamente:- Con me la psicoanalisi non ce la farà – Quelli che hanno affrontato la psicoanalisi per esorcizzarla, presentano resistenze pacate ed un po’ opache: vengono alle sedute cercando di non scoprirsi, di non dire nulla, di non muoversi, di non pensare all’analisi e di non pensare, quando sono in analisi. L’importante per costoro è «fare analisi»; tanto loro «sono in analisi»! Così dimostrano, al mondo e a se stessi, che non hanno paura dell’analisi. Per loro lo psicoanalista è un feticcio misterioso; lentamente, cercano di mettere in atto difese narcisistiche, per interporre un velo tra loro e questa cosa terrifica; continuano l’analisi nascosti dietro al loro velo. E allora? Allora niente: l’analisi continua; non dico che incomincia, perché era già incominciata anche prima; ora continua, ma su di un’altra strada.
C’è chi incomincia un’analisi per acquistare potere. Ora sono pochi coloro ‘che si vergognano di palesare che sono in analisi; un tempo, si aveva molto più pudore e si esitava a dirlo, perché si temeva di essere presi per matti: – Se ti fai curare la psiche è perché non funziona, quindi devi essere un po’ squilibrato. – Molti si sono ora accorti che la psicoanalisi fa paura e gli psicoanalisti sono guardati con timore reverenziale.
Quelli che hanno più paura della psicoanalisi sono tutti quegli psicoterapeuti, psichiatri e non, che praticano tecniche non psicoanalitiche. Costoro sono letteralmente terrorizzati dallo psicoanalista e se ne difendono con ingenua rabbia. Io mi diverto ad osservare questi malcapitati, quando, per qualche ragione, hanno a che fare con me, in ospedale, in salotto o in treno.
Quando vengono a sapere che faccio lo psicoanalista, si irrigidiscono, studiano ogni loro gesto, e si sente che dentro di loro sale una sorta di disperazione: la disperazione di poter essere scoperti. Scoperti in che cosa? Proprio in ciò che loro non ritengono che valga la pena di scoprire. Allora fanno umorismo, un umorismo un po’ tenero e buffo; oppure si lanciano in discussioni in cui rivelano troppa ansia per quello che dovrebbe solo essere un confronto intellettuale, una ricerca di chiarezza, la comprensione di un problema culturale. Poi, piano piano, si ritirano, imbarazzati e sconfitti; ma col bisogno di dire a loro stessi di essere trionfatori.
La cosa più bizzarra è che, qualche volta, anche uno psicoanalista può avere paura di un altro psicoanalista. I perché sono tanti: alcuni vergognosi ed altri no. Tutti, assolutamente tutti, e lo sottolineo, hanno paura della psicoanalisi e provano fascino e un sottile timore per la persona dello psicoanalista.
Si fa psicoanalisi spesso per carpire allo psicoanalista i suoi segreti. Dal momento che è noto che per diventare psicoanalisti è indispensabile sottoporsi ad un trattamento psicoanalitico, tanti di coloro che sono in analisi si sentono diventati un po’ psicoanalisti. Queste, dopo qualche tempo, diventano persone terribili per amici e familiari: vanno in giro ostentando con sussiego di «essere in analisi», ascoltano con sufficienza, sogghignano, ammiccano, abbozzano possibili interpretazioni: amici e famigliari rimangono a disagio: – Chissà cosa ha capito – E il loro potere si instaura e aumenta.
Io l’analisi me la faccio da me. Sono anni che faccio autoanalisi, ho letto molto, mi sono osservato e ho capito molte cose; continuo ad osservarmi e continuerò a capirmi, non ho bisogno che un altro venga dirmi come sono fatto, per di più con il rischio che mi passivizzi.
Il secondo atteggiamento è invece quello di colui che si butta nella analisi proprio perché può contare sulla presenza dell’altro, che lo osserva e lo sorregge. Quello che egli scopre di sé si trova a scoprirlo insieme con un altro, che, anche lo appoggia e che gli sarà dì aiuto nei momenti di disorientamento e di confusione.
Ci sono tante ragioni per cui si decide di iniziare un trattamento psicoanalitico. Non mi sono ancora posto il problema di come si scelga una tecnica piuttosto che un’altra, nel variegato mondo delle correnti di psicologia dinamica; in questo campo il caso, o meglio: l’inconscio, spadroneggia.
Caso e inconscio sono probabilmente due nomi che esprimono una stessa realtà: qualcosa che non si conosce ancora. Io affermo però categoricamente che nessuno, vuole e desidera fimo in fondo iniziare l’avventura della psicoanalisi.
Non credo che lo sviluppo ontogenetico ricalchi quello filogenetico; cioè che lo sviluppo psicofisico di un individuo ripercorra le tappe dello sviluppo della specie; però vi è una cosa in comune all’individuo e a tutta la specie umana: il bisogno di avere un inconscio; il bisogno di non sapere tutti i perché, di scegliere con cura la risposta ad alcuni e su di essi costruire un comodo padiglione entro cui stare in modo confortevole.
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Io credo che l’uomo stia, da sempre, costruendo, per sé stesso e per gli altri, una sua propria immagine. Non credo, come dicono i manualetti di storia della filosofia occidentale, che l’essere umano abbia indagato per conoscere l’origine e il significato dei cosmi dapprima e solo dopo, nello splendore di una cultura «classica», abbia affrontato il problema del significato dell’uomo. L’uomo è uomo da molto tempo; bastano le poche reliquie della cultura e della vita delle età più arcaiche che ci sono pervenute a farci capire la profonda ricchezza dell’essere umano già in quelle epoche oscure, misteriose e lontane. Il mondo e l’uomo si sono costruiti insieme; ma l’uomo, da sempre, si sente attore su di una scena. Quello che comunemente e tradizionalmente viene chiamato «delirio di riferimento», quello stato psichico cioè, che ci porta a credere che tutti ce l’abbiano con noi, o si muovano per indurci a qualche cosa e comunque sempre ci osservino, esprime la esasperazione di un modo d’essere quotidiano.
Non solo, però, percepisco che gli altri mi stanno guardando, anche io guardo me stesso e spero di essere quello che vorrei essere. Lentamente, racconto me a me stesso. Ma è così vasto il mondo, così oscura e profonda la realtà della persona umana, che, né il mondo sarà mai compreso del tutto, né l’uomo arriverà mai a capirsi completamente.
Meglio così, perché, se arrivassimo al fondo delle cose, scopriremmo soltanto la noia, ci troveremmo in un deserto gelido e abbacinante. Meglio rimanere un po’ sperduti in questa consapevole inconsapevolezza, in questa voglia di essere fatti in un modo che non corrisponde alla realtà. La realtà è qui, in noi e fuori di noi; noi la costruiamo, la inventiamo, la percepiamo. Noi speriamo di essere ciò che, forse, un po’ siamo; ma nessuno vuole essere tutto quello che, in realtà, è. Perché il mondo che ci ha costruiti e che abbiamo costruito ci osserva e non possiamo fare brutta figura di fronte al mondo, di fronte alle stelle, di fronte agli alberi, di fronte alle fotografie che ci guardano dalle pareti: volti di tanti anni fa, bianchi e marroni; e neppure di fronte agli altri, simili a noi, che ci guardano e ci scrutano, esibendosi a loro volta. Non possiamo fare brutta figura; dobbiamo essere persone ammodo, perché ci hanno insegnato come si deve essere. Ad un certo punto, ci siamo anche ribellati agli insegnamenti, al condizionamento, alle imposizioni; ma continuiamo a non voler fare brutta figura, né di fronte agli altri, né di fronte a noi stessi, né di fronte alle stelle.
Tutti gli uomini hanno, però, bisogno di capire. Non sapremo mai perché sentiamo questo bisogno: tutto è troppo oscuro e troppo lontano, sempre un po’ oltre. L’uomo, se pure vuole capire, molte cose non le vuole sapere; soprattutto di sé. Eppure forma il proprio sé insieme con quello degli altri. Questo groviglio è inestricabile. Proiezione e identificazione costruiscono l’essere umano, o meglio: costruiscono la conoscenza, stimolata da un desiderio che permea tutto. Questo desiderio sacro non si presenta però immediatamente: nessuno ha mai visto il volto del desiderio…
Proiezione e identificazione: io vedo me negli altri e vedo gli altri in me. I miei desideri li attribuisco ad altri. Io voglio essere simile e dissimile ad un altro. Proiezione e identificazione costruiscono l’uomo e gli uomini nelle loro relazioni. Gli altri, uomini e stelle, sono sempre presenti in me. Eppure adesso sono solo e scrivo, nel mio studio, nel buon odore dei miei libri. Questa stanza la chiamano studio, e fuori c’è un’allodola e anche il campanaccio di una mucca, e, più in alto, c’è il cielo, un po’ imbronciato stamattina, l’ho sentito uscendo sul terrazzo: un odore buono di campagna e di terra umida. Adesso sono qui: il ricordo di quell’odore di terra misto all’odore presente dei libri e dei legni antichi e all’odore del mio cane che ora chissà dov’è; forse passeggia imbronciato calpestando i tulipani; non c’è ma è qui. L’odore del cielo, dei libri, del mio cane, il mio odore, tutto è presente; e gli altri di là, che dormono ancora, che io amo. Altri ancora più lontani, di ieri; altri che saranno, di oggi e di domani. Io mi costruisco, in questo momento, insieme con loro. Proiezione e identificazione: gli altri li capisco perché li amo, perché li odio, perché vorrei e non vorrei essere come loro. Da sempre l’ingenuo inganno è stato scoperto; ma da sempre non lo si vuole sapere. Che cosa è l’uomo – dice Pindaro – è l’ombra di un sogno. Pindaro, che muore tra le braccia dei bel Teosseno, sognando di essere l’amato. Teosseno è l’ombra di Pindaro, Pindaro è l’ombra di Teosseno. Un sogno concreto, come tutti i sogni, come tutta la realtà.
Poi la realtà viene frantumata, quando ci dobbiamo difendere, quando il nostro desiderio viene contraddetto dagli altri. Allora alziamo barriere: sadismo e masochismo, per punire e per punirci, per aggredire o farci aggredire, per frantumare, per controllare, per capire male; o ancora una fuga, una fuga precipitosa, lontano con la mente: il narcisismo, volerci circondare di fantasmi, per non abbandonarci più al desiderio che è stato così frustrato.
Noi oscilliamo continuamente tra sadomasochismo e narcisismo; ma, per fortuna, esistono la proiezione e l’identificazione, che riportano il mondo vicino a noi. Poi esiste il mondo, dietro e dentro di tutti: un desiderio. Il mondo non è un’illusione, io non sono un’illusione di me stesso. Ma io mi voglio illudere di essere quello che vorrei essere. Però mi voglio anche capire. 0 forse no. Forse l’uomo vorrebbe soltanto capire l’altro e gli altri. Questo non è possibile, perché l’esistenza di ciascuno è troppo intrecciata con quella di tutti gli altri. In questo sforzo acuto, talvolta cattivo, scopriamo i giochi degli altri, cosa si cela dietro quel loro mostrarsi, quel loro pavoneggiarsi; dietro quel gesto, c’è quella trama, c’è altro. Improvvisamente, quello che abbiamo capito ci rimbalza addosso: anch’io. Subito lo allontaniamo da noi, lo guardiamo negli altri, lo vogliamo vedere negli altri; ma non è possibile tale separazione e allora ci ritorna addosso. Così è da sempre. Con un ultimo erculeo sforzo, la psicoanalisi, alla fine dell’Ottocento, ha tentato di capire gli altri per aiutare ognuno a non capire se stesso; ma questo non era possibile. Perciò la psicoanalisi ha stabilito che anche lo scienziato psicoanalista deve essere psicoanalizzato: una grande sfida all’inconscio e alla paura che a tutti ispira. I sogni vengono spiegati, e i gesti anche; tutti i gesti, soprattutto quelli anomali, quelli che fanno paura perché inquietano, perché sono inspiegabili. Rendere razionale il disordine pulsionale è un modo di manipolarlo, costruirlo, difendersene. L’ultima difesa dalla consapevolezza è proprio la psicoanalisi. Per fortuna chi affronta con fatica il percorso psicoanalitico, talvolta così destrutturante, si accorge di stare andando ben oltre. Dove?
Sigmund Freud ha iniziato a rompere un incantesimo.
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Gli esseri umani vorrebbero capire gli altri senza capire se stessi; ma poi si vedono costretti a guardarsi dentro, dentro ritrovano gli altri, e il cerchio continua a girare. Nel tentativo di allontanare ancora un po’ la comprensione è stata inventata la psicoanalisi. Spesso, un disagio non è che un pretesto per iniziare una terapia psicoanalitica che, prima di tutto, dimostri a noi stessi che non siamo quello che non vogliamo essere; anzi, che siamo proprio come abbiamo sempre sperato di essere. Quel signore o quella signora che chiamiamo «psicoanalista» ci darà un attestato che confermerà che noi ci siamo sempre conosciuti. Noi: io e gli altri, io con gli altri.
Per tutte le ragioni che ho detto, la psicoanalisi non può iniziare se non partendo da una massiccia resistenza alla psicoanalisi stessa. Così comincia ogni analisi. Forse così comincia anche l’avventura terrena di ogni essere umano.
Vorrei ora parlare delle fasi dell’analisi. Questo è un discorso tecnico che qui voglio affrontare in modo semplice e diretto. Come ho detto, ogni «prima» ha un «prima»; l’inizio non è mai un vero inizio, sebbene non abbia senso risalire all’infinito. Le cose del mondo hanno forme e strutture che sono anche date dai nostri organi di senso. Il mondo lo percepiamo così, con queste durezze e con queste distanze, questi odori e queste luci. Dove finisce la luce incomincia l’ombra; oppure dove incomincia la luce finisce l’ombra. Tutto ciò che è intorno a noi si delinea, e noi vogliamo che abbia contorni. Il giorno è diviso in ore; qui finisce la mia mano; questi sono i contorni del mio libro.
Anche una terapia psicoanalitica ha un inizio, nonostante tutto quello che c’era già prima. Per qualcuno che leggerà ciò che sto scrivendo può incominciare, forse, oggi… Diciamo che l’analisi incomincia quando si apre la porta dello studio dello psicoanalista e si saluta: – Buongiorno, io sono venuto da lei, da te… – Qui incomincia… Ogni elemento del mondo dell’uomo, interno ed esterno, deve avere una forma riconoscibile, perché solo così può essere usato; l’uso che se ne fa contribuisce a sua volta a dargli questa o quella struttura. Anche la psicoanalisi, quindi, deve avere una struttura riconoscibile e contorni visibili, sebbene sfumati.
L’analisi inizia quando avviene il primo contatto con l’analista, nel suo studio, o comunque in un luogo sufficientemente tranquillo. Non è detto che l’analisi debba svolgersi tutta lì, tra quelle quattro mura, o in quello spazio. Le persone sono diverse, i luoghi anche; ogni storia è diversa. L’inizio è vario ed uguale al tempo stesso. Vario perché non esistono due analisti uguali e non solo perché possono appartenere a scuole diverse; inoltre non esistono due pazienti uguali, perché non esistono due esseri umani uguali. Indubbiamente lo psicoanalista, usando la propria metapsicologia, formulerà, più o meno rapidamente, dentro di sé, una diagnosi che collocherà quel paziente in un gruppo di altre persone che egli ha già incontrato e visto. Quando si deve fare una diagnosi, cosa significa fare una diagnosi e se si debba fare una diagnosi sono problemi che affronterò; ma non qui.
Ciò che rende simili tutte le fasi iniziali di un trattamento psicoanalitico, con qualunque rituale avvenga e al di là di ogni rituale è il fatto che il paziente non vuole sottoporsi all’analisi. In questo rifiuto sono coinvolti tutti. Possiamo dividere le persone che iniziano un’analisi in due grandi classi: la prima, di quelli che esplicitamente dichiarano di non voler fare l’analisi; la seconda di quelli che invece dichiarano fiducia incondizionata nell’analisi ed esprimono il desiderio viscerale di tuffarsi in questo tipo di avventura. Il primo atteggiamento è assai più frequente di quanto non si sarebbe portati a credere. La persona si siede davanti a voi, che siete l’analista, in genere con aria troppo sciolta, o troppo rilassata, spavaldamente guarda il lettino, se c’è con ostilità; poi esordisce dicendo che non crede molto nella psicoanalisi, che non sa se l’analisi, nel suo caso, sarà davvero utile, chiede subito quanto durerà, trova da ridire sugli orari, forse anche sul prezzo; spesso l’analista prova la forte tentazione di mandare l’aspirante paziente a quel paese. Io, qualche altra volta, lo faccio; lo prego, anche in modo gentile, che se ne vada. Spesso, dopo essersene andato, ritelefona, mi corteggia. La mia reazione a volte è un espediente tecnico, qualche volta è una mia reale insofferenza. Se mi risulta troppo sgradita una persona, rientra nel mio metodo non accettarla in analisi: mi rifiuto di iniziare un così lungo e coinvolgente lavoro con persone che mi stanno tanto antipatiche.
Questa eccessiva, spudorata diffidenza, talvolta addirittura scortese, mi annoia, ma qualche altra volta vedo dietro una debolezza così tenera e un così grande desiderio d’amore che mi sciolgo e, con un po’ di ingenuità, accetto di iniziare l’avventura. Il secondo tipo di persone è costituito da quelli che si buttano sull’analisi, che dicono di credervi assolutamente, di essere disponibili, di avere solo il timore di non riuscire a dire proprio tutto quello che deve essere detto, di non essere in grado di rispettare tutti i precetti, le regole, gli obblighi. Costoro rivelano un’accondiscendenza esagerata, si dichiarano pronti ad accettare tutto e vogliono subito che l’analista parli; anche se, in realtà, non gli lasciano spazio, perché dicono tutto loro. Nella esposizione concitata di sé, talora si fermano, si disperano e continuano a ripetere che l’analisi è una cosa meravigliosa.
Ovviamente, entrambi questi atteggiamenti possono sfumare l’uno nell’altro, e dare origine ad un terzo atteggiamento: l’atteggiamento di quelli che, a parole, dicono una cosa e che si comportano nel modo opposto a quello che vanno dicendo. Ripeto: sta di fatto che nessuno inizia l’analisi volendo veramente fare analisi.
Le resistenze si irrigidiscono subito. Prima appaiono quelle più evidenti, le più lontane propaggini delle due difese fondamentali: il sado-masochismo e il narcisismo.
Le più palesi resistenze iniziali si manifestano in un desiderio di fuga o, ancor più, di nascondersi. Nascondersi, ma dove? Dietro alla recita dell’analisi. Nascondersi dietro al fumo del silenzio o delle troppe parole. Importante è fare fumo, molto fumo, affinché chi ci sta lì, al fianco, non capisca niente. Soprattutto speriamo di non dovere noi capire qualcosa di noi stessi: come sarebbe bello se capisse soltanto lui, senza dircelo. Molte volte questo desiderio si esprime proprio attraverso un’aggressione all’analista che tace: è troppo tempo che persiste nel suo silenzio, il mio analista sta troppo zitto, forse non capisce nulla, speriamo non capisca nulla!
4 – Giugno ‘84
venerdì, 1 giugno 1984Questa nuova GUIDA DI ROMA di Paola Brengola (ed. Laterza, pagg. 360, lit. 15.000) che sta appena giungendo in libreria, non è entusiasmante, ma è utile. Non è entusiasmante perché è un po’ piatta, ha infatti il linguaggio delle ricerche scolastiche sulla storia dell’arte; però può essere molto utile alle tantissime persone, non certo di grandi pretese, che non conoscendo Roma, vogliano orientarsi. Il libro fornisce notizie sufficientemente precise su tutto, monumenti e avvenimenti, fatti estemporanei e tradizioni, sa dare indicazioni anche sulla fisionomia dei quartieri ed è ricco di illustrazioni, che non sono purtroppo né fotografie né quadri, ma sono schemi grafici non troppo precisi e poco accattivanti.
Ecco un saggio del linguaggio e dell’atmosfera dominanti:
«Nella seconda metà del Cinquecento Roma divenne la capitale della grande Chiesa anticonformista, la roccaforte del potere papale a cui ormai facevano capo tutti i paesi cattolici europei, il centro per eccellenza della Fede trionfante. Del nuovo ruolo della città si fece interprete Sisto V, papa fra il 1585 e il 1590, che promosse una riforma urbanistica di natura essenzialmente religiosa e celebrativa. Insieme al suo architetto di fiducia, Domenico Fontana, Sisto V elaborò un piano di collegamento viario delle sette basiliche principali che i pellegrini dovevano visitare per l’indulgenza plenaria: S. Giovanni in Laterano, S. Pietro, S. Paolo fuori le Mura, S. Maria Maggiore, S. Croce n Gerusalemme, S. Sebastiano, S. Lorenzo fuori le Mura. I1 collegamento era attuato mediante dei rettifili che, anche sul piano visivo, avrebbero accorciato la distanza fra i gloriosi edifici e attenuato la fatica dei lunghi percorsi».
Roma è sconosciuta soprattutto ai romani, questa guida, che sembrerebbe dedicata ai turisti, in realtà è quanto mai utile agli abitanti dell’Urbe che, in genere, pur rivendo tra bellezze ineffabili, troppo spesso preferiscono rimbecillirsi sul percorso casa-stadio, piuttosto che entrare in chiese, palazzi e musei, avere occhi per scorci da paradiso, bagnarsi le mani nelle fontane e annusare l’odore antico degli androni. Roma è bella anche fuori delle canzonette e i romani dovrebbero rendersene conto.
4 – Giugno ‘84
venerdì, 1 giugno 1984In una antica cappella sconsacrata, al numero sei di via Vittoria, è stato rappresentato un testo che appartiene alla storia del teatro: « II risveglio di primavera» di Frank Wedekind, messo in scena, quale saggio di diploma del terzo anno, dagli allievi dall’accademia nazionale d’arte drammatica «Silvio D’Amico».
Vecchi e avidi divoratori di messe in scene teatrali, ci eravamo recati, benignamente indulgenti, ad assistere a un «saggio»; abbiamo invece assistito ad un bello spettacolo, come proprio non ci aspettavamo. Ad essere sinceri il testo di Wedekind non ci piace molto; è importante, per il suo tempo, anche dal punto di vista teorico, ma gli anni se li sente tutti addosso: un pre-espressionismo un po’ ingenuo, parolaio e tronfietto, pervaso però da un’efficace, se pur malata, sensualità. I desideri e le fantasie di un mondo di giovani che vedono sbocciare la primavera della sessualità contrapposti a figure di genitori e professori, irrigiditi e ottusi nella banalità di un perbenismo sterile e mortifero. Le acerbe voci degli allievi dell’accademia erano perfette e coinvolgenti; anche quando rappresentavano gli adulti, quelle improbabili sonorità davano al tutto un che di bizzarro ed ironico.
Sono stati tutti bravissimi: i gesti, le voci, i corpi ingenuamente professionali. I movimenti erano eseguiti con disinvoltura; si sono lasciati andare tutti cercando soprattutto di esprimere lo smarrimento e l’angoscia di esistere. Le idee registiche erano continue: alcune un po’ ovvie e da manuale, ma sempre garbate. La musica è stata usata con sapienza: Brahms, Mahler, cori virili intonati e piacevoli e una vocina di donna graziosa ed efficace.
Noi vogliamo ricordare un solo nome (gli altri, se possono, non si offendano, per favore): Marco Maltauro che ci è parso proprio eccezionale, soprattutto nella scena delle forbici. Noi non crediamo nella freddezza dell’artista, ma ci compiaciamo quando scorgiamo, insieme con la passione, la precisione, frutto di uno studio attento e accurato. Vorremmo dire più a lungo, analizzando scena per scena. Non facciamo auguri perché sarebbe prendere poco sul serio e considerare troppo scolastico uno spettacolo che ha una sua completa dignità. Ma, forse, questa è una negazione.
4 – Giugno ‘84
venerdì, 1 giugno 1984Mercoledì 23 maggio abbiamo assistito ad un ottimo concerto: Riccardo Muti dirigeva la Philadelphia Orchestra per la stagione sinfonica di S. Cecilia (il concerto era fuori abbonamento). Questa storica orchestra che tenne il suo primo concerto nel 1900 diretta da Fritz Scheel, ha avuto tra i suoi direttori stabili personaggi come Stokowski e il grande Eugène Ormandy, è diretta dal 1980 da Riccardo Muti. In questa esibizione (perché un po’ esibizionista è l’amabile Riccardo), la Sinfonia in re minore di César Franck, composta tra il 1886 e il 1888 ed eseguita per la prima volta nel 1889, ha rivelato tutta la sapienza compositiva di mago dell’orchestrazione di C. Franck.
I temi si rincorrevano, ora dolci, ora più protervi, in un impasto orchestrale quasi perfetto, nessuno squilibrio e anche il tema più importante, quello in fa maggiore che rende la sinfonia riconoscibile anche dal grande pubblico, era tenuto a bada, in quella interna e piacevole patina hollywoodiana, con grande maestria. Poi Muti si è divertito a sbalordire il pubblico con i brani delle suites per orchestra n. 1 e n. 2 del Romeo e Giulietta, che Prokofiev nel 1936 trasse dalla musica dell’omonino balletto. Temi ardenti, appassionati, drammatici, lirici, facevano bella mostra di sé, insieme, avvolti da armonie sapienti e artigianalmente ben tornite. Il pubblico e noi siamo rimasti estasiati, anche dal pizzico di gigioneria accattivante.
Irritante, invece, (e vogliamo dirlo proprio in contrapposizione a quanto abbiamo detto del concerto di Muti), è stata l’esecuzione della Academy of Saint Martin in the Fields, guidata dal primo violino, che abbiamo ascoltato sempre all’Auditorium di via della Conciliazione, per la stagione da camera. Il complesso strumentale è specializzato in musiche del sei e settecento, ma non si limita ad esse. Una fredda precisione da metronomo è riuscita ad imbalsamare Mozart nelle sue due sinfonie: in sol maggiore K. 124 e in la maggiore K. 201, e ad irrigidire il Concerto grosso in sol minore per archi e cembalo di Arcangelo Corelli e la sinfonia n. 44 in mi minore di F.J.Haydn.
Nonostante l’ottusità degli altri esecutori, l’oboista Celia Nicklin, che pur fa parte del complesso, ha dato un’esecuzione che ha raggiunto punte di sublime perfezione del Concerto n. 3 in sol minore per oboe, archi e continuo di Haendel. Calda, intonata e precisa; ma come fa a convivere con quelle mummie?
04 – Giugno ‘84
venerdì, 1 giugno 1984Capo d’accusa
In modo adeguato, e, più spesso, in modo inadeguato, si è reagito, da più parti, con fastidio, alla teorizzazione del rapporto discepolo-maestro come rapporto ideale, auspicabile anche politicamente. Il concetto di maestro ha richiamato, più o meno consapevolmente, il concetto di plagio, e il plagio è considerato, a torto o a ragione, la premessa dell’oppressione delle masse. Si è così proceduto in una serie di equazioni improprie: maestro = leader; leader = duce.
In verità, il maestro finisce dove c’è spazio per un leader e il leader muore quando nasce il duce.
Il duce, o il dittatore, è, in genere, la figura simbolica che esercita, per delega, un carisma che, se mai gli è appartenuto, non gli appartiene più, ma che appartiene, invece ad un apparato, statale od economico, che egli rappresenta, ma che non incarna.
Il leader esercita un potere, più o meno limitato, su gruppi di varia dimensione, che egli riesce però a controllare in modo diretto o attraverso pochissime mediazioni. Duce e leader possono essere imposti e possono avere o non avere il consenso al loro potere. Il duce o il leader possono anche conoscere la negazione della loro necessità, sia su basi personali, intime e di carattere, sia su basi politiche: la loro più clamorosa negazione è un’ipotesi di democrazia.
Il maestro, invece, è una figura ineliminabile: si può discutere su quali caratteristiche debba avere, ma non si può discutere sulla sua necessità. Ci sono maestri buoni e maestri cattivi, ma non c’è uomo che non abbia avuto un maestro. Per tutta la vita, noi, per ragioni culturali e politiche, siamo stati ammaestrati ad accettare o a rifiutare i nostri maestri. Da chi?
In queste lotte, per e contro i maestri, qualcuno ha creduto utile inserire anche una polemica sul plagio. Il plagio sarebbe il condizionamento di una coscienza senza che chi è condizionato ne sia consapevole. Il duce e il leader hanno sempre negato di essere autori di tale tipo di condizionamento. La democrazia delle maggioranze silenziose ha sempre tuonato contro i cattivi maestri colpevoli di plagio. Anche un cattivo osservatore si rende conto che il plagio è alla base del vivere, pro e contro, di tutti gli uomini. Dai messaggi nascosti degli slogan pubblicitari a quelli trasmessi copertamente dagli slogan delle ideologie, dai condizionamenti culturali a quelli affettivi, il plagio rappresenta una forma onnipresente di passaggio di contenuti, buoni e cattivi. Il maestro e il discepolo, quando sono consapevoli del ruolo che hanno, in relativa libertà, reciprocamente scelto, costituiscono la sola possibilità di corretta gestione dei rapporti di apprendimento. Giustamente il moralismo delle maggioranze tuonerà contro questa mancanza di perbenismo, che toglie il monopolio del plagio alle istituzioni e ai mass-media; che soli sono autorizzati a plagiare, perché soli tentano la via del plagio totale, che annienta ogni possibilità di scegliere tra i messaggi, secondo il proprio bisogno e il proprio desiderio.
4 – Giugno ‘84
venerdì, 1 giugno 1984Per certi artisti è irritante che si sica ai loro: qui ricorda Boccioni, là Manet, là ancora Grosz, perché ciò significa un poco svilirli. È vero, infatti, che gli artisti debbono essere inseriti nel loro tempo e quindi essere in tensione dialettica col resto del mondo e dell’arte. Il linguaggio di Aligi Sassu è profondamente originale, se pure impastato proprio dei riferimenti che sopra abbiamo citato; ma si tratta qui, appunto, di dialogo e non di imitazione. Vorremmo partire da un’opera splendida: «Il centauro Chirone educa Achille» ovvero «la continuità dell’esperienza» opera recentissima, meravigliosa nella sua pastosità ed euritmia, classicità non di maniera, ma profondamente sentita e felicemente espressa, una fantasia classica tra le tante che sono possibili.
Affascinanti i rossi di giovani corpi nudi, eroticamente accesi, a volte fusi con altri colori, a volte nettamente staccati. Avvincenti le appassionate rappresentazioni del «Concilio» e del «Concilio di Trento» irti di mitrie aguzze di vescovi visti nella loro cattiveria, ma anche inquietante problematicità.
La sottile malinconia dei Caffè, tema consueto per quegli anni trenta, ma affrontato con forza tutta personale. La laida e un po’ metafisica volgarità delle donne del «Divano rosso» e del «Divano azzurro», dée decadute ma non odiate. Quadri tutti di poeticità immediata, non intellettualistica, che sono riusciti ad imporsi anche in questa mostra incompleta, un po’ ufficiale e un po’ benefica, ospitata in castel S. Angelo, sotto lo sguardo dei papi e di un imperatore innamorato della bellezza: «Animula, vagula, blandula/hospes comesque corporis…»
Decisamente brutta, senza possibilità di appello, l’esposizione delle cose romantiche e garbate di Giosetta Fioroni alla Galleria Giulia di Via Giulia 148.
L’autrice pare essere molto nota, anche se non abbiamo capito perché.
Le immagini e i colori dei quadri che abbiamo visto starebbero meglio sui paréo dei club di vacanze che non appesi alle pareti dei luoghi dell’arte.
L’impressione complessiva è che si tratta di cose banali, stucchevoli, graziosamente di maniera: colori fini, immagini ben disposte, pennellate di vento, qua e là, tra l’ombra degli alberi e dentro le case, qualche sospetto metafisico.
L’originalità di una «Superfoglia»… Ne abbiamo parlato, anche se forse, avremmo fatto meglio a non parlarne.