Archivio di maggio 1979

Psicoanalisi contro n. 1 – Eros e Bios: anche la nascita del rito (3^ parte)

giovedì, 3 maggio 1979

A questo punto vorrei parlare di un atteggiamento diametralmente opposto, anche se ha la stessa genesi difensiva: il comportamento sadomasochistico.
Mi pare abbastanza evidente (ma è meglio esplicitarlo) che io, qui, ora, sto elaborando una sistemazione soprattutto logica: sto descrivendo due atteggiamenti e comportamenti esistenziali, il narcisismo e il sadomasochismo, usando una serie di astrazioni che mi servono operativamente per il mio discorso, ma che servono soprattutto per il discorso. Allora dovrei dire che si tratta di pure costruzioni mentali? lo spero di no, per due ragioni: la prima è che una costruzione mentale non è mai soltanto una costruzione mentale; la seconda che un discorso sistematico, anche se astratto, è sistematico appunto perché cerca di sistemare un materiale che tende alla sistemazione, sebbene, per fortuna, non sia riducibile interamente alla sola sistemazione.
La cultura dell’ottocento, nei romanzi, in teatro e in psicologia, ha scoperto il sadismo e il masochismo.
Il marchese de Sade e lo scrittore Sacher von Masoch hanno prestato il loro nome alla definizione di questi due comportamenti umani vecchi quasi quanto l’uomo. Le osservazioni più o meno psicologiche hanno inoltre scoperto che questi due comportamenti sessuali si presentavano in coppia. Quello stesso che, per provare il piacere erotico, deve infliggere sofferenze al partner, allo stesso tempo, in modo più o meno fantastico, desidera anche vivere le situazioni della sua vittima e, ovviamente, viceversa, colui che ama essere la vittima si identifica anche con il carnefice.
La psicologia, descrittiva e non, del tardo ottocento, e anche la psicoanalisi, hanno tentato di compilare up elenco delle cosiddette « perversioni sessuali», cioè di quei comportamenti sessuali che si allontanano così tanto da ciò che la consuetudine ritiene debba essere la sana attività sessuale da pervertirne il senso; e il senso della sessualità normale è identificato soprattutto con la procreazione. (Il fine e il significato della sessualità è stato posto nella procreazione, come ho detto, ma non bisogna tacere che la psicoanalisi si è sempre sforzata di mettere in evidenza anche l’aspetto della sessualità legata al piacere).
È un fatto ormai che le perversioni sessuali, elencate, discusse e raccontate fanno bella mostra di sé nei trattati e nella letteratura.
La coppia sadismo-masochismo, insieme con l’omosessualità, rappresenta il tipo di perversione che ha fatto più orrore alle coscienze nell’ultimo secolo. Un orrore pieno di fascino tenebroso.
Era abbastanza inevitabile che da queste basi scaturissero poi anche gli esaltatori della perversione; per ragioni estetiche prima, politiche poi. Ed ecco le estetiche e le ideologie che esaltano il «diverso». Un diverso, però, secondo me, assai poco « diverso». Tutto sommato, la nostra cultura contemporanea ha preso per buone l’elencazione e la descrizione delle perversioni come le ha catalogate la « bèlle époque» ed ha tentato di metterli addosso a noi, come se fossero costumi di carnevale: il costume del « normale » in una categoria a parte; poi quello dell’omosessuale, del sadomasochista, dell’esibizionista, del feticista, e via discorrendo. La psicoanalisi, dal canto suo, teorizzava che l’essere umano nasce, vero prodigio di circo, avendo addosso, o almeno a disposizione, tutti i costumi di questo carnevale della sessualità.
Da quando ho incominciato ad interessarmi della psiche umana, mi sono imbattuto nella diagnosi. Dapprima vi ho creduto assolutamente, tentando di calare ogni persona che incontravo dentro ad uno schema diagnostico; poi mi sono accorto di come le diagnosi siano abiti che non si adattano mai alle persone singole; malgrado i più abili lavori di aggiustamento che una sartoria potrebbe fare. Ogni essere umano sfugge, sempre, con ostinazione, ai tentativi più volenterosi di imprigionarlo in uno schema rigido. A questo punto sorge (sorse anche in me) l’iconoclastia antidiagnostica. Con furia mi sono messo a distruggere le nuove icone, le cartelle cliniche, le descrizioni precise. Ora mi sono stancato anche di questo furore delirante. Mi rimangono molti brandelli variopinti e rimane, però, intatta e insoddisfatta la voglia di capire gli altri e me stesso.
Potrei assumere l’atteggiamento moderato di chi dice che le diagnosi e le definizioni hanno un carattere strumentale ed operativo, che pur sapendo che l’essere umano è molto più ricco bisogna comunque tentare di descriverne il comportamento. lo, però, conosco anche il pericolo che si nasconde nelle parole.
Le parole non soltanto descrivono; ma, spesso, creano. Le parole sono altro dal desiderio; ma condizionano il desiderio. Io sento e dico con le parole che io non sono. sono parole; ma esse sono presenti nel miei pensieri e, spesso, le mie parole e la mia carne sono sentite e pronunciate allo stesso tempo.
Il catalogo delle perversioni, quindi è un elenco di diagnosi e una serie di «parole». Accettarlo è riduttivo rifiutarlo interamente pare impossibile. Non voglio, però, esserne prigioniero. Voglio cercare di liberarmene almeno in parte. Ho contrapposto, prima, il narcisismo al sadomasochismo: questa è una contrapposizione che mette in re!azione. Ho sommato due concetti che non bisognava sommare. Il narcisismo non faceva parte del catalogo delle perversioni, tutt’al più è la causa di alcune di queste, il sadomasochismo, invece, è una perversione. E allora? Allora si vede che ho preso questi due vecchi. concetti e li ho un po’ rimescolati e stravolti.
Il narcisismo e il sadomasochismo sono, per me, due modi fondamentali di affrontare la relazione sessuale, e poiché ogni relazione sessuale è anche una relazione e ogni relazione una relazione sessuale, possiamo dire che sono due modi fondamentali di affrontare la relazione.
Il primo modo, quello narcisistico, affronta la relazione tentando di negarla. O meglio: il narcisista. tenta di negare l’altro come altro riconoscendogli soltanto una presenza fantasmatica nell’obbiettivo di renderlo innocuo e controllabile.
Il sadomasochismo, invece, va alla ricerca dell’altro, come tale, nella sua concretezza. Se l’altro non è sentito e vissuto come altro, il sadomasochismo non è sadomasochismo. Il comportamento sadico sessuale consapevole, non solo vuole, ma deve sentire l’altro come altro da far soffrire. Più l’altro è altro, maggiore è il piacere di infliggergli sofferenza. Nel rapporto sadico è indispensabile percepire l’altro nel!e sue vibrazioni sensuali per meglio coglierle realmente, per vibrare con precisione il colpo. Così nella situazione masochistica l’altro deve essere sentito come altro che, nella sua alterità, infligge la sofferenza.
Perché il piacere sia pieno bisogna convincersi che sia realmente un altro a stringere, ad opprimere ad umiliare. L’Io non deve sapere nulla dei meccanismi proiettivi per i quali l’altro diviene anche non altro in un gioco di specchi contrapposti. Il gioco ha le sue regole e solo una stupida pedagogia considera il gioco come un’illusione.

Un pomeriggio venne da me un ragazzo: gentile e bruttino. Con una vocetta sentimentale incominciò a parlarmi usando molte espressioni convenzionali, da rotocalco; ma c’era in lui qualcosa di leggermente inquietante. Pian piano, nel corso della conversazione, vennero fuori fantasie sadomasochistiche attente e precise. Poi mi parlò dell’esperienza di collegio, dei terribili giochi cercati e subiti, echeggianti il ricordo letterario di Musil e del suo giovane Torless. La volta successiva ritornò; era passata una settimana; ma, dalle sue parole, mi accorsi che aveva percepito tutto nel corso del nostro precedente incontro: il mio abbigliamento, la mia casa, gli odori, i suoni, i rumori del quartiere.
Un inizio di transfert? Senz’altro; ma anche qualcosa di più. Un bisogno di attenzione, di mettere all’erta la pelle e lo sguardo, per essere pronto a non perdere la possibilità di ferite da infliggere e da subire. Altrimenti la realtà sfugge, il pia. cere rischia di non essere avvertito, di presentarsi senza la sua punizione e questo non sia mai! Ecco: di nuovo la difesa, il desiderio del piacere e il piacere del desiderio che fanno muovere l’essere vivente o meglio: che cominciano a muovere nell’essere vivente. Ma ciò che è intorno è sentito come rigido ed ostile; il desiderio si smarrisce e si disorienta, si sente debole, ha paura; ma non fugge: attacca.
La sofferenza è un modo di appropriarsi di una relazione difficile in cui il senso di colpa si presenta subito, perché è già presente tutto intorno. Il desiderio è piacevole; ma cerca di travestirsi con i panni del suo contrario. Sono nuovamente presenti le quattro cause che hanno originato anche il narcisismo: la frustrazione del desiderio, da cui la ribellione compensatoria; la paura di un’ulteriore impossibilità della relazione, da cui inizia il meccanismo di difesa. Il piacere nega se stesso, negando il rapporto diretto con l’altro: è indispensabile il diaframma del dolore; ma, poiché si cerca fuori di sé la compensazione, non si devono qui chiudere le finestre sull’esterno, anzi: i giochi sono capovolti, i gesti vengono rovesciati.
Il sadismo e il masochismo riescono di rado a raggiungere la consapevolezza. Nell’analizzare il narcisismo e il sadomasochismo, ho ritrovato in pieno il pregnante significato dell’inconscio. Io ho più volte ripetuto che la psicoanalisi tradizionale ha eccessivamente schematizzato la psiche umana, dividendo in modo troppo netto il conscio dall’inconscio (inserire il concetto di pre-conscio non è sufficiente). Pur continuando a ritenere valida questa mia affermazione, mi rendo però conto di aver avuto troppa vergogna dell’inconscio; come se offrisse una scappatoia troppo facile per non spiegare ciò che non si ha il coraggio di capire.
Eppure l’inconscio non è un’ingenua trovatina tardo ottocentesca. È la più importante scoperta impossibile del nostro secolo. L’inconscio mi si è ripresentato ora con tutta sua oscura forza. Il narcisismo si presenta compatto; ma con una gran parte di sé rimossa e, sotto ancora, ci sono fantasie sadomasochistiche decisamente inconsce; il sadomasochismo ha, da parte sua, operato una massiccia rimozione del narcisismo, producendo un lo claudicante e falsamente onnipotente. Sulla strada del sadomasochismo ho anche trovato, però, un atteggiamento particolare, che mi ha, lì per lì, lasciato perplesso. È, questo, un atteggiamento al quale la psicologia non ha ancora affibbiato un nome-etichetta; perciò si tratta di qualcosa di particolarmente sfuggente; ma che si può riscontrare nella realtà della persona, preciso e puntuale.
È l’atteggiamento di colui che, pur avendo poche fantasie sadomasochistiche consce, è riuscito a liberarsi sufficientemente del meccanismo di difesa narcisistico e, quindi, percepisce l’altro intensamente, perché cerca dall’altro gratificazione, consenso. L’altro è percepito come altro perché possa appoggiare ed applaudire e, soprattutto, ammirare. Intendiamoci, non parlo del desiderio di ammirazione ottuso ed opaco del narcisista per il quale l’altro e gli altri sono una presenza indistinta, una platea, immersa nel buio, di fronte alla quale egli recita.
In questa situazione, gli altri debbono necessariamente essere altri, altrimenti non si gode a sufficienza, non si è adeguatamente rassicurati.
A questo punto del mio discorso, sono assolutamente certo che i narcisisti che stanno leggendo queste righe si sono identificati con quest’ultimo tipo di persone. Questo è, invece, un atteggiamento che si riscontra abbastanza raramente; ma la cui presenza ha rischiato, per un po’, di mettere in crisi la mia bella visione dicotomica e speculare. Fortunatamente, i quattro meccanismi di cui ho detto più sopra si trovavano già ad essere elementi unificanti originari dell’atteggiamento narcisistico e di quello sadomasochistico; atteggiamenti la cui differenziazione avviene poi per ragioni legate alla storia del desiderio individuale.
Questo, apparentemente, terzo atteggiamento, che chiamerei: «senso antologico di castrazione» lo situo sulla strada del sadomasochismo.
La frustrazione originaria costituisce la persona come mancante. La paura e la difesa mettono in atto un particolare tipo di compensazione, per cui non è tanto il senso di colpa ad agire, quanto il bisogno di una gratificazione immediata, che viene trovata nell’ammirazione protettiva. Se portiamo a fondo l’analisi di questa personalità e di questi atteggiamenti, troviamo una gran quantità di desideri sadomasochistici abortiti ed un egoismo tenace e caparbio che ha superato persino il ripiegamento sul sé narcisistico. Chi si trova immerso in questo atteggiamento ha, spesso, un estremo bisogno del sentimento di riconoscenza da parte dell’altro. Vediamo questi individui profondamente offesi, quasi si sentissero espropriati, quando un dono che essi fanno, anche piccolissimo, non viene notato dall’altro che non si affretta a manifestare subito una profonda gratitudine. Colui che si trova in questa situazione è anche un avaro, quanto e, forse, più del sadomasochista.
Il denaro ha per lui un profondo significato simbolico; riesce a destargli immaginazioni di aggressione, agita e subita. Costui prova spesso una profonda avversione ad entrare nei negozi, soprattutto in quelli in cui il rapporto col venditore è più personale, con il diretto scambio tra merce e denaro.
Anche per questo, forse, l’economia di mercato ha inventato la formula del grande magazzino, luogo in cui il rapporto è più anonimo, dove manca la figura super-egoica che ti assilla osservandoti mentre chiedi e strappandoti direttamente di mano il denaro. Nel grande magazzino le commesse e i commessi sono persone distratte e disinteressate; la merce è sciorinata in un’inerzia spesso caotica; il denaro viene ingoiato da un aggeggio meccanico che produce suoni fantascientifici, non ben distinto dalla figura della persona che lo manovra.
Le persone che si trovano in questa situazione non reggono alla competizione, a differenza del narcisista che la cerca; ma, spesso, non la percepisce. Qui, il sadomasochismo fa che la competizione sia desiderata; ma il timore della sconfitta rende spesso troppo insicuri e perciò rinunciatari. In questo aspetto possiamo forse vedere il punto che unisce narcisismo e sadomasochismo:
entrambi sono comportamenti sempre sessuali, perché sessuale è, sempre, ogni comportamento.
Non me la sento, e non ne ho voglia, di. definire qui che cosa sia la sessualità (debbo purtroppo riconoscere che il non detto soverchia, sempre e di gran lunga, il pochissimo detto).

Sessualità e rapporto narcisistico, sessualità e rapporto sadomasochistico (perché pur sempre di rapporto si tratta) sono comportamenti che si circoscrivono entro la dinamica vitale. Wittgenstein ha detto: «La morte non è evento della vita. La morte non si vive» (cfr. «Tractatus », 6.4311).

La psicoanalisi, in una balorda crisi metafisica, ha teorizzato la pulsione di morte; ma noi dobbiamo sapere che la morte che avviene è tutt’altra cosa: la vita è circoscritta, tutta, nella vita. È troppo ingenuo far coincidere il dolore con la morte, e forse anche troppo comodo. Il dolore è distruttivo appunto perché non distrugge del tutto. Le fantasie dell’adulto e del bambino sentono il dolore come male proprio perché è presente come forza della vita.
Ho detto che la cultura è rappresentazione, e la rappresentazione è sempre rappresentazione di una lotta fra il bene e il male, i quali non sono altro che il piacere e il dolore.
Ho anche detto che questa rappresentazione si realizza negli istanti dell’attesa. La fantasia colma i vuoti apparenti (perché mi sembra abbastanza evidente che non esiste, veramente, il vuoto). Nell’attesa in cui sorge e si distende il desiderio nasce il nostro bisogno di inventarci il tempo.
Il tempo misura la durata del desiderio. L’attesa è sempre un proiettarsi all’esterno. In questo dirigersi, il desiderio aspetta. In questo aspettare sorge il concetto di tempo. Un concetto, questo, la cui unica raffigurazione corretta è rappresentata dalla misurazione che ne fanno i nostri imprecisi orologi; imprecisi sempre, perché sempre altro dal desiderio; ma, nello stesso tempo, sempre esatti, perché sono l’unica oggettivazione possibile del tempo.
In questa temporale estensione del desiderio sorge il teatro della cultura: tempo e cultura, tempo e arte, coincidono.
La rappresentazione desiderante non coincide con la pulsione desiderante; ma le si sovrappone. I contorni quasi combaciano; ma non perfettamente. Il tempo non è il significato dell’esistenza. L’esistenza si inventa il tempo per colmare e placare la tensione del desiderio. Il tempo è il senso della rappresentazione. La rappresentazione desiderante si sovrappone al desiderio, non né è assolutamente in contrasto:
potrei dire che è un desiderio che si sovrappone ad un altro desiderio.
La rappresentazione desiderante si distende nel tempo per appagare ciò che il tempo ci fa sentire come di là da venire.
A questo punto, le avventure mentali possono essere molte: giochi e capriole logiche che, forse, mi costringerebbero a trarre una conclusione che non voglio, cioè che la rappresentazione desiderante, pur avendo come suo senso il tempo, sorgerebbe per contraddire il tempo, per opporglisi, per costringerlo in un presente atemporale.
Cerco di spiegarmi meglio: il tempo e la rappresentazione desiderante sorgono entrambi quando il desiderio attende, e il desiderio è sempre un po’ in attesa. La rappresentazione desiderante sorgerebbe allora per colmare la sensazione di vuoto dell’attesa, la quale si presenta a noi perché c’è il tempo; quindi la rappresentazione desiderante sorgerebbe per distruggere il tempo. Ma, se il tempo è il suo significato, la rappresentazione desiderante sorgerebbe per distruggere il proprio significato.
lo che amo le contraddizioni sono talvolta messo a disagio dalle contraddizioni stesse. Questa è una di quelle contraddizioni che rischiano di modificare i miei pensieri, rendendoli sterili ed inefficaci. La soluzione la trovo, forse, immergendomi con un po’ meno di paura nel concetto di tempo.
Finora ho parlato di tempo come di qualcosa di reale e di misurabile solo con se stesso; ma gli orologi non sono il tempo, ne sono soltanto la misura. Il desiderio e la rappresentazione desiderante non sono unidirezionali come il tempo; essi si diramano per vie molteplici. Il tempo sorge per imprigionare il desiderio: prigionia assai utile; ma che è solo una delle possibilità del desiderio. Quindi, la rappresentazione desiderante ha come suo senso il tempo; ma non coincide con esso: sorge nel tempo, si distende nel tempo, ma tenta, perennemente, di liberarsi da esso.
Ecco perché io penso che la rappresentazione del desiderio più immediata, quella più vicina al desiderio stesso, sia la musica. La musica fa del tempo la sua ossatura; ma riesce quasi (o forse ci riesce del tutto) a distruggerne l’unidirezionalità.
Il tempo della musica è il ritmo. Il ritmo è il tempo nel momento stesso in cui è sentito, nel momento, quindi, in cui, quasi, non è ancora tempo; ma è solo pulsione che si dirige e che, in questo suo dirigersi, gode nell’ascoltare il suo movimento. Movimento che non è spazio, ma è ritmo.
Il ritmo è costituito dall’alternarsi della pausa e della presenza: pausa che diventa presenza e presenza che si trasforma in pausa.
Il bene e il male, cioè: il piacere e il dolore, pulsano e si distendono in un ritmo. lo, però, nego che il dolore sia necessario al ritmo del piacere. Tutto viene ritmato; ma il ritmo è subito, è prima: nel distendersi stesso del piacere. Se non ci fosse il ritmo il piacere, è vero, non percepirebbe se stesso; ma io riaffermo, con tutte le forze di cui sono capace, che il ritmo del piacere non è dato dal suo alternarsi col dolore, bensì dal piacere che scopre se stesso. Il dolore è la contraddizione non necessaria del piacere e viene incluso nel ritmo malgrado il ritmo stesso.
La rappresentazione sorge nell’attesa, quando l’attesa viene percepita come tale. Il pensiero si realizza nel teatro: è una fantasia che coincide, quasi, con la realtà; ma che non è la realtà. Il teatro è la prima e forse l’unica forma di cultura. La tradizione storica pretenderebbe che il teatro sia scaturito dal rito.
Nei tempi antichi, si racconta a sostegno di questa tesi, avevano luogo rappresentazioni sacrificali. Presso i villaggi, in luoghi aperti e sacri, talvolta presso qualche grande albero, la gente si radunava per sacrificare a qualche dio (alcuni dicono a Dioniso). Il sacerdote raccontava le imprese del dio, il popolo punteggiava questo racconto con canti. In seguito, il racconto divenne rappresentazione, i fedeli, da partecipanti al rito che erano, si trasformarono in spettatori. I compiti si differenziarono in modo più netto: nacquero gli attori, qualcuno scrisse i testi e le musiche, sorse il teatro; in seguito sorsero i teatri.

lo intendo capovolgere questa storia, affermando che: prima sorse il teatro, poi, sul modello del teatro, sorse il rito. Secondo me il rito è figlio del teatro, e non viceversa. Il sogno è torse la prima forma concreta di teatro: nel sogno l’uomo racconta a se stesso, vivendo li, i propri desideri. Un lapsus che tutti facciamo molto frequentemente è quello di chiamare sogno uno spettacolo cinematografico o una rapo presentazione teatrale, non facciamo più nessun caso a questo lapsus, poiché lo riteniamo una di quelle ovvietà che non hanno bisogno di spiegazioni.
Tutti percepiamo il sogno come rapo presentazione, e viceversa. I sogni si sono formati per primi; poi, lentamente, dalle rappresentazioni del pensiero, nel sonno o nella veglia, si passò a brevi rappresentazioni quotidianamente agite: il canto, il lamento, il passo danzante; si incominciò ad usare suoni e gesti per esorcizzare la paura. Questi suoni e questi gesti confluirono poi nel rito, dove si organizzarono nell’intenzione di raccontare una storia, che servisse ad esorcizzare il pericolo.
Il rito è ancora così vicino al desiderio che riproduce, quasi intatto, il ritmo del piacere. Il rito si snoda con un ritmo esplicito e quasi sempre evidente: i gesti, le parole, gli odori, riproducono la danza originaria, la danza scaturita. dal desideri del sogno e della veglia. Il piacere e la pulsione libidica pulsano seguendo il loro ritmo. Il sogno, il pensiero e la danza mimano questo piacere cogliendolo, quasi, nell’istante stesso in cui sorge. Lo riproducono, lo fanno scaturire dalla successione dei gesti, fino a produrre una rappresentazione autonoma, organica, che si distende e si articola nel ritmo suo proprio.
L’apparente autonomia che i gesti rituali sembrano conservare nel confronti della loro fonte piacevole serve a realizzare la loro funzione di esorcismo. L’essere umano sente fin da subito che la frustrazione del desiderio non è causata soltanto dalla propria debolezza; ma, soprattutto, da una forza esterna cattiva e vendicatrice.
Credo che il primo pensiero che nasce dopo la frustrazione esprima il timore di essere vittime della punizione. È impossibile, per l’uomo, accettare la precarietà sentendola solo come tale; la precarietà è sentita anche come opaca e impersonale, lascia l’uomo esposto al pericolo oscuro della solitudine. Ho detto prima che l’uomo è programmato per la relazione: tutto l’individuo, tutto l’organismo umano, è programmato per la relazione, strutturato per reagire in rapporto con l’altro da sé, inanimato o animato che l’altro sia. La psiche, in particolare, è programmata per l’inter-azione con gli altri esseri viventi e l’uomo accetta con fatica l’idea che alcune delle cose che lo circondano siano inanimate. Basta osservare qualcuno alle prese con una radiolina che non funziona, per accorgersi, dai suoi gesti e dalle sue espressioni, che in fondo rimane la convinzione che la radio sia ammutolita anche con una intenzione, per fargli dispetto.
Il desiderio, quando è frustrato, sente rivolgerglisi contro un altro desiderio, o meglio sente che è il desiderio di qualcun altro che gli si oppone, anche quando non è così.

Il rito, come dicevo, con i suoi gesti carichi di libido, scarica parte del desiderio, appaga e, nello stesso tempo, protegge dalla punizione.
Spesso, le motivazioni del rito, quelle remote come quelle immediate, non sono neppure più percepite ed il rito stesso realizza tutto il suo significato perché difende dalla paura che il piacere venga frustrato appagandolo in modo autonomo.
Il desiderio, la pulsione, la sessualità, si realizzano nella relazione con l’altro. La difesa immediata da questa relazione, o meglio dalle possibili frustrazioni che dalla relazione possono derivare, può essere di due tipi. Nel primo tipo, la difesa non tenta di negare il rapporto con l’altro; tenta piuttosto di rappresentarlo, colmando così il vuoto creato dalla tensione dell’attesa: ed ecco la rappresentazione, il teatro, la cultura. Il teatro colma l’attesa, divenendo egli stesso piacere ed appropriazione, anche se, paradossalmente, riproduce una miriade di situazioni di attesa. Nel secondo tipo, la difesa mette in atto meccanismi che distaccano dal rapporto con l’altro.
Il narcisismo e il sadomasochismo sono atteggiamenti in cui il piacere del rapporto libidico si traveste e, talvolta, si disorienta. È, questo, un disorientamento profondo, che consegue a millenni di instabilità e di paura. Sarà mai possibile superare questa paura?

Esiste la possibilità di un rapporto che sia sessuale e felice nello stesso tempo? È possibile sentire l’altro come tale? È possibile trovare la propria realizzazione in un rapporto che percepisca l’altro nella sua autonomia e nella sua piacevolezza? Se gli altri sono altri, possono ferire: sarà possibile non temere queste ferite?
Noto che queste ultime ricche sono cosparse dai graziosi riccioli insinuanti dei punti interrogativi.
Questo grazioso ricciolo pretende, talvolta, una risposta; ma io penso che la risposta sia, per ora, impossibile.
Potrei dichiarare che mi accontento di sapere almeno ciò che non bisogna volere. Potrebbe bastarmi conoscere quali sono gli atteggiamenti in cui è pericoloso cadere ed imparare a difendermene. Significherebbe difendersi dalle difese: quante contraddizioni e quante parole!! Finalmente eccoci alla smilza e petulante asticciola del punto esclamativo; che, però, devo ammettere, non è venuta a concludere una risposta. Un esclamativo messo lì soltanto per rafforzare una constatazione.
Una parola sta roteando vorticosamente nella mia mente; una parola che non ho il coraggio di esprimere; una parola che viene di lontano, da un’altra lingua e, quasi, da un altro mondo. Una parola che potrebbe servirmi a definire l’atteggiamento possibile, che io ritengo accettabile e produttivo e anche politicamente soddisfacente. Ho paura però di definire un’altra volta, con troppa concretezza, un comportamento umano.
La parola che ho così paura di dire è: «Eros».
A me richiama alla mente una divinità lontana, gradevole e felice.
Ad altri può rievocare immagini meno gradevoli, o addirittura brutali.
Una parola a metà suono e a metà dio che io pongo a conclusione di questo discorso, per un mio incomprensibile bisogno di mitologia. Voglio dire che, secondo me, il rapporto pieno e diretto, che non teme la frustrazione e che non nega l’altro, è il rapporto erotico.
Ma non voglio difendere oltre questa mia scelta di una parola-dio e l’aggettivo che da essa deriva. Bisognava pur concludere con una cadenza elegante.

Psicoanalisi contro n. 1 – Eros e Bios: anche la nascita del rito (2^ parte)

mercoledì, 2 maggio 1979

La cultura del potere cerca dal suo canto di strumentalizzare ogni forma espressiva, da qualunque parte essa sorga e qualunque istanza cerchi esprimere.
La cultura popolare non è stata, quindi, la cultura degli oppressi che parla di libertà e di liberazione; tutt’al più è successo e può succedere che dalle oscure profondità di un malessere quasi inconsapevole sorgano dure immagini di rivolta, mescolate, però, sempre, a considerazioni e pensieri che parlano di rassegnazione e di accettazione, seppure amara.
Il teatro in genere, non solo quello popolare, ha avuto, sempre, come suo argomento privilegiato, la lotta del bene contro il male 0, meglio, dei buoni contro i cattivi. La cosiddetta cultura popolare, essendo, come ho detto, soprattutto, teatro, ha espresso un’infinità di storie incentrate sulla lotta tra i buoni e i cattivi. Di rado, però, questa lotta ha avuto il significato di lotta per la giustizia, intesa in senso vasto e collettivo; per lo più, si è trattato di dimostrare che il singolo cattivo deve perdere, e allora sono tutti contenti; oppure, in un accesso masochistico, è il singolo buono che viene sconfitto, e allora tutti sono tristi. È più un meccanismo compensatorio che una reale volontà di ribellione, sebbene, per fortuna, talvolta, serpeggi anche questa.
Io penso, tutto sommato, che potremmo ridurre tutta la nostra cultura, sia quella prodotta dai padroni che quella balbettata ambiguamente dai servi e dai mezzi padroni, ad una infinita variante dell’istanza del teatro.
La filosofia e la scienza, nel tentativo di rispecchiare il mondo, non fanno altro che rappresentarlo e l’arte, non importa se attraverso suoni, immagini o parole, racconta sempre una storia. Nella filosofia, nella scienza e nell’arte la mente umana ha sempre bisogno di ritrovare i buoni e i cattivi. La filosofia e la scienza, che sono più narcisistiche fanno sempre vincere i buoni, cioè quel simpatico personaggio che si chiama verità.
Nell’arte si annidano e si manifestano con maggior precisione le istanze sadomasochistiche; i buoni talvolta soccombono; ma la rappresentazione è sempre la stessa.
Potrebbe sembrare che io sia caduto in una contraddizione perché, prima, ho detto che l’arte popolare è in gran parte conservatrice e permeata dai valori della classe dominante, poi, dico che ogni espressione culturale esprime la lotta tra il bene ed il male. Se così fosse, bisognerebbe riconoscere nella cultura popolare un profondo desiderio di rinnovamento, di ribellione e di giustizia.
Io ritengo, invece, che l’espressione popolare così succuba e condizionata da coloro che la dominano, accetti i principi di bene e di male, di giusto e di ingiusto, che le vengono imposti, li faccia suoi e li sostenga. Ho detto anche che tutta la cultura si esprime attraverso la rappresentazione. La cultura propone una visione del mondo, questa visione è sempre un’interpretazione, quest’interpretazione consiste nel proiettare al di fuori i desideri e i bisogni dell’uomo.
La realtà è la mia ipotesi di realtà; cerco di costruire una realtà in cui sia possibile progettare la realizzazione dei desideri che mi sento dentro. Il male è ciò che si oppone ai miei desideri; i miei desideri stessi sono il bene. I desideri e i bisogni sono molti, spesso in opposizione tra di loro; ecco perché la visione del mondo è così articolata e contraddittoria.
Io sono il terreno sul quale i miei desideri combattono; questa lotta la voglio vedere anche fuori di me, perché sento che soltanto attraverso il fuori di me i miei desideri acquistano un significato.
Proviamo ad immaginarci assolutamente soli, aventi come unica caratteristica quella di essere vivi: la nostra mente non ce la fa. La vita è costitutivamente relazione. Possiamo, al massimo, immaginarci fluttuare nello spazio, possiamo immaginare i nostri gesti liberi dal vincolo della gravità, possiamo vederci muovere con piacevoli guizzi; però, abbiamo pur sempre immaginato noi stessi immersi in qualcosa che sta fuori di noi; ma che fa parte di noi; o meglio: noi riusciamo a percepirci come viventi soltanto in relazione a questo vuoto e a questo spazio in cui abbiamo immaginato di star piacevolmente sospesi. Non credo neppure che riusciamo ad immaginare un vuoto e uno spazio assoluti: se noi descriviamo a noi stessi lo spazio deserto in cui abbiamo immaginato di trovarci, ecco che ci  accorgiamo che questo non è altro che lo spazio cosmico; così come lo abbiamo immaginato da bambini; oppure lo assimiliamo all’idea di un grande mare e le nostre braccia e le nostre gambe sentono la fresca consistenza dell’acqua. In un’unica espressione, potrei dire che anche se volessimo immaginarci soli in un luogo deserto noi costruiremmo, noi stessi e le nostre immagini, in relazione con questo vuoto deserto, che sarebbe, oltretutto, percepito da noi con caratteristiche palpabili e precise.
Io sento di non essere altro dalla mia esperienza. Non voglio fare un discorso di forma, di io, di contenuto e di esperienza; voglio solo dire che io sono la mia esperienza e la mia esperienza si costituisce nella relazione tra l’io, che a sua volta non è altro che un insieme di relazioni, e un non io, oppure un oggetto, come siamo stati abituati a chiamarlo, che però non è altro se non la situazione stessa di relazione, o la situazione esperienziale.
Possiamo distinguere due momenti fondamentali del progetto esperienziale: il primo è il momento della relazione e basta; il momento in cui i nostri desideri ci formano come esseri relazionati; e in questa situazione la frustrazione del desiderio, e tutto ciò che ne consegue, ha la caratteristica dell’immediatezza, quasi del non voluto. Il secondo momento fondamentale è quello in cui l’esperienza viene oggettivata viene raccontata, nel tentativo di essere capita; in questo momento l’esperienza viene rappresentata, Il mondo in cui l’individuo agisce diventa teatro. Spesso la nostra vita, nei sogni, viene raffigurata con l’immagine di una sala di teatro o un palcoscenico; in questo n:omento l’uomo vive e recita un copione che egli stesso si è scritto, o che ha creduto di scrivere.
Vico diceva che è possibile comprendere, fino in fondo, soltanto ciò che si è prodotto direttamente: l’uomo non potrà mai comprendere la natura perché essa non è una sua creazione, l’uomo può comprendere la storia perché l’ha costruita egli stesso. Io non credo che l’uomo sia più direttamente creatore della storia che della natura; però so che l’uomo racconta a se stesso la propria storia, nel tentativo di comprenderla; e non solo: con beneplacito di Vico, direi che l’uomo racconta, oltre che la propria storia a se stesso, anche la storia dell’universo, a sé e agli altri; la storia dell’universo intero: del sole e delle formiche. Tutto diventa un grande teatro in cui l’uomo spera di essere l’autore e il regista, oltre che l’attore principale, il protagonista, beninteso.
Ma l’uomo non racconta la storia della realtà solo per riuscire a capirla, la racconta anche col desiderio di controllarla e dirigerla. Se e vero che egli scrive il copione deve essere anche vero che può controllare gli avvenimenti e determinare il finale.
La vita, perciò, diventa meno prevedibile; tutto accade come sulla scena; il copione, tutto sommato, protegge da un’inserzione troppo massiccia dell’ignoto. Ciò che comunemente viene chiamato « cultura» non è altro, secondo me, che la rappresentazione. L’uomo e il suo mondo vengono rappresentati dalla cultura, da quella dei padroni come da quella dei servi.
Arrivati a questo punto del mio discorso, potrebbe sembrare che io abbia voluto dire: «Vi è un momento primo originario (l’infanzia?), in cui l’essere umano si costruisce come relazione e tenta di vivere i propri desideri e un seguito (cronologicamente concepito) in cui l’uomo riflette sulle proprie relazioni, sulle proprie esperienze e tenta di inserirle in una scena organica, rappresentando la vita e tutto ciò che entra a far parte della sua vita». Questo secondo momento sarebbe la cultura. Io, però, non volevo dire affatto questo.
Secondo me, questi due momenti non hanno una sistemazione cronologica. Io voglio dire che l’uomo è i propri desideri; e si struttura nella relazione con l’altro perché questa è la direzione dei desideri. Perciò non vi è un momento, o dell’infanzia, neppure la più remota, o della vita interiore, in cui l’Io sia identico a se stesso e coincida pienamente con il sé e, in seguito, un istante successivo in cui questo Io desideri e si proietti fuori di se stesso, progettando. Io affermo che l’essere umano è questo progetto: in principio non c’era altro. Il secondo momento non realizza istanze e bisogni dell’età « adulta ».
Il bisogno di rappresentare è presente fin da subito nell’essere umano. Questo: «fin da subito» è abbastanza difficile da collocare. Quando il bambino comincia ad attendere? Credo sia impossibile dirlo; ma è in questo momento che egli incomincia a rappresentarsi la realtà.
L’attesa del soddisfacimento del desiderio viene riempita da ricchi giochi fantastici; nella tensione dell’attesa vengono evocati personaggi che, pur avendo qualche legame con il desiderio, arrivano, talvolta, da regioni lontane, inaspettate; proprio come a teatro. E quando il desiderio crede di potersi scaricare (perché il mondo esterno è pronto a soddisfarlo finalmente) accadono due cose bizzarre. La prima cosa bizzarra è che alla scarica del desiderio si sovrappongono tutte quelle immagini fantastiche, teatrali, che si erano prodotte nella tensione dell’attesa, e perciò la rappresentazione continua. La seconda cosa bizzarra è che il desiderio, nel momento del suo appagamento, si trova indebolito; buona parte della sua energia era stata assorbita dalla rappresentazione.
È un’esperienza comune quella in cui, dopo aver tanto atteso ed immaginato un avvenimento piacevole, esso, quando ci si presenta, ci lascia insoddisfatti, come qualcosa di ormai stanco e sbiadito.
In tutte le fantasie che immaginano una realtà è sempre presente la lotta tra i buoni e i cattivi, tra i desideri e ciò che loro si oppone. Talvolta gli eroi siamo noi stessi, talaltra sono invece nostri sostituti; ma la lotta è continua ed incessante. La cultura non è quindi lo specchio della realtà: la cultura è il nostro progetto della realtà. È il teatro del teatro.
La filosofia, l’arte della classe dominante e la cultura popolare tentano tutte di dare una visione organica e complessiva dell’uomo e del mondo. In nessuna epoca queste tre espressioni culturali hanno agito separatamente; tutte e tre unite sono «la cultura di una civiltà». Anche ogni singolo essere umano, vivendo, rappresenta, a se stesso e agli altri, la propria vita.

Ritengo che siano sempre compresenti e complementari tre istanze psichiche fondamentali: la prima è la relazione esperienziale che si costruisce attraverso la vita e che continuamente progetta e tenta di controllare; la seconda è la rappresentazione che io mi faccio di ciò che ho e di ciò che sono; la terza, che si potrebbe anche considerare un aspetto della seconda, consiste nel mimare continuamente la nostra situazione esperienziale; nell’essere contemporaneamente noi stessi e gli interpreti di noi stessi.
Non riesco a decidere se, per l’uomo, venga prima l’esperienza o l’espressione di questa; forse non è di nessuna utilità il cercare di scoprirlo. Chi muove e sente attraverso i movimenti e attraverso sensazioni, esperisce se stesso. Un se stesso, però, che non è un substrato stabile e individuabile, attorno al quale girano le sensazioni; ma è un fascio di rapporti in cui le sensazioni sono costitutive. Questo non è soltanto un modo di essere e di sentire è anche un modo di comunicare ed esprimersi. Io ho la mia esperienza che si realizza e si esprime attraverso una numerosa varietà di linguaggi. La persona si realizza attraverso i linguaggi che la costituiscono.
Alcune grossolane e semplicistiche teorizzazioni del linguaggio, verbale e non, iniziano col dividere ogni gesto umano in due grandi classi fondamentali: la prima comprende quei gesti che hanno come scopo il produrre; la seconda, quelli che hanno come scopo il comunicare ad altri emozioni e concetti. Questa, potrebbe sembrare una distinzione operativa; che serve a distinguere il materiale da chiarire in modo da potercisi orientare. Io penso, però, che non sia possibile costruire schemi ed operare distinzioni, confini, esclusivamente operativi; dietro allo schema ci sta sempre il significato dello schema.
La distinzione di cui ho parlato prima non opera soltanto come innocua divisione tra la congerie dei gesti umani, tentando di dividere ciò che è linguaggio, che esprime e comunica, da ciò che non lo è; nello stesso momento che opera una distinzione impossibile, spezza in due quella che io chiamo «espressione-esperienza »; cioè spezza in due l’uomo.
Ho detto che è impossibile distinguere i gesti che producono da quelli che esprimono e comunicano.
Ogni gesto ha sempre entrambe le caratteristiche. Prendiamo, per esempio, la serie di gesti miranti a produrre un piatto di cibo cucinato. Lì per lì, questi gesti potrebbero sembrare mossi esclusivamente dall’intenzione di produrre; i gesti del cuoco si articolano intorno ai vari ingredienti della ricetta ed ogni gesto parrebbe soltanto produrre e non esprimere: la mano impugna la frusta che, con il suo dimenarsi, fa gonfiare la chiara d’uovo… poi si taglia il lardo a dadini… poi « si aggiusta di sale e pepe, quanto basta »… e così via. « Dopo aver messo tutto nel forno ben caldo, per trenta minuti circa, si porta in tavola ».
Eppure, io penso, chi ha cucinato il cibo intendeva anche, comunicare qualcosa a coloro per i quali ha cucinato. E io credo che questo avvenga sempre in tutta la serie complessa di gesti che partono dalla prima manipolazione degli ingredienti fino al gesto che posa il piatto caldo sul tavolo. Basta stare a sentire la voce del cuoco che dice: « Spero che vi piaccia »: può significare tante cose; così pure, il gesto del commensale che avvicina la sua posata alla sua porzione di cibo non ha solo la funzione di portare il cibo alla bocca; la rapidità o la lentezza con cui il gesto avviene si trovano a comunicare qualcosa.
Questo vale per ogni gesto che compiamo: dal gesto di Napoleone che si mette da sé la corona in testa al gesto del portiere che apre il cancello.
Mentre fabbrico la mia vita e le cose della mia vita uso,  contemporaneamente, quegli stessi gesti per comunicare qualche cosa.
Nessun essere umano è mai solo, neppure l’eremita nel deserto. Attorno a lui si affolla una grande quantità di personaggi che, talvolta, gli balzano addosso da lontananze dimenticate. L’eremita si inginocchia sulla sabbia; sa di essere osservato, non solo dal suo Dio. Quando diciamo che vogliamo essere soli per essere noi stessi, diciamo una gran sciocchezza; soli non siamo mai, viviamo sempre il nostro teatro. Ogni nostro gesto è compiuto come se qualcuno ci guardasse.
È molto interessante osservare una persona, sola in una stanza; non c’è bisogno di usare gli squallidi trucchi dei laboratori di psicologia sperimentale, che sono trucchi soprattutto umilianti. Basta usare i mezzi della commedia dell’arte, o della pochade fine secolo, o, meglio, basta che pensiamo a noi stessi quando siamo soli. Ognuno di noi, nella solitudine della propria stanza, ha recitato una gran quantità di personaggi. C’è chi si traveste e si guarda allo specchio; c’è chi si siede come ha visto fare in quel film.
Ma il gesto-comunicazione non riguarda soltanto i gesti macroscopicamente teatrali. Poiché nessuno di noi può mai sentirsi, in realtà, completamente solo; ogni gesto deve tenere conto di altre presenze, fantastiche o reali, non importa. Io mi sento sempre anche di fronte ad altri; altri che devo blandire, ingannare, da cui farmi perdonare, ammirare. Perciò ogni mio gesto tende a comunicare qualcosa di me e voglio, anzi esigo, che gli altri lo sappiano.
D’altra parte, anche i gesti che, esplicitamente, sembrano realizzarsi esclusivamente nella loro intenzione comunicante non realizzano, assolutamente mai, la sola comunicazione. Se io parlo a qualcuno per raccontare una mia emozione o un fatto che mi è accaduto, sempre, mentre parlo, costruisco, più o meno consciamente, la mia comunicazione, al fine di realizzare anche scopi che vanno oltre la comunicazione stessa. Questo vale per il discorso che racconta la mia vita passata, come vale per lo sguardo che voglio che esprima tristezza. Con quelle parole non voglio soltanto raccontare che « quando ero ragazzo avevo un amico che forse… ». Con il lento ruotare dei miei occhi, meglio se umidi di lacrime, non voglio soltanto dire all’altro « sono triste ». Tutti questi sono segnali che io uso, intenzionalmente, per ottenere, per produrre qualcosa.
Ogni gesto non è, dunque, soltanto il risultato di una intenzione che mira a produrre un effetto più o meno concreto, unita e sovrapposta ad un’intenzione che tende all’espressione e alla comunicazione;
ogni gesto è anche ricco di intenzioni fattive ed espressive che si sovrappongono, si intrecciano e si condensano.

Il prodotto più autonomo della esigenza di rappresentare è ciò che, comunemente, viene chiamato «cultura». La cultura ha distinto se stessa in tre grandi sottoclassi: la filosofia, la scienza e l’arte. Possiamo tenere per buona questa distinzione: tanto non cambia nulla. Rimane però il fatto che, a mio parere, la cultura è il risultato dell’istanza del «rappresentare ».
Quando un gruppo sociale riflette su’ di sé, sul proprio stare nel mondo e sulle caratteristiche di questo mondo, questo riflettere vuoI dire rappresentare, vuoI dire preparare una scena sulla quale agire, ma questo agire e questa scena costruiscono una realtà che si realizza nel momento in cui viene rappresentata.
Se le strutture psichiche di un gruppo o di un individuo non si trovassero continuamente nella tensione tra pensiero di… e rappresentazione di… noi e il nostro mondo saremmo trasparenti ed immutabili.
Se il mio vivere è anche il mio rappresentarmi, la rappresentazione cambia continuamente, forse impercettibilmente; ma cambia irt ogni istante della mia storia e, ripeto, questo vale per il singolo come per il gruppo. Una cultura, come ho detto prima, è un prodotto abbastanza autonomo e strutturato al suo interno. Gustav Mahler diceva che una sinfonia è compiuta, è organica, come un mondo; un mondo rappresentato, aggiungo io, un mondo che racconta se stesso attraverso i suoni. Quest’immagine vale anche per la cultura nel suo insieme; e la rappresentazione che viene agita è la lotta di due forze: il piacere e il dolore, che per l’essere umano si chiamano sempre bene e male.

Il piacere e il dolore sono presenti alla vita fin da subito; subito quando? Per il momento, dico: « subito» e basta. Questo « subito» esprime una data così precisa da non avere bisogno di altre specificazioni. Stavo dicendo che fin da subito nella vita sono presenti il piacere e il dolore; ma la psiche umana ha, secondo me, una costituzionale incapacità di comprendere, sul serio, il significato del piacere e il significato del dolore. Il piacere è subito sentito come bene e il dolore è subito sentito come male. Ma si potrebbe obbiettare che si può anche invertire il discorso, e dire che la psiche umana sente fin da subito il bene e il male, e che può, proprio avendo una costituzionale incapacità a capirli, sentirli come piacere e come dolore.
Pur riconoscendo che sto giocando ai limiti della metafisica, non accetto il capovolgi mento del mio discorso, perché sarebbe più metafisica ancora; io ritengo che la metafisica, sia ineliminabile; e debba essere affrontata come un male necessario.
Io dichiaro esplicitamente di non essere un metafisica, e questa dichiarazione mi valga come difesa. Dicevo quindi che non accetto il capovolgi mento del discorso: io affermo che il piacere e il dolore sono nella vita fin da subito; ma non sono e non costituiscono la vita.
Vorrei puntare i piedi ben saldi su questo « subito» e cercare di spingermi, con sforzo, un po’ più indietro, in un prima un po’ prima di questo « subito ».
Ho detto che la vita ha il piacere e il dolore; questo lo so, perché anch’io vivo e me li sento addosso fin da sempre, o meglio, fin da « subito» però ho anche detto che non sono la vita. La vita non è altro che un oscuro o chiaro desiderio – desiderio di piacere – quindi la vita è piacere; perché si dirige soltanto attraverso il piacere.
Alcuni vecchi saggi mi urlano di lontano che il desiderio, per il fatto stesso che è desiderio, è mancanza; se è mancanza di piacere, non può essere il piacere, perché il piacere è assente. lo, contro la saggezza degli antichi logici, affermo che il desiderio del piacere e il piacere sono i due elementi costitutivi della vita.
Piacere del desiderio e desiderio del piacere agiscono in un’unica situazione, nel gesto iniziale, nel gesto costitutivo. Ma un aspetto ancora manca alla costituzione del vivente: il suo costituirsi come piacere-desiderio che si costruisce e si realizza, sempre, in una situazione relazionale. Ora mi chiedo: ho ecceduto nel delirio metafisica, oppure nella metafisica delirante?

Ho detto che l’essere umano è costituito dal desiderio del piacere e dal piacere del desiderio ed ho aggiunto che l’uomo è costituito dal suo dirigersi verso l’altro. Il dispiacere, il dolore, l’altro attore della rappresentazione, dove si situa, quando sorge?
Sorge fin da subito; ma non contemporaneamente. Quando l’essere vivo sente il proprio desiderio, percependolo come piacere, nello stesso istante si struttura, dirigendosi verso: bisogno, piacere, desiderio esistono come direzioni, sono una direzione; ma, in questo dirigersi, accade, io credo sempre (ma nello stesso tempo affermo: non necessariamente), che il desiderio venga contraddetto, il piacere inibito, il bisogno negato.
La frustrazione si presenta con immediatezza all’essere che vive, il quale se la sente pesare addosso e da cui deve in qualche modo difendersi.

La nostra cultura ha inventato un mito: Narciso, il figlio di Cefiso e Liriope, innamorato di se stesso, contempla la propria immagine riflessa nell’acqua, la vuole baciare e in questo gesto trova la propria morte, annegato.
La morte di Narciso esprime l’impossibilità reale di una vita tutta ripiegata su se stessa. Narciso muore perché non può vivere. Ci può essere molto di moralistico in questa storia che pare adombrare discorsi del tipo: chi vive solo per sé è sterile; oppure: è giusto che muoia chi non ama che se stesso, e così via. lo preferisco interpretare il mito come mi fa comodo e come più mi piace, giungendo anche a raccontarmelo un po’ diverso, per esprimere a mo’ di parabola un altro mio pensiero: « Narciso, innamorato respinto, cerca di consolarsi corteggiando la propria immagine ».
Narciso è, per me, la rappresentazione di due pensieri. Con il primo pensiero, voglio affermare che la chiusura totale verso l’altro e l’assoluto ripiegamento su se stessi sono impossibili. Non voglio dire che sono moralmente condannabili, non voglio neanche dire che, poiché è impossibile realizzarli fino in fondo, una certa apertura, quindi, verso l’esterno rimane pur sempre. Quello che voglio intendere è che, se l’apertura e la relazione sono costitutive dell’essere umano, i loro contrari lo negano prima ancora che egli si ponga. Attraverso il secondo pensiero, io affermo che il gesto di Narciso è un gesto essenzialmente difensivo: Narciso cerca di sfuggire il dolore negandone l’origine. Narciso chiede a se stesso di appagare il suo desiderio.
Quattro sono le cause di quell’atteggiamento di chiusura che ormai siamo avvezzi a chiamare Narcisismo: 1) la frustrazione; 2) la compensazione; 3) la paura; 4) la difesa. Ne tratteremo ponendole in successione: prima l’una, poi l’altra e così via; ma, in realtà, queste cause si dispongono circolarmente e si rafforzano reciprocamente.
La frustrazione del desiderio è il « secondo-primo» sentimento che l’uomo’ prova (dico: «secondo-primo» perché, pur manifestandosi fin da subito. è uno stato che «consegue a…»): il desiderio del piacere e il piacere del desiderio. nel loro dirigersi verso…, trovano una barriera, un’ottusità, una sordità, cioè una impossibilità. L’essere vivente, che è costituito da questo dirigersi verso…, vive una situazione di sofferenza e disorientamento; ma, nuovamente, il desiderio del piacere e il piacere del desiderio risorgono e l’essere vivente cerca una compensazione: se l’altro da me mi respinge – dice a se stesso l’ individuo io mi appago in me stesso », e la fantasia dilata il «me» smisuratamente.
Come ho già detto, sorgono tensioni successive. È presente. però, la paura continua di ulteriori rifiuti e frustrazioni. Il desiderio del piacere e il piacere del desiderio tentano ancora di dirigersi verso…, tenteranno sempre. Se però il dolore irrompe, con la sua forza di rifiuto, massicciamente e frequentemente nell’esperienza del vivente, costui instaura come meccanismo di difesa, il ripiegamento; tentando di rifiutarsi di percepire il fuori di sé. Ma, abbiamo detto, il vivente è costituito dalla relazione e dal dirigersi verso…. per cui, non potendo abolire questo meccanismo. tenta allora di porsi in relazione con sé, dirigendosi verso di sé. Questo è il primo meccanismo di difesa, forse l’unico. Il narcisismo è una situazione esperienziale che l’essere umano impara ad usare come difesa. La situazione: «da subito» consiste nel desiderio del piacere e nel piacere del desiderio.
Vogliamo chiamare questa situazione «narcisismo primario»? Altrove, io ho usato questa espressione per descrivere questa situazione. Ora non sono più dello stesso avviso; adesso ritengo che sia meglio chiamare situazione narcisistica l’originario atteggiamento di difesa dal dolore, che viene attuato negando il fuori di noi che ci ha respinto; con una negazione che è anche un gesto morale di condanna.
Ho detto che il narcisismo è un atteggiamento difensivo. Vi sono strutture di personalità nelle quali la difesa narcisistica è preponderante, in nessuno. comunque, è completamente eliminabile, poiché, al momento. sono ineliminabili frustrazione, compensazione e paura della frustrazione.
Anche le caratteristiche del narcisismo sono quattro: 1) paura; 2) violenza; 3) antropofagia; 4) labilità dell’investimento libidico. Ecco che ritorna il termine paura. Avevo posto la paura tra le cause della difesa narcisistica, ora la ripropongo, come prima, nell’elenco delle caratteristiche essenziali del narcisismo.
Abbiamo detto che il piacere è alle origini ed è costitutivo dell’individuo, dobbiamo anche dire, però, che la possibilità della distruzione del piacere sorge contemporaneamente al suo stesso sorgere.
La precarietà è un elemento costante del modo d’essere del vivente: l’individuo impara subito come il desiderio, presente sempre, possa sempre essere distrutto. La paura esprime l’atteggiamento tipico di chi teme di perdere ciò a cui tiene massimamente. Il timore e la paura però non rimangono a lungo nell’essere umano senza provocare i loro effetti. Chi teme, chi ha paura, si irrigidisce; acquista in un primo tempo l’atteggiamento di diffidenza poi scopre (per meglio dire: «impara») la violenza.

Il narcisista, o colui che vive un momento narcisistico, è inevitabilmente violento. Si tratta però di una violenza tutta particolare: una violenza inconsapevole. Chi è prigioniero della difesa narcisistica ha negato l’altro; e il modo migliore di negare l’altro è quello di rifiutarsi di percepirlo, rifiutandosi anche di ascoltarlo. Il narcisista non ascolta; egli parla, non sa neppure a chi stia parlando, o meglio, non si pone il problema di essere o no in sin toni a con l’altro; per il narcisista l’altro non ha una realtà che si dirige verso… Chi è chiuso nella difesa narcisistica ascolta soltanto se stesso e violenta l’altro, costringendolo ad essere ciò che egli vuole che l’altro sia.
Ecco perché ho detto che il narcisista è antropofago: perché non permette agli altri di vivere autonomamente; rifiuta loro ogni autonomia esistenziale, perché se fossero autonomi potrebbero aggredirlo. e ferirlo. L’altro viene quindi ingoiato, inglobato nel mondo del narcisista.
Quali siano i sentimenti dell’altro, marionetta nelle mani del narcisista, non importa più; peggio: il narcisista non si pone neppure il problema. Questa incapacità di percepire l’altro ha la sua origine in un rifiuto d’amore: chi mette in atto difese narcisistiche non può cedere la propria immagine ad un altro e a fatica ne sente il richiamo libidico. Potremmo dire che il narcisista « scopa »; ma non fa mai «l’amore ». Questa espressione idiomatica: « scopare », esprime abbastanza bene il complesso stereotipo di gesti compiuti da un narcisista nel rapporto sessuale. Nel rapporto narcisistico, il piacere sessuale cerca essenzialmente gratificazioni sul sé, l’altro è un pretesto, uno specchio che riflette l’immagine del narcisista.
Spesso il narcisista è profondamente convinto di essere «perdutamente innamorato »; ma non appena l’oggetto amato cerca di ribellarsi al ruolo impostogli, di pura ombra senza desideri, ecco che il sentimento così assoluto sfuma. Il narcisista non tollera di avere rapporto con un essere umano che manifesti esigenze, affettive o sessuali, diverse dalle proprie. Quando è costretto a percepire l’altro come altro da sé: il narcisista si sente offeso, perche ne ha paura; e allora l’innamoramento cade con estrema facilità e un nuovo oggetto verrà investito libidicamente, ancora una volta l’innamoramento parrà dapprima emotivamente intenso; ma un’altra volta cadrà, non appena l’altro cercherà di farsi percepire, e tutto ricomincerà da capo.
Avrei voluto descrivere sia le cause della difesa narcisistica, sia le caratteristiche del comportamento narcisistico con asettica neutralità morale; questo – mi hanno detto – è l’atteggiamento del buon scienziato. Mi accorgo di non esserci riuscito: giudizi morali o moralistici permeano le descrizioni che ho fatto sopra; ma non mi va di riprendere tutto da capo e di riesporlo in altro modo. Per fortuna, mi accorgo che mi sono servito di due tipi di giudizio morale non solo contrastanti; ma addirittura opposti fra loro. In un primo tempo, ho detto che la difesa narcisistica sorge in una situazione di precarietà: chi si sente rifiutato nel proprio dirigersi verso l’altro, cerca in qualche modo di superare la frustrazione, negando l’altro e cercando gratificazioni sul sé, e così facendo ho proposto il narcisista come una vittima. In un secondo tempo, ho proseguito il discorso, descrivendo in modo truculento la perfidia del narcisista, trasformandolo così in carnefice.
Per ora lascio aperto il discorso…
L’atteggiamento narcisistico compromette la persona nella sua intierezza; non solo il rapporto sessuale, ma ogni altro tipo di rapporto acquistano un significato particolare. Chi vive narcisisticamente non percepisce i mutamenti di umore di chi gli sta intorno e non percepisce neppure i cambiamenti ambientali. Ricordo un mio paziente molto narcisista il quale continuò a frequentare il mio studio durante un periodo in cui mobili e suppellettili venivano cambiati; egli non si accorse assolutamente di nulla. Quando gli feci notare i cambiamenti rimase stupefatto e anche un po’ offeso. Da quel giorno incominciò, a scadenze regolari, a notare che un mobile era stato spostato, un altro sostituto, che un nuovo oggetto era comparso; naturalmente sbagliando quasi sempre. Una signora dolce ed elegante, convinta di essere molto sensibile, altruista e attentissima ai sentimenti degli altri, dopo aver sentito un mio discorso in pubblico sulla impermeabilità dei narcisisti nei confronti del mondo esterno, rimase alquanto toccata e, da quella volta, quando mi incontra, scrutandomi con attenta amorevolezza, mi attribuisce le situazioni emozionai i più strane e variopinte; palesemente, continua a non percepire niente di me, a non vedermi neppure.
La posi tura narcisistica è, secondo me, l’impedimento maggiore per quelli che vogliono diventare psicoterapeuti. La teoria psicoanalitica classica afferma che la chiusura narcisistica, nel paziente, impedendo l’instaurarsi di un transfert produttivo, rende impossibile l’analisi. Ciò è vero; io ritengo, però, che l’atteggiamento narcisistico sia ancor più pericoloso per chi si assume l’onere di fare il terapeuta. Conosco alcuni terapeuti profondamente chiusi entro le loro difese narcisistiche i quali mi mano l’interesse durante le sedute. Il massimo coinvolgimento affettivo e politico che riescono ad avere con il cosiddetto paziente consiste in un continuo contrappunto, caratterizzato da un continuo, e mentale, «anch’io »… «io invece ».
Qualunque cosa il paziente dica loro il massimo sforzo che riescono a fare consiste nel confrontare continuamente loro stessi con i sentimenti e le scelte dell’altro. Anche il modo di dialogare del narcisista è tipico: o non ascolta, e attende con impazienza che l’interlocutore smetta per cominciare a parlare e gli stesso, oppure replica sempre iniziando con la formula: «io invece… ».
Quando assumiamo l’atteggiamento narcisistico, non riusciamo a calarci libidicamente nell’altro: la carne, il calore, la sessualità dell’altro ci rimangono esterni; guardiamo gli altri senza vederli, parliamo senza ascoltarli, li tocchiamo senza sentirli.
La difesa narcisistica è anche la maggior responsabile dell’ottusità mentale e, talvolta, anche dell’incapacità di memorizzare e di apprendere. Per imparare davvero qualcosa è indispensabile percepire sensualmente tutto ciò che accade intorno a noi. È indispensabile essere all’erta e sentire le somiglianze e le diversità. Studiare quando si è in una situazione di narcisismo significa scontrarsi con la difficoltà a non ricordare ciò che si legge e dover ricominciare ogni volta che si è al termine di una pagina, oppure riuscire a imparare alcune nozioni senza sapere poi quale uso farne, perché si è incapaci di proiettarle sul reale.
Un giovane psicoanalista, ottusamente narcisista, mi poneva, con simpatica umiltà, questo problema: « Io – mi diceva – dopo alcuni anni di analisi personale, dopo aver letto la maggior parte dei testi della letteratura psicoanalitica e psichiatrica, ufficiale e non, quando mi trovo davanti ad una persona e voglio cercare di capirla, ho l’impressione che tutto quello che ho studiato sparisca, o meglio: non lo so applicare; la persona parla e a me viene sonno ». Questa, io credo è una esperienza comune a molti psicoterapeuti alle prime armi. Il rapporto diretto con la psiche di un’altra persona li sconvolge e li disorienta. Però, chi ha condotto la propria analisi senza coinvolgimento reale col terapeuta, cercando soprattutto di parlare e ascoltando poco, se pure è riuscito a chiarire a se stesso molti problemi psichici, non è però riuscito a spezzare il diaframma che è indispensabile spezzare perché una analisi possa dirsi riuscita. È il diaframma costruito dalla paura e dalla difesa narcisistiche. Questa pellicola, talvolta sottile, impalpabile; ma paralizzante come un’armatura, tende continuamente a riformarsi, soprattutto dopo esperienze frustranti.

Psicoanalisi contro n. 1 – Eros e Bios: anche la nascita del rito (1^ parte)

mercoledì, 2 maggio 1979

Io penso che l’essere umano sia, anche, continuamente, alla ricerca della stabilità.
La novità affascina e spaventa nello stesso tempo. Affascina perché spezza la monotonia di situazioni ripetute; spaventa perché sembra incontrollabile. La novità è difficile da concepire, sfugge con i suoi contorni imprecisi: dove la mano si aspetta un appiglio si può trovare il vuoto, o, improvvisamente, si presenta sotto le dita qualcosa di compatto, ma di strana consistenza, incomprensibile.
Mi sono accorto di aver usato il concetto di novità come se non fosse un concetto e tanto meno il concetto di novità. Nella mia mente si sono presentate due immagini; la prima era formata da uno sfondo grumoso, indefinibile su cui si sono formate le sei lettere: n-o-v-i-t-à. Un serpente nero con al fondo, sulla a, un monumentale e incisivo accento.
La seconda immagine consisteva in una figura fumosa, dai contorni mobili, inafferrabili. È dunque questo, per me, il concetto di novità? Nient’altro che l’ingenua immaginazione di un pittore concettuale?
In effetti, il concetto di novità assoluta non riesco a costruirmelo e a comprenderlo: coincide con il nulla. Potrei mettermi a giocare con il concetto di nulla; ma la filosofia occidentale ci ha già giocato fin troppo; credo che annoierei chi legge e, soprattutto, mi annoierei.
La novità è quindi per me non qualcosa di assolutamente nuovo, che, come ho detto, non so cosa voglia dire; ma un che di impreciso, di inafferrabile, proiettato in avanti. Il concetto di novità porta con sé altre parole come: attesa, speranza ed, anche, spavento. Quindi è assai meglio far scaturire la novità da ciò che è noto. Dobbiamo abbattere le strutture avendone però in mente di nuove che, essendo già in mente, non sono, però, più novità assoluta.
Ma queste nuove strutture di dove sorgono? Non certo dall’assolutamente ignoto, il vecchio non essere parmenideo; ma da quello che noi siamo, vogliamo, o crediamo di volere.
La novità, però, non è soltanto il nuovo, il diverso; è anche l’imprevisto. L’imprevisto è l’aspetto ignoto del diverso; però l’imprevisto e l’ignoto, non appena vengono pronunziati, come parole o come concetti, non sono più quello che dovrebbero essere. L’ignoto ha un volto, anche se impreciso ed inquietante, l’imprevisto si mescola con i nostri progetti e i nostri desideri.
L’uomo come cerca, per lo più, di controllare la novità, senza distruggerla, e nello stesso tempo cercando di evitare il rischio di cadere preda del sempre saputo e della noia?
Andando alla ricerca dei principi primi, o dei primi principi o del principio dei principi.
Se riusciamo a dare un ordine a quella che noi chiamiamo realtà; la novità e l’imprevisto si debbono assoggettare, tutto sommato, a questo ordine, pur mantenendo le loro caratteristiche indefinibili.
Penso che tutte le culture abbiano tentato di interpretare in qualche modo i fatti che accadono. Ho usato il termine «fatto» perché è il più concreto e il meno compromesso. Fatto è un avvenimento storico e fatto è anche un gesto quotidiano.
Sono i fatti che «avvengono» attorno a noi e in noi.
L’occidente ha, da millenni, prodotto un genere di persone chiamate: i filosofi. È, questo, un genere di individui quanto mai difficile da definire.
Il buon senso comune dice: in fondo siamo tutti filosofi. La cultura, però, ha isolato alcune persone della sua storia definendole con questo nome, e, per di più, alcuni di costoro volevano essere tali e altri no!
Nonostante la difficoltà di definire che cosa sia il filosofo, noi abbiamo la filosofia e la storia di questa nostra filosofia. La storia della nostra filosofia è guidata, secondo me, da tre direttrici fondamentali.
Lungo la prima linea di pensiero si situano tutte quelle correnti filosofiche che tentano di portare l’infinita varietà dei fatti ad ordinarsi secondo un unico principio ad essi sottinteso e dei quali è guida. Queste sono concezioni metafisico-spiritualistiche, o materialistiche, che si ritrovano, però, d’accordo nel fissare un principio, esporne il meccanismo, perché anche i principi hanno un meccanismo al loro interno, e porlo, come ho detto, prima e dentro ad ogni cosa. Questo principio è estremamente protettivo e rassicurante.
Ci sono, all’interno di questa concezione, due ulteriori atteggiamenti fondamentali. Il primo vede questo principio come qualcosa di buono, che fa progredire il tutto: uomini, formiche e stelle, verso un futuro sempre migliore, al di qua e al di là della vita. Il secondo, più disincantato e forse un po’ sadico, parla di corsi e ricorsi, di cicli che si richiudono e ricominciano sempre, eternamente immutabili.
Spesso, all’interno di questi sistemi, alcune concezioni hanno sentito l’esigenza di scindere il principio guida in due momenti antitetici in conflitto che, però, attraverso e per mezzo di questa loro tensione, guidano e determinano il divenire del tutto. Il meccanismo originario rimane uno e comprende e risolve in sé i due opposti. I principi in conflitto trovano il loro significato nel conflitto stesso, che li controlla e li domina.
Lungo la seconda linea di pensiero si collocano tutte quelle filosofie che vedono i fatti dominati da più principi, che possono essere o non essere in conflitto tra loro. Il principio unificatore di tutto è la facoltà interpretativa della ragione. La ragione unifica perché comprende le concatenazioni causali e comprende anche se stessa. Anche quando queste concezioni ipotizzano un Dio, esso non è tanto il garante della salvezza e dell’ordine universale, quanto la facoltà unificatrice della comprensione razionale. La ragione, comprendendo ed interpretando, unifica, distingue tutti gli esseri in generi e specie; ne esprime le caratteristiche, ne esprime i significati esistenziali e scientifici. La ragione riunisce ciò che è simile e distingue ciò che è diverso. La ragione, divenuta meno ingenua, ha prodotto e fondato essa stessa i propri concetti e il concetto di concetto. All’interno di questa corrente, alcuni pensatori, con una struttura psichica particolarmente paranoide, o depressiva, hanno sentito vano lo sforzo unificatore della ragione, anche quando fondava se stessa, e, usando la ragione, hanno fondato lo scetticismo della ragione.
Le teorizzazioni di cui ho parlato prima sono il frutto del pensiero di menti acculturate e, quindi, sono espressioni della cultura di una classe precisa: la classe dominante.
Una cultura si esprime per mezzo di un linguaggio comprensibile, soprattutto, a coloro che la producono. Anche i temi trattati sono congeniali alla classe che li esprime; perciò la visione del mondo che ne deriva è interpretabile con parametri specifici coerenti con il sistema di valori e di significati espressi da quella cultura.
I libri parlano di «tutto»; ma non sono per «tutti». I libri buttano uno sguardo sul mondo, su tutto il mondo, tentano di comprenderlo, di sistemarlo, di chiarirlo; tentano di chiarire i problemi di tutti: dei re e dei servi, dei ricchi e dei poveri; però, fino ad ora, lo hanno fatto dal punto di vista dei re e dei ricchi. Anche quando parlano contro i re e contro i ricchi i libri lo fanno usando il linguaggio, gli strumenti e la cultura di costoro.
Io credo che sia fondamentale l’appropriazione, da parte di tutti, di questi strumenti e di questa cultura, non credo nell’utilità della loro distruzione che significherebbe la definitiva castrazione; ma credo nell’importanza dell’espropriazione di un monopolio. E se l’espropriazione passa anche attraverso strumenti compromessi dal potere dei re e dei ricchi, chi se ne frega? Spero che avremo abbastanza saponette profumate e detergenti biodegradabili per lavarci con cura le mani sporche.
La cultura dominante, sebbene propria di una classe, è riuscita a dare ugualmente una visione del mondo organica e coerente, riuscendo anche a sistemare con sufficiente assennatezza i problemi e i significati connessi a quella parte di umanità che a questa cultura è abbastanza estranea. La realtà, però, non è qualcosa che è dato e basta, di oggettivo; la realtà è costruita anche dalla interpretazione che se ne dà. Per cui la cultura, nel suo costruirsi, costruisce anche, almeno in parte, la realtà che tenta di chiarire. Non mi sembra del tutto delirante dire che l’interpretazione della realtà, data, nella nostra società, dalla cultura con la C maiuscola, è un’interpretazione necessariamente parziale.
La nostra è, però, soprattutto, una cultura intelligente, fatta da persone intelligenti, perciò la sua frammentarietà e la sua parzialità sono ben camuffate, tanto che, qualche volta, anch’io, frutto ed espressione di questa cultura, ho l’impressione di muovermi dentro alla cultura; cioè dentro all’unica forma possibile di ricerca del significato di ciò che mi trovo addosso ed intorno.
Penso che questa sensazione derivi, in buona parte, da miopia narcisistica, da pigrizia mentale e dalla paura della destrutturazione derivante dal timore di perdere i miei privilegi; penso, però, che derivi anche dal fatto che la cultura dominante non è così stupida da guardarsi solo allo specchio o da guardare il mondo solo attraverso il suo specchio; vuole anche appropriarsi di ciò che non è suo, di ciò che non deriva da lei; ma di cui ha bisogno per poter sopravvivere.
La cultura della classe dominante ha bisogno di condizionare la cultura popolare e subalterna, per poter controllare la società in generale; tanto che proprio ora che intendevo affrontare la cosiddetta cultura popolare, non ufficiale, subalterna, mi sono trovato di fronte una cultura profondamente compromessa con la cultura al potere.
È abbastanza comprensibile che millenni di violenze e di stupri abbiano fatto partorire alla cultura del popolo figlioletti straordinariamente somiglianti a Lorenzo il Magnifico.
La vergine cultura popolare non esiste più, forse non è mai esistita.
Fin dall’inizio, quando due persone hanno guardato il mondo e cercato di capirlo e di farsene una ragione, il più forte e il più «intelligente» ha cominciato a dire e a fare cose bellissime, l’altro, più debole e più stupido (?) ha cominciato a guardarlo a bocca aperta, a servirlo, e, nello stesso tempo, a sentirsi venir su, di dentro, una gran voglia di ribellarsi, di dare una ginocchiata nei coglioni o nella fica a quel tale o a quella tale che vivevano del suo lavoro, torcevano il naso per la sua puzza e che dicevano, parlando tra loro, cose bellissime. Gli è venuta voglia di… ed ha parlato di ribellione. Però gli è anche venuta voglia di… ed ha tentato di imitare quei due; ma è venuto un altro a dirgli che non doveva né ribellarsi né imitare, che Dio non voleva. Allora ha avuto paura ed ha incominciato a raccontarsi storie, così, per passare il tempo. Storie in cui tutto era confuso, in cui, sotto, sotto, c’era solo la voglia di star bene, di godere anche lui, con lo stomaco e con il sesso, di avere anch’egli il suo piccolo dominio.
Io ho studiato a lungo la poesia e la musica popolari italiane, ed ho trovato moduli musicali interessanti, antichissimi, misteriosi, mescolati a melodie ed armonie delle musiche del padrone. La stragrande maggioranza dei versi delle canzoni popolari esprimeva una piena accettazione del sistema di valori espressi dai padroni. Con mio estremo stupore, ho trovato l’arte popolare assai poco rivoluzionaria.
Gli oppressi non hanno mai desiderato altro che poter sognare di essere padroni e su tutto è prevalsa sempre una malinconica stanchezza, un invito a rinunciare alla lotta. Se il mondo è sempre stato così, è inutile sperare di cambiario. I proverbi esprimono non tanto la saggezza dei popoli quanto la loro rassegnazione.
La società contadina e proletaria, da alcuni secoli, almeno, non è una società che desidera la giustizia ed il rispetto; i deboli vi sono schiacciati e i diversi derisi con brutalità e violenza. Basta, per capirlo, ascoltare le antiche canzoni venete, le lunghe storie piemontesi e i lirici canti della Sicilia. I padroni non soltanto hanno saputo costringere i servi e servire, ma li hanno costretti a produrre anche una sottocultura in cui sopraffazione, violenza ed egoismo sono i temi presenti e dominanti.
Di giustizia e di libertà, per fortuna, qualche volta si parla, come, per fortuna, lungo i secoli, gli oppressi hanno preso la falce e i bastoni e li hanno usati come armi contro i castelli dei padroni; ma la loro cultura, dopo qualche decina di esecuzioni sui patiboli e sulle forche, ha ricominciato a sognare e a fantasticare; è rinato il desiderio di essere a loro volta padroni. Poi i parroci hanno ricominciato a predicare e le buone signore a portare ciambelle ai figli dei poveri e piano, piano sono rinati anche i canti della rassegnazione e si sono prodotti sempre meno inni di rivolta. Un’antica strofetta delle campagne piemontesi ai piedi della Val d’Aosta, facendo il verso al suono delle campane, dice così: «Chi n’a nèn, chi n’a poc, chi n’a tan, tan, tan ». (C’è chi ha niente, chi ha poco e chi ha tanto, tanto, tanto). Una constatazione di una realtà sociale, ironica e disincantata: lo dicono anche le campane che non c’è niente da fare.
In questi versi è nascosto tutto il significato della cultura popolare; l’ironia deriva dalla voglia di ridere a tutti i costi, anche delle proprie disgrazie. C’è anche la consapevolezza che è da quel campanile che arriva l’esortazione ad accettare, con umiltà e rassegnazione, quello che è; però c’è anche la consapevolezza di quello che è; e la consapevolezza è il primo, indispensabile passo per riuscire a cambiare qualche cosa.
Io credo, però, che siano stati scritti più canti di protesta in questi ultimi dieci anni, da parte dei cantautori e dei mass media rivoluzionari, di quanti ne siano stati scritti e prodotti in millenni di storia passata.
I cantautori rivoluzionari della nostra epoca non sono, per lo più, proletari. Io scrissi canti di questo genere, alcuni anni or sono, in occasione di grossi scioperi alla FIAT di Torino. Ero allora un musicista e un universitario ribelle, col senso di colpa per essere nato borghese.
Quelle canzoni non le ricordo più, furono cantate per un giorno o due, su di un camion e sparse nell’aria con un altoparlante, insieme a quelle di altri, più belle e più brutte.
Tutto è così lontano. Erano canzoni sincere anche.
Penso che molti canti di protesta, prodotti in passato direttamente dal popolo e dai veri sfruttati, non sono giunti fino a noi, soprattutto, perché a raccoglierli e a tramandarli sono stati, per forza di cose, gli studiosi borghesi, i quali, comprensibilmente, hanno dato più spazio ad argomenti meno compromettenti e compromessi come: l’amore, la religione, persino il sesso, perché, si sa, il popolo è sempre un po’ volgare. Voglio anche aggiungere però, in base alla mia personale esperienza di ricercatore nelle campagne e nelle osterie di città, che il discorso di protesta non è stato così presente alla cultura popolare quanto si potrebbe credere. È però vero anche che la cultura popolare ha potuto raramente, nel passato, esprimersi attraverso la parola o il gesto esplicito, la rappresentazione. La cultura delle classi dominanti si è espressa, da sempre, per mezzo dei libri; i libri la racchiudono e la custodiscono. Attraverso i libri anche le forme di cultura che non si esprimono sulla pagina scritta vengono analizzate e meditate, la pagina è la parola congelata. In fondo, si potrebbe dire che il pensiero è stato il primo prodotto dell’uomo ad essere inscatolato per poter essere sempre pronto per l’uso. Non voglio dire con ciò che il libro sia un male, nemmeno che sia un male necessario. Penso che il libro possa essere usato male, questo sì; ma ritengo che sia, per il momento, uno degli oggetti più utili della nostra vita, ed anche uno dei più rivoluzionari.

La cultura popolare è da moltissimi secoli una cultura teatrale; questo teatro ha trovato una delle sue espressioni più concrete nella religione. Sacrificando il «tragos» a Dioniso il sacerdote narrava e mimava una storia. Il popolo ha sentito il rito come una propria espressione culturale. Al rito si è sentito partecipe ed ha sentito di potervi portare un contributo proprio ed originale. La teorizzazione della religione è estranea alla cultura popolare. Le teologie e le dissertazioni dottrinarie sono proprie della cultura delle classi dominanti. Il popolo invece, come ho detto, partecipa al rito; alla sua formazione. Non certo spontaneamente; non sono suoi i desideri ed i pensieri immediatamente espressi nel rituale.
I templi, i paramenti, le musiche sono manipolate e, per lo più, prodotte dal potere; un potere, però, disponibile ad ascoltare il sogno del popolo ed i suoi desideri. La ricca complessità dei riti è frutto della secolare sedimentazione di leggende, ricordi, bisogni, consapevoli e non, provenienti da una realtà sociale presa nel suo insieme. Frammenti di rituali di altre religioni si mescolano a quelli delle religioni dominanti, gesti che si perdono in lontananze indecifrabili, si intrecciano con gesti che esprimono esigenze del presente; il tutto nel tentativo di raccontare.
La cultura borghese al suo sorgere ha tentato di costruirsi una religione senza riti; le evoluzioni del luteranesimo, e particolarmente le correnti calviniste, hanno tentato di negare il rito, trasformandolo in meditazione lirica collettiva. Il gesto è stato castrato, la parola e il suono sono diventati preponderanti; della rappresentazione non rimane che l’involucro.
Resta comunque centrale l’ascoltare in comune il racconto della vita di un personaggio vissuto tanti secoli prima; questa, almeno alle sue origini, è una religione espressa da alcuni padroni che si oppongono ad altri padroni. Anche il rito cattolico ed ebraico sono frutto della volontà dei dominatori; ma i desideri del popolo, almeno nella forma, li condizionano maggiormente: mi preme, però, ribadire l’affermazione che in tutte le espressioni culturali del popolo è primaria l’istanza teatrale; s’intende che mi riferisco soltanto alla nostra area socio-culturale, di cui non voglio definire i confini geografici; ma che spero sia ugualmente abbastanza localizzabile.
Anche l’espressione laica del popolo, quando si manifesta fuori delle chiese, è essenzialmente teatro e rappresentazione. Gli istrioni e i cantastorie raccontano e mimano fatti e avventure. Certo, esistono anche momenti di espressione lirica e sentimentale del desiderio; ma sorgono come commento espressivo a fatti che sono stati narrati o che vengono presupposti, per cui si può onestamente dire che l’aspetto fondamentale del pensiero espresso dal popolo si è espresso, nella nostra cultura, attraverso la rappresentazione. Nel rito, la partecipazione del gruppo è attiva, alle origini, e diviene man mano più passiva nelle rappresentazioni di tipo teatrale o parateatrale più vicine alla nostra epoca; fino all’estrema passivizzazione dello «spettatore» delle rappresentazioni cinematografiche e televisive. Qui lo spettatore (che non per nulla si chiama così) ha soprattutto il ruolo di entità pagante, che può, tutt’al più esprimere un parere, magari con lettere ai giornali. Nello spettacolo cinematografico e televisivo è del tutto abolita la presenza fisica di persone che parlano e si muovono in contatto emozionale diretto con altre persone che, messe di fronte, assistono, presenti con la loro carne, i loro odori, gli applausi e tante altre forme di partecipazione. Anche un cataclisma, o una rivoluzione piena di violenza e di morti reali, ripresa in diretta su di un teleschermo, diviene, soprattutto, spettacolo, teatro. In effetti, le indagini in diretta del telegiornale, trasmesse dopo un breve «parapperu» di archi e fiati, scivolano e si confondono, nella penombra dei tinelli, con le prime scene dell’incontro di Elisabetta I che recita, litigando, con l’arcivescovo di Westminster.
Ancora una volta, il potere ha preso in mano la situazione: spettacoli televisivi, cinematografici e partite di calcio non sono certo espressioni agite ed ideate dal popolo; anzi, questa parola: «popolo», sta diventando sempre più ridicola ed ha, forse, ancora un suo reale significato, solo quando viene pronunciata da Maria Antonietta in un drammone televisivo sulla rivoluzione francese.
Eppure, gli sfruttati esistono ancora: lasciamo in sospeso, per ora, questo problema.
La cultura dominante ha sempre avuto molta cura di distinguere l’arte dalla filosofia ritenendo la prima, di volta in volta, dominatrice e dominata dalle emozioni e la seconda espressione della ragione. Distinzione quanto mai balzana, che può essere vanificata osservando con un minimo di attenzione quei fenomeni che vengono chiamati arte e filosofia.
La cultura cosiddetta popolare non ha operato questa distinzione; alcuni dicono per sua inferiorità costitutiva, affermando che, essendo il popolo dominato dalle passioni e dall’immediatezza, non può e non sa riflettere in modo sistematico e astratto.
Quest’ultima affermazione è, secondo me, assai goffa e semplicistica. Non si tratta tanto di inferiorità costitutiva, quanto di impossibilità pratica di usare alcune forme di comunicazione. Io, inoltre, affermo che non esiste e non è mai esistita una cultura popolare autonoma. Come sono stati strumentalizzati e manipolati dal potere i singoli individui, così sono state strumentalizzate dal potere le forme di cultura.

Psicoanalisi contro n. 1 – La domanda. Appunti di tecnica psicoanalitica

martedì, 1 maggio 1979

È impossibile, a mio parere, per ciascuno di noi, incominciare un lavoro di ricerca sulla propria persona, senza un irrigidimento, almeno iniziale, fatto di diffidenza e di sospetto.
L’analisi (la psicoanalisi) non può iniziare senza una resistenza all’analisi. Possiamo, per quel che riguarda la nostra consapevolezza, sentirci nella migliore disposizione, essere pronti a dire tutto e a sentirci dire tutto; ma questa nostra convinzione si rivela, sempre, abbastanza superficiale. Anche se nessuno ce lo ha ancora detto, sentiamo che iniziare l’analisi della psiche è come iniziare un viaggio.
Anche il più allegro entusiasmo per un viaggio è accompagnato, sempre, da un po’ di apprensione. Vediamo ora come il tentativo di parlare della cosiddetta «fase di apertura» consista in buona parte proprio nella descrizione dei meccanismi di resistenza all’analisi. Non mi voglio, qui, addentrare nella complicata enumerazione di questi meccanismi: per lo più, vengono rafforzati quelli abituali dell’individuo e se ne aggiungono alcuni altri meno consueti.
Qualunque atteggiamento l’analista assuma, qualunque cosa dica, o non dica, il suo porsi verrà, sempre, assorbito ed inserito in queste tattiche strategiche, con le quali la persona in analisi cerca di «prendere fiato» e, tutto sommato, di allontanare, almeno per un verso, l’analisi. L’atteggiamento dell’analista agirà però sempre, qualunque esso sia, in qualche misura, sulle resistenze.
Già al secondo incontro, anche se al primo incontro l’analista è stato ossessivamente muto e l’altro ha messo in atto tutti i meccanismi di rifiuto, per il fatto stesso che si tratta di un secondo incontro, le resistenze non solo potranno essersi strutturate meglio; ma, da qualche parte, debbono aver reagito alla presenza di quella persona, che è quasi impossibile negare come presenza.
Anche in una situazione di delirio in cui il mondo esterno, compreso il terapeuta, sembrano non venir percepiti, l’analista, se non ha egli stesso paura di essere percepito, potrà verificare che la sua voglia di «essere per l’altro» lo farà «essere », in qualche modo, «per l’altro ».
Se l’avventura continua, qualunque cosa faccia l’analista, modificherà, necessariamente, anche le resistenze. È, secondo me, molto importante che queste siano «palpate », con cura, fin da subito e che 1′«analizzato» impari a sentirsele addosso fin dall’inizio come una oscura e scomoda presenza e, successivamente, sempre più precise e disegnate. Il lavoro di analisi, dal punto di vista delle resistenze, si divide in due grandi classi. La prima è quella in cui le resistenze dell’inizio cadono quasi subito; l’altra è quella in cui persistono a lungo. Questa distinzione può, forse, sembrare banale ed inutile; può anche darsi, però io non penso che sia inutile osservare come, sempre, cadute o allentate le resistenze dell’inizio, ne compaiano altre.
Ho usato, contro le mie abitudini, parecchie volte l’avverbio «sempre». È un avverbio, che, soprattutto in psicoanalisi, non dovrebbe essere «mai» usato. Mi sono concesso questa bizzarria per evidenziare la frequenza con cui questo gioco si presenta; proprio nel modo in cui l’ho, sopra, raccontato.

Dopo che si sono presentate queste due grandi ondate, il comportamento delle resistenze diviene assai più fluido: compaiono affondano, si articolano e si camuffano, in una ricca e divertente situazione di caleidoscopio.
Perché questa seconda ondata così inevitabile e massiccia? Per rispondere a questo interrogativo, dovrei affrontare una serie di problemi che non ho intenzione di affrontare qui. Basti dire che la psiche vive un istante di disorientamento, quando la persona percepisce il primo nucleo di irrigidimenti, che, di conseguenza, si indebolisce e scompare.
Come ho detto, le resistenze messe in atto all’inizio, erano quelle abituali della persona: sentirsi senza di esse è come sentirsi, improvvisamente, nudi e deboli; pronti per un sacrificio castratorio.
In queste due prime fasi, come si può comportare l’analista? I precetti sono sempre ambigui e molto spesso inefficaci. Io ho voglia di dire come, per lo più, mi comporto io.
Il mio comportamento non ha un valore assoluto neanche per me. Me lo sono trovato lavorando. La precettistica altrui mi è sempre andata o troppo larga o troppo stretta. Per la psicoanalisi, soltanto il discorso metapsicologico è fondamentale; tutto il resto è «descrizione».
Può darsi che la psiche umana abbia alcune caratteristiche; ma, al momento non sono, certamente, definibili.
Le descrizioni sono estremamente importanti, bisogna avere il coraggio di farne e di andarne alla ricerca. Lo «scienziato» si deve compromettere anche scientificamente; ecco perché le descrizioni debbono avere soprattutto un carattere orientativo e pratico. Lo sperimentalismo è ridicolo, quando pretende di dare descrizioni oggettive. Io affermo che descrivere, anche per la scienza, è «sempre» «raccontare» e raccontare è sempre anche un po’ «inventare».
Adesso ritorno a raccontare l’invenzione del mio metodo. Vedo qui che uso il termine «inventare» anche alla latina, quindi anche come «ritrovare». La cosa che mi interessa di più, fin dall’inizio del rapporto analitico, è di essere qualcosa «per l’altro». E quindi metto in atto tutta la mia emotività e la mia fisicità per essere fin da subito «per l’altro». Spero che non sia «dedizione», voglio che sia «coinvolgimento».
La parola è uno dei riti più consueti. Dopo le prime ovvie comunicazioni informative che, sempre, spero non siano mai solamente informazioni, la persona che mi sta a fianco incomincia a «dire». Lo sappiamo: resiste e si concede allo stesso tempo. Quasi sempre ha paura di ascoltare. Molto spesso, chi mi sta parlando si ferma, mi guarda con cura scrupolosa e mi rivolge questa domanda: – Vorrei sapere: cosa ne pensi? – Quando io apro la bocca per parlare, e pur sapendo quello che sta per succedermi la apro ugualmente, l’altro, spessissimo, riprende a «dire». Basterebbe un piccolo sforzo della muscolatura della mia faccia, con l’aggiunta, magari, di un breve mugolìo, per fare ammutolire l’interlocutore, un po’ imbarazzato; ma, in genere, io rimango tranquillo. Mi sforzo, comunque, di «esserci» il più possibile.
La comunicazione verbale che io uso, a questo punto, è quella che si esprime in « domande ».
Non mi riferisco qui alle domande tipiche, che io faccio troppo spesso; ma che, confesso, vorrei non fare più: sono, queste, le domande inquisitorie che, mentre le pongo, mi imbarazzano; ma gli altri se le aspettano ed io sono troppo curioso. Le domande di cui voglio parlare qui sono di altro tipo, non hanno nulla della domanda; anzi: spesso sono risposte; altre volte sono chiarimenti. Poi sono ancora tanto altro.
La prima formula da me usata consiste nel ripetere con accento interrogativo, ma non è necessario, le ultime parole di una frase che è stata appena pronunciata da chi mi sta parlando. In questo modo dico: – Ecco, hai detto una cosa importante, non lasciartela sfuggire. Oppure: posso anche voler dire: – Non credo a quel che mi stai dicendo. – O ancora: – Secondo me, non credi a quello che mi stai dicendo.
La risposta di chi mi ascolta è quasi sempre immediata: è percepibile dal mutamento di volume della voce e dalla, più o meno ampia, deviazione che compie il corso associativo dei pensieri.
Questo mio modo di comunicare può durare a lungo. L’analisi si viene strutturando e il mio intervento è, apparentemente, minimo. Quando le prime resistenze incominciano ad essere intaccate da questo tipo di comunicazione, passo ad un altro tipo. Che si divide, a sua volta, in due moduli distinti.
Questo secondo tipo potrei chiamarlo il momento del perché. Diviso in: momento del perché soletto e il momento del perché accompagnato.
Il momento del perché soletto consiste nell’insinuare un indifeso «perché» nel tessuto delle frasi che l’interlocutore pronuncia.
Questo «perché» lo pronuncio con intonazioni diversissime: perentorio, ambiguo, inquietante, dubitativo, stupefatto, etc. …
Il perché soletto può mettere estremamente a disagio, perciò, bisogna scegliere, con cura e attenzione, il momento in cui pronunciarlo. Bisogna scegliere il momento in cui la prima organizzazione difensiva non è né troppo serrata né troppo allentata. Se è troppo serrata, rischia di produrre un, se pur breve, periodo di stallo; se ci troviamo nella seconda situazione, produce, quasi sempre, un nuovo irrigidimento. Però, non presentando un nuovo tipo di resistenza; ma irrobustendo quelle che si erano appena indebolite. Se il perché è detto al momento giusto, dopo un breve disorientamento, il materiale associativo ed anche il contatto emozionale si arricchiranno.
Il momento del perché accompagnato è quello in cui il perché fa parte di una domanda vera e propria che, ben s’intende, può anche essere una risposta. Questa frase può, talvolta, avere il carattere di una vera e propria interpretazione. È importante che sia anche qualcosa di più. La frase ampia ed articolata anche se con il «perché» rafforza in un primo momento le resistenze. Però, riesce, anche ad evidenziarle.
È, in genere, attraverso questo tipo di comunicazione che, assieme, si passa alla seconda fase dell’organizzazione delle resistenze. Mi pare abbastanza ovvio che in qualunque momento del lavoro analitico si possano usare i tipi di comunicazione di cui sopra ho parlato.
Io li uso soprattutto all’inizio. Ritengo fondamentale dire che, ogni tipo di comunicazione usato, e questo in particolare, deve trovare una sua esplicitazione durante lo svolgimento del lavoro di analisi. Per me è un espediente, ma anche un bisogno, comportarmi così.
Penso che sia indispensabile chiarire il più possibile anche il comportamento dell’analista. Il non detto in ogni rapporto è sempre troppo. Tu ed io parliamo, comunichiamo, ci coinvolgiamo. Tu ed io ci dobbiamo sforzare di chiederci «il perché».

Psicoanalisi contro n. 1 – Una danza per Edipo

martedì, 1 maggio 1979

Quando parlo con una persona del­la sua storia, prima o poi, saltano fuori il padre e la madre.

Se questa persona ha letto molti li­bri, padre e madre, spesso, si affac­ciano con un po’ di imbarazzo. Ecco il complesso di Edipo.

A nessuno va di essere consueto. Ognuno ha paura di essere troppo fuori della norma; ma la banalità è una caratteristica insopportabile: ri­schia di farci perdere il nostro volto e di non farci riconoscere più.

Un padre e una madre: un uomo e una donna.

Occhi, mani, parole affettuose, pa­role cattive.

Viene in mente una camera.

Forse ho visto i genitali di mio pa­dre.

Quell’altra volta mia madre, forse, era nuda.

Ero già grande e ancora, dalla mia stanza, tendevo l’orecchio per sen­tire se i miei facevano l’amore.

I padri sono stupidi ora e pensare che prima erano intelligentissimi.

I padri sono forti e sono deboli.

Le madri erano belle; poi sono di­ventate brutte.

Le madri erano buone; poi sono di­ventate cattive.

Le madri e i padri hanno una faccia che cambia.

Ma cosa c’è prima delle madri e dei padri?

Qualcuno ha visto i corpi nudi del padre e della madre.

Genitori liberali hanno lasciato soc­chiuse le porte delle loro camere da letto.

La nudità dei genitori non ha reso i figli più felici, e nemmeno più in­felici.

Io so che la paura del corpo è una delle paure più terribili.

Chi c’è prima del corpo del padre e della madre?

Quando parlo con uno che i libri non li ha letti e che viene da molto lon­tano, vedo il padre e la madre avan­zare con meno imbarazzo.

Il padre ha tutti i suoi volti.

Anche la madre ha tutti i suoi volti. Una camera, un letto, i rumori nella notte: l’odio e l’amore.

«  Credevo che mio padre facesse male a mia madre.

Lui non mi ha mai parlato, o me­glio: non ci siamo mai parlati.

Con mia madre ho parlato di più, un poco di più…

… però mai di sesso… credo che non le sia mai piaciuto…

… fare l’amore… forse i miei… … non si sono mai amati ».

Il padre e la madre hanno i loro gesti, come in un rito, una danza. Cosa c’è prima del padre e  della madre?

Psicoanalisi contro n. 1 – Nel velluto un’armonia in silenzio

martedì, 1 maggio 1979

« Si immagini tutta questa severa al­legria, sormontata dall’aurea son­tuosa architettura dell’arpa a pedali di Erard, e si comprenderà la ma­gica attrazione che il negozio dello zio, quel paradiso di armonie silenti ma preannunciate in cento forme, esercitava su noi ragazzi… » (T. Mann, « Doctor Faustus »).

Il fascino degli strumenti musicali è infinito: superfici di legno liscio e lucido, spessori compatti di legno caldo; metalli freddi o teneri come la carne, ance, pistoni, tasti, riccio­li, velluto, fessure che aprono pro­fondità misteriose, e poi, odore di musica.

Lo stumento musicale è un corpo. Si è venuto costruendo a contatto con il corpo umano. Secoli di amore e di ricerca hanno partorito il vio­lino e il clarinetto.

Un’ingenua favoletta ci racconta che la musica è nata dall’imitazione del canto degli uccelli. Io dico che la musica ‘è prima e dopo; solo per ac­cidente essa è suono: La musica è prima di tutto silenzio, la musica si esprime col tatto.

La via del suono l’ha imparata dopo.

La musica vive nel corpo che vive. Il corpo che vive si muove: un fluire, un pulsare di organi, un contrarsi di fibre. Un corpo che vive e che muove è anche: il respiro, la gamba che fa il passo, la mano che acca­rezza.

Tutto questo si distende in momenti successivi. Prima ho detto che la musica è prima di tutto silenzio; però avrei potuto dire che la musi­ca è soltanto tensione e distensione; ma è una distensione che si costrui­sce attraverso tante piccole tensio­ni; ed è una tensione che si scioglie in una miriade di morbide disten­sioni.

La musica è il gesto più vicino al sogno; meglio: è prima del sogno. La musica si esprime attraverso la considerazione. La melodia, anche quando è omofona, ha dietro di sé, presupposta, una complicata polifo­nia. Gli armonici di un suono non sono soltanto il suo chiaroscuro, sono altri suoni che si condensano. Poi, ancora, armonie che sfumano, appena intuite, silenziose; talvolta precise come un sillogismo, talaltra arbitrarie e impreviste.

Non esistono quindi melodie da in­tendersi come una pura successione nel tempo di suoni, la musica è pri­ma del suono; è una condensazione di istanti vitali che, nel contrarsi e nel distendersi, roteano attorno e dentro al suono.

La musica è sotto la pelle, la musica è anche la pelle. Quando le mani palpano uno strumento musicale questo deve diventare una parte del corpo. Questa è la magia dello stru­mento musicale: quando sonnecchia nel suo astuccio di velluto è un cor­po intatto ed intero, autonomo. Quan­do incontra un corpo umano, perde la sua autonomia, deve diventare il prolungamento di questo: caldo, su­dato, insalivato; odore di legno, di metallo, di panno.

Qualche volta lo strumento è appa­rentemente più dentro al corpo stes­so, quando la musica trova, cioè, la strada della voce umana. Ma non cambia niente: strumento di metal­lo, di legno, oppure tessuto organico la musica è prima, è già nell’impos­sibile silenzio.

Perché ho detto: impossibile si­lenzio? Perché quando penso alla musica la mia mente si riempie di suoni silenziosi: note che sono im­magini, e che sono anche altro, si intrecciano e si sciolgono. È così forte quel suono che sento dentro di me!

E poi la musica si annida nei polpa­strelli delle mie dita, quando dise­gno ritmi sul ricciolo massiccio di legno del bracciolo della mia sedia. La musica è sempre un gesto osses­sivo, tutti i gesti sono sempre un po’ ossessivi, quindi tutti i gesti sono anche musica.

Il mio corpo nudo che tocca un al­tro corpo nudo si esprime in gesti che non sono mai del tutto sponta­nei: quel corpo e questo corpo, cer­candosi, si esprimono in gesti desi­derati ed imparati in precedenza, cui si aggiungono gesti che sono im­parati in quello stesso momento, ma che diventano, immediatamente, rito.

Anche la spontaneità si esprime at­traverso la coazione di piccoli gesti, inconsapevoli, ma consueti. 2. impos­sibile uscire dal gesto ossessivo, coatto. Come ho detto prima: ten­sione e distensione, ritmo e attesa, piacere che cerca il suo desiderio, questa è, per me, l’essenza della mu­sica.

Ci sono persone che suonano; ma, anche se usano la loro voce, lo stru­mento rimane staccato, separato da loro. La musica, in questo caso, tro­va suoni rigidi ed inerti; tanti pezzi di legno, senza vita, che costruisco­no una rigida gabbia. Quando suc­cede che la musica sia una cosa ed il corpo un’altra cosa, è estrema­mente pericoloso e dannoso stare a sentire. dannoso anche suonare in questo modo. Mi basta senti­re un corpo manifestarsi anche a- traverso quattro note per capire Se quella è musica « buona ». Ho usato questa espressione « buona », perché non volevo ricorrere ad espressioni più ricercate; tutti san­no, credo, cosa vuol dire « buona ». Quando la mia mano affonda nei ta­sti, in un modo che non so descri­vere, quella volta, allora, capisco che sto suonando davvero, allora anch’io mi accorgo di esprimermi con una musica « buona ».

Il discorso è lo stesso, né più né meno, se la musica nasce da un ge­sto, con o senza la bacchetta: si in­contrano più corpi; ma è impor­tante che non vi sia separazione. Ho trovato un pensiero di Stock­hausen, che, secondo me, è reaziona­rio, oltre che stupido: « … La nostra musica è divenuta musica di discor­so… Essa è determinata dai muscoli: quelli della laringe per il canto, quelli delle dita per gli strumenti a ta­stiera, quelli della respirazione per gli strumenti a fiato: tutto era de­terminato dal corpo dell’uomo ed è per questo che non si è mai suonato su ritmi più rapidi o più lenti di quelli dei movimenti naturali del corpo… ritmo di marcia, ritmo di polsi, ritmo di cuore, tutti questi ritmi meccanici che sono anche quel­li del nostro corpo e che rimangono al nostro corpo e non a qualcosa di libero, qualcosa che voli, qualcosa che mi lasci provare tra le battute il mio ritmo personale, che mi la­sci il tempo, qualcosa che cambia, che non è statico, che ha una facol­tà di variazione che non trovo nella vita meccanica di tutti i giorni » (Cfr. Guillot, Jost, Lecourt, « La musico- terapia », Guaraldi ed.).

Dove è il mio ritmo personale, al di fuori di questo mio corpo? Forse in un improbabile spirito, che cerca una libertà ridicola, perché soltanto detta.

Anche i musicisti cadono, a volte, nell’ingenuo qualunquismo proprio a molti artisti ed hanno paura del corpo e del quotidiano. Certo, sono pienamente d’accordo nel rifiutare al ritmo di questo corpo, qui ed ora, l’attributo di « buon ritmo natura­le ». Ritmo, suono ed espressione debbono dilatarsi e restringersi con­tinuamente. Non credo che sia giu­sto e naturale ciò che adesso trova e sente questo mio corpo. 2, però, in questo mio corpo che voglio tro­vare la radice del desiderio, del­l’espressione e della musica.

E’ estremamente gradevole ed è ses­sualmente eccitante, quando si ascol­ta una chitarra, sentire il frusciare delle corde sotto le dita di chi la suona; o sentire il respiro del flau­tista; ed è bello capire che non pos­sono andare più in là, anche perché hanno questo corpo. C’è chi parla dell’infinita libertà dello spirito; io preferisco parlare dell’indefinibile tenerezza e possibilità del corpo. Lo spirito è la mia voglia di comuni­care. Non esistono limiti positivi, ma sentire, come limite il mio corpo non è un limite.

Psicoanalisi contro n. 1 – La sessualità e il piacere; il corpo e la parola

martedì, 1 maggio 1979

La nostra è una realtà corporea e, per questo, sessuale. Noi siamo so­prattutto il corpo che abbiamo sa­puto e voluto costruire nell’inter-a­zione tra il nostro desiderio di esi­stere e il mondo. Di questo corpo sono parte integrante gli organi ge­nitali, che ancora non abbiamo im­parato ad amare abbastanza e di cui non abbiamo imparato a suffi­cienza la determinante funzione po­litica.

La lettura del corpo è una lettura totale della persona: il cazzo e la fica sono specchio dell’anima ben più degli occhi; e gli occhi lo sono in quanto messaggeri del corpo e non dell’anima.

Il corpo è totalmente sessuale e ses­suato. Le zone erogene sono una schematizzazione della pornografia borghese, che pretende di insegnarci a fare l’amore con i brandelli del nostro corpo che, al momento, sono i più vendibili.

Il coito è un rapporto tra due corpi che inter-agiscono totalmente.

Le nevrosi sono dovute troppo spes­so ad una lettura particolare e di­storta dei messaggi che il corpo man­da, a dispetto del nostro «super Io».

Se è vero che le psicosi e le nevrosi hanno origine, in gran parte, in que­sto rifiuto del corpo, è evidente il limite di interventi «terapeutici» che pretendano di risolvere ogni pro­blema con la parola e soltanto con la parola.

È ridicolo che uno psicoanalista par­li del complesso di Edipo a un delirante o a un catatonico o a persone che, in vari modi e per varie ragioni, sono molto lontane dal linguaggio comune. E però possibile, anche per uno psicoanalista, cercare di ristabi­lire una comunicazione proprio at­traverso un tentativo, operato in­sieme, di recupero del corpo. Sbloc­care articolazioni irrigidite, far ri­trovare il piacere di desiderare ed essere desiderati, non attraverso comandi; ma attraverso una fisicità vissuta in comune: ballando, man­giando, lavandosi, toccandosi, ba­ciandosi; può essere il primo passo dopo il quale possiamo poi sperare che rinasca il desiderio della comu­nicazione più completa (anche ver­bale) che è anche presa di coscienza. È importante, però, che nessuno si imponga, e che a nessuno si impon­ga, un contatto non voluto; che non ci sia l’ombra di un sacrificio in nome di «un principio superiore». Bisogna che tutto si basi su di un desiderio ritrovato e reciproco: un contatto tra corpi che, insieme, ab­biamo reso possibile e desiderabile. Per riuscire a cogliere il linguag­gio del corpo, bisogna, prima di tutto, accettare il corpo; per accettare il corpo è indispensabile accettare il significato fondamentale del corpo stesso, e cioè: la pulsione sessuale è la radice della sessualità che è il piacere. Noi viviamo in una società che ci ha insegnato ad avere paura del piacere; il sacrificio è nobile, il piacere è pericoloso, «l’ozio è il padre di vizi», «prima il dovere e poi il piacere» (e questo è, forse, il più stupido di tutti i proverbi).

Ognuno di noi si sente nobilitato quando soffre e prova un poco di vergogna quando gode. Ci sono i pia­ceri permessi: il piacere dell’arte, il piacere di una passeggiata in cam­pagna; e ci sono i piaceri guardati con diffidenza; ma tollerati: il pia­cere della buona tavola, il piacere di un bel vestito (e qui già si parla di «frivolezza»); ci sono poi piaceri equivoci: il piacere di fare un bagno, il piacere di odorare un pro­fumo; e, infine, i piaceri quasi sem­pre condannabili che sono quelli della sessualità.

Diciamo quasi sempre, perché qual­cosa viene, di fatto, permesso, in questo campo; purché sia ben chia­ro che viene permesso a una coppia ben precisa, composta da un lui e da una lei, che si comportino, di fatto, come un lui maschio e una lei fem­mina, che, almeno, si amino (non si pretende neppure più che siano sposati) e che abbiano dei gusti per­sonali in materia di sesso, ma non così personali da essere «eccentri­ci». Al di là di ogni barriera del lecito sono invece collocati i piaceri decisamente sconvenienti: il piacere di orinare, il piacere di sentire le feci che escono dal ventre che si svuota, si rilassa. Questi sono i pia­ceri che tutti proviamo con grande intensità, ma che nessuno accetta di riconoscere al di fuori di un «gabi­netto» che diventa così un santua­rio dell’innominabile. Eppure fino a questo punto non abbiamo elencato nulla che possa costituire pericolo per il bene comune; non s’è parlato di piacere della tortura, piacere del­l’omicidio, piacere dell’offesa.

Tutti noi abbiamo un’estrema diffi­denza verso il piacere: un terapeuta sa quanto l’inconscio sia astuto nel vendicarsi del piacere. Politicamen­te, il poveraccio che se ne sta sdraia­to sul divano, ha accettato e voluto molti piaceri, li ha vissuti fino in fondo; ed ecco che questo perfido «inconscio» e questo sadico «su­per Io» si accaniscono su di lui pro­curandogli sintomi terribili, tortu­randolo, facendolo torcere. Proprio come l’Inquisizione faceva contro quelli che si ribellavano all’uomo ve­stito di bianco che dettava la legge, in nome di Gesù, San Pietro e dello Spirito Santo.

Abbiamo introiettato che il piacere debba farci paura, perché il piacere, e questo la nostra cultura l’ha capi­to prima e meglio di Freud, è sem­pre sessualità in atto. Non c’è pia­cere che non abbia una sfumatura di sessualità, un colorito sessuale, un profumo di sesso: ecco perché ci fa paura. Tutti cerchiamo questo pia­cere e tutti ne abbiamo paura: ab­biamo paura di vederlo in noi e ne­gli altri, abbiamo paura di darlo a noi stessi e agli altri.

Bisogna invece accettare il piacere, andare alla ricerca delle radici di ogni piacere e di tutto il piacere, cer­care di conoscere di dove sorge e sapere che sorge dalla sessualità. Bisogna lottare contro l’ombra ca­stratrice degli antichi padri, che si proietta sul nostro piacere e lo tra­sforma in sofferenza ed ansia, che ci fa vivere il nostro sesso e la no­stra sessualità come angoscia.

Non basta però un semplice gesto di volontà perché riusciamo a liberarci di meccanismi che sono rimasti den­tro di noi per anni; ma il piacere ha un aspetto molto positivo: non si spegne mai, piacere e sessualità sono continuamente presenti: nel bambi­no, nell’adulto e nel vecchio.

La società borghese ha tentato di vo­lere che i due estremi della vita: l’infanzia e la vecchiaia, fossero esenti dalla «scura macchia» del sesso; ma, al contrario, sessualità e piacere sono vivi, in tutta la loro ricchezza, in ogni momento della vita: dall’inizio alla fine.

Ci si può alleare alla voglia che il nostro corpo ha di sesso e di piacere per trovare un’energia che si opponga alla forza di questa Santa Inquisizione che ci portiamo dentro. L’irrigidimento, anche fisico, degli individui adulti non è solo o preva­lentemente dovuto al processo di atrofia muscolare o alla minore ela­sticità ossea. Gli adulti sono rigidi proprio perché hanno rifiutato il corpo e lo hanno inserito in rituali stereotipi che permettono loro di vi­vere trovando sempre la giustifica­zione di ogni loro gesto.

Il corpo è ancora e di nuovo una realtà tutta da scoprire, miscono­sciuta e intatta. Dopo anni, io credo di aver imparato almeno un poco a leggere il corpo: prima ho imparato a leggere il mio e poi quello degli altri.

Il corpo, come la psiche, ha la sua storia, i suoi sintomi, le sue reazioni, il suo linguaggio; ma è importante leggerlo non solo da un punto di vi­sta che pretenda di essere teorico, tecnico, scientifico: questo tipo di lettura potrebbe essere importante e interessante per uno psicoanalista che voglia percorrere nei due sensi il passaggio dal corpo alla psiche e dalla psiche al corpo per i suoi fini terapeutici; è molto più importante la lettura che ognuno di noi può fare del proprio e dell’altrui corpo, pro­prio perché ognuno di noi è un cor­po. Due corpi che si toccano sono due individui che si parlano e purtroppo la sintassi di questo linguag­gio è andata perduta e perciò la comunicazione è diventata così diffici­le e mistificata.

Non voglio quindi che si pensi al linguaggio corporeo come a un lin­guaggio in più da porre in mano ai «tecnici»; ma vorrei che il corpo riacquistasse per ognuno di noi tutta la capacità espressiva. Capacità che si può esprimere solo rompendo gli schemi del comportamento fisico che ci hanno finora ingabbiati perché anche il nostro corpo fosse funzio­nale alle strutture che sono state co­struite sopra e contro di esso.

Tutto: dall’esigenza di produttività all’insediamento dei meccanismi di potere è stato operato contro le esi­genze del corpo, che è un principio egualitario nella sua stessa essenza. Abbiamo ricoperto il corpo di abiti e di parole per imporre agli altri uno stato sociale, e questo stato sociale si è poi identificato con lo stato bor­ghese.

Non voglio teorizzare, qui ed ora, il ritorno alla belva umana; voglio solo che sia chiaro che l’addizionarsi del­le ragioni storiche ed economiche che ci hanno portato a questa nega­zione del corpo, costituiscono la ra­gione stessa che ha reso questa ne­gazione necessaria.

Il sofista è più pericoloso del lotta­tore, perché lo può determinare e condizionare anche nell’uso della stessa forza fisica. Bisogna che l’uo­mo si convinca che la presa di co­scienza è un problema che lo riguar­da nella sua totalità e che la sua totalità è, di fatto, il suo corpo: an­che il più sublime dei concetti si può esprimere solo in funzione di una realtà fisica corporea.

Ma abbiamo appena scoperto l’atro­ce inganno paroliero della borghesia che ecco moltiplicarsi i profeti e le profetesse che ci annunciano l’Era del Corpo Liberato. Si allestiscono calderoni zeppi di corporeità conditi con le salse più differenziate: orgoni reichiani, peristalsi tantriche, rein­tegrazioni primarie. Gli stronzi di tut­ta la terra si riappropriano della loro fecalità e si proclamano isteri­camente o catatonicamente liberi. La Dittatura della parola ha ceduto il posto al Regno del corpo: ci toc­chiamo freneticamente gli alluci mu­gulando sensazioni per cui non esi­stono più parole. Eccoci un’altra volta divisi in due: da una parte il Corpo e dall’altra, infinitamente più sotto, la parola. Questa situazione la chiamiamo l’integrità psico-fisica. Un inganno è stato perpetrato an­cora una volta e il verbo borghese si riappropria della sua capacità di smercio e di controllo del mercato. Potrebbe anche non fregarcene nien­te di immischiarci in un gioco in cui l’imbroglio rappresenta per tutti i giocatori la loro ragion d’essere e, talvolta, la felicità, se non avessimo visto con quanta violenza lo stesso gioco è stato imposto a chi non ave­va deciso di giocarlo.

Ci riferiamo alla brutalità con cui nei lager aperti degli ex ospedali psichiatrici tersicoterapeuti cretini, musicoterapeuti reazionari od ergoterapeuti nazisti hanno deciso che bisogna far sgambettare il matto, che bisogna costringerlo a costruire bor­se di cuoio e tovaglie all’uncinetto per garantirgli la possibilità di rein­serirsi (finalmente!) nella civiltà pro­duttiva. Le case-famiglia, dentro e fuori, e i «day-hospital» pullulano di artigiani-padroni e artisti-aguzzi­ni che impongono i ritmi produttivi alla catena di montaggio della fisi­cità-felicità.

Questi millantatori del reinserimento provengono quasi tutti dai calderoni della corporeità cui accennavamo prima. Per fortuna che i ricoverati ed ex-ricoverati liberi o semi-liberi, ormai senza illusioni, hanno guarda­to e guardano con ironia i nuovi padroni.

Il crimine è possibile perché nel­l’ebrezza della fisicità, nessuno si preoccupa di cercare parole che sve­lino che solo il padrone è padrone del corpo (dell’altro).

Così come il primato della parola ha rappresentato, per secoli, la fuga dal corpo per stabilire il dominio sulle persone, oggi il potere ci impone di abbandonare le parole in fa­vore di una fisicità tutta fascista. Allora come ora, l’ingiunzione è di non pensare, di evitare la presa di coscienza.

Noi crediamo che la presa di co­scienza sia il passo indispensabile verso la presa di coscienza delle clas­si; noi crediamo che le parole pos­sano servire a costringerci a mettere in discussione noi stessi e gli altri. Liberare i nostri corpi, come preten­dono di insegnarci i rotocalchi, è non solo inutile; ma è dannoso, per­ché ci mutila un’altra volta.

Noi riteniamo fondamentale riap­propriarci del corpo; ma non voglia­mo dimenticare che di questo corpo la parola e il pensiero sono parti integranti. Una frase può costrin­gerci a prendere coscienza anche della nostra fisicità. Le parole pos­sono spesso essere scomode. Non serve dire che le parole sono ambi­gue: è vero; ma a volte ci inchiodano con la loro evidenza.

I training autogeni, le ipnosi, le te­rapie corporee, possono, qualche vol­ta far sparire l’ansia e renderci un po’ più allegri, scaricare ingorghi li­bidici, e noi siamo pienamente d’ac­cordo. Riteniamo che sia importan­te calarsi nel proprio e altrui corpo; ma è importante anche capire per­ché siamo stati così brutalmente se­parati dal corpo.

Non serve, né psichicamente, né po­liticamente, vivere una regressione fino ai nostri primi istanti di vita, se, parallelamente, e contempora­neamente, non ci rendiamo conto, attraverso la parola, del significato individuale e politico dei meccani­smi e dei condizionamenti che han­no contribuito a formarci.

La natura è un’invenzione della bor­ghesia: esistono le cose e gli uomini. Gli uomini debbono sforzarsi di capire perché hanno chiamato stelle le stelle; ma anche perché hanno chiamato uno maschio e l’altro fem­mina, uno padrone e l’altro schiavo; anche perché io ho avuto quel trau­ma e quei giocattoli.

Se l’uomo è uno, sia veramente uni­tario: con le ovaie e con i testicoli, con le orecchie e con la parola.

La parola può metterci a disagio, però non dobbiamo fuggirla; come non dobbiamo fuggire dal corpo.

Se abbiamo paura del corpo chie­diamocene il perché, se lo usiamo chiediamoci come.

La psicoanalisi è fatta anche di pa­role; ma non solo di parole. Può essere una via da percorrere, una possibilità di progredire.

Verso dove vogliamo progredire sta a noi dirlo: con le parole e con i fatti.