Psicoanalisi contro n. 1 – La domanda. Appunti di tecnica psicoanalitica

maggio , 1979

È impossibile, a mio parere, per ciascuno di noi, incominciare un lavoro di ricerca sulla propria persona, senza un irrigidimento, almeno iniziale, fatto di diffidenza e di sospetto.
L’analisi (la psicoanalisi) non può iniziare senza una resistenza all’analisi. Possiamo, per quel che riguarda la nostra consapevolezza, sentirci nella migliore disposizione, essere pronti a dire tutto e a sentirci dire tutto; ma questa nostra convinzione si rivela, sempre, abbastanza superficiale. Anche se nessuno ce lo ha ancora detto, sentiamo che iniziare l’analisi della psiche è come iniziare un viaggio.
Anche il più allegro entusiasmo per un viaggio è accompagnato, sempre, da un po’ di apprensione. Vediamo ora come il tentativo di parlare della cosiddetta «fase di apertura» consista in buona parte proprio nella descrizione dei meccanismi di resistenza all’analisi. Non mi voglio, qui, addentrare nella complicata enumerazione di questi meccanismi: per lo più, vengono rafforzati quelli abituali dell’individuo e se ne aggiungono alcuni altri meno consueti.
Qualunque atteggiamento l’analista assuma, qualunque cosa dica, o non dica, il suo porsi verrà, sempre, assorbito ed inserito in queste tattiche strategiche, con le quali la persona in analisi cerca di «prendere fiato» e, tutto sommato, di allontanare, almeno per un verso, l’analisi. L’atteggiamento dell’analista agirà però sempre, qualunque esso sia, in qualche misura, sulle resistenze.
Già al secondo incontro, anche se al primo incontro l’analista è stato ossessivamente muto e l’altro ha messo in atto tutti i meccanismi di rifiuto, per il fatto stesso che si tratta di un secondo incontro, le resistenze non solo potranno essersi strutturate meglio; ma, da qualche parte, debbono aver reagito alla presenza di quella persona, che è quasi impossibile negare come presenza.
Anche in una situazione di delirio in cui il mondo esterno, compreso il terapeuta, sembrano non venir percepiti, l’analista, se non ha egli stesso paura di essere percepito, potrà verificare che la sua voglia di «essere per l’altro» lo farà «essere », in qualche modo, «per l’altro ».
Se l’avventura continua, qualunque cosa faccia l’analista, modificherà, necessariamente, anche le resistenze. È, secondo me, molto importante che queste siano «palpate », con cura, fin da subito e che 1′«analizzato» impari a sentirsele addosso fin dall’inizio come una oscura e scomoda presenza e, successivamente, sempre più precise e disegnate. Il lavoro di analisi, dal punto di vista delle resistenze, si divide in due grandi classi. La prima è quella in cui le resistenze dell’inizio cadono quasi subito; l’altra è quella in cui persistono a lungo. Questa distinzione può, forse, sembrare banale ed inutile; può anche darsi, però io non penso che sia inutile osservare come, sempre, cadute o allentate le resistenze dell’inizio, ne compaiano altre.
Ho usato, contro le mie abitudini, parecchie volte l’avverbio «sempre». È un avverbio, che, soprattutto in psicoanalisi, non dovrebbe essere «mai» usato. Mi sono concesso questa bizzarria per evidenziare la frequenza con cui questo gioco si presenta; proprio nel modo in cui l’ho, sopra, raccontato.

Dopo che si sono presentate queste due grandi ondate, il comportamento delle resistenze diviene assai più fluido: compaiono affondano, si articolano e si camuffano, in una ricca e divertente situazione di caleidoscopio.
Perché questa seconda ondata così inevitabile e massiccia? Per rispondere a questo interrogativo, dovrei affrontare una serie di problemi che non ho intenzione di affrontare qui. Basti dire che la psiche vive un istante di disorientamento, quando la persona percepisce il primo nucleo di irrigidimenti, che, di conseguenza, si indebolisce e scompare.
Come ho detto, le resistenze messe in atto all’inizio, erano quelle abituali della persona: sentirsi senza di esse è come sentirsi, improvvisamente, nudi e deboli; pronti per un sacrificio castratorio.
In queste due prime fasi, come si può comportare l’analista? I precetti sono sempre ambigui e molto spesso inefficaci. Io ho voglia di dire come, per lo più, mi comporto io.
Il mio comportamento non ha un valore assoluto neanche per me. Me lo sono trovato lavorando. La precettistica altrui mi è sempre andata o troppo larga o troppo stretta. Per la psicoanalisi, soltanto il discorso metapsicologico è fondamentale; tutto il resto è «descrizione».
Può darsi che la psiche umana abbia alcune caratteristiche; ma, al momento non sono, certamente, definibili.
Le descrizioni sono estremamente importanti, bisogna avere il coraggio di farne e di andarne alla ricerca. Lo «scienziato» si deve compromettere anche scientificamente; ecco perché le descrizioni debbono avere soprattutto un carattere orientativo e pratico. Lo sperimentalismo è ridicolo, quando pretende di dare descrizioni oggettive. Io affermo che descrivere, anche per la scienza, è «sempre» «raccontare» e raccontare è sempre anche un po’ «inventare».
Adesso ritorno a raccontare l’invenzione del mio metodo. Vedo qui che uso il termine «inventare» anche alla latina, quindi anche come «ritrovare». La cosa che mi interessa di più, fin dall’inizio del rapporto analitico, è di essere qualcosa «per l’altro». E quindi metto in atto tutta la mia emotività e la mia fisicità per essere fin da subito «per l’altro». Spero che non sia «dedizione», voglio che sia «coinvolgimento».
La parola è uno dei riti più consueti. Dopo le prime ovvie comunicazioni informative che, sempre, spero non siano mai solamente informazioni, la persona che mi sta a fianco incomincia a «dire». Lo sappiamo: resiste e si concede allo stesso tempo. Quasi sempre ha paura di ascoltare. Molto spesso, chi mi sta parlando si ferma, mi guarda con cura scrupolosa e mi rivolge questa domanda: – Vorrei sapere: cosa ne pensi? – Quando io apro la bocca per parlare, e pur sapendo quello che sta per succedermi la apro ugualmente, l’altro, spessissimo, riprende a «dire». Basterebbe un piccolo sforzo della muscolatura della mia faccia, con l’aggiunta, magari, di un breve mugolìo, per fare ammutolire l’interlocutore, un po’ imbarazzato; ma, in genere, io rimango tranquillo. Mi sforzo, comunque, di «esserci» il più possibile.
La comunicazione verbale che io uso, a questo punto, è quella che si esprime in « domande ».
Non mi riferisco qui alle domande tipiche, che io faccio troppo spesso; ma che, confesso, vorrei non fare più: sono, queste, le domande inquisitorie che, mentre le pongo, mi imbarazzano; ma gli altri se le aspettano ed io sono troppo curioso. Le domande di cui voglio parlare qui sono di altro tipo, non hanno nulla della domanda; anzi: spesso sono risposte; altre volte sono chiarimenti. Poi sono ancora tanto altro.
La prima formula da me usata consiste nel ripetere con accento interrogativo, ma non è necessario, le ultime parole di una frase che è stata appena pronunciata da chi mi sta parlando. In questo modo dico: – Ecco, hai detto una cosa importante, non lasciartela sfuggire. Oppure: posso anche voler dire: – Non credo a quel che mi stai dicendo. – O ancora: – Secondo me, non credi a quello che mi stai dicendo.
La risposta di chi mi ascolta è quasi sempre immediata: è percepibile dal mutamento di volume della voce e dalla, più o meno ampia, deviazione che compie il corso associativo dei pensieri.
Questo mio modo di comunicare può durare a lungo. L’analisi si viene strutturando e il mio intervento è, apparentemente, minimo. Quando le prime resistenze incominciano ad essere intaccate da questo tipo di comunicazione, passo ad un altro tipo. Che si divide, a sua volta, in due moduli distinti.
Questo secondo tipo potrei chiamarlo il momento del perché. Diviso in: momento del perché soletto e il momento del perché accompagnato.
Il momento del perché soletto consiste nell’insinuare un indifeso «perché» nel tessuto delle frasi che l’interlocutore pronuncia.
Questo «perché» lo pronuncio con intonazioni diversissime: perentorio, ambiguo, inquietante, dubitativo, stupefatto, etc. …
Il perché soletto può mettere estremamente a disagio, perciò, bisogna scegliere, con cura e attenzione, il momento in cui pronunciarlo. Bisogna scegliere il momento in cui la prima organizzazione difensiva non è né troppo serrata né troppo allentata. Se è troppo serrata, rischia di produrre un, se pur breve, periodo di stallo; se ci troviamo nella seconda situazione, produce, quasi sempre, un nuovo irrigidimento. Però, non presentando un nuovo tipo di resistenza; ma irrobustendo quelle che si erano appena indebolite. Se il perché è detto al momento giusto, dopo un breve disorientamento, il materiale associativo ed anche il contatto emozionale si arricchiranno.
Il momento del perché accompagnato è quello in cui il perché fa parte di una domanda vera e propria che, ben s’intende, può anche essere una risposta. Questa frase può, talvolta, avere il carattere di una vera e propria interpretazione. È importante che sia anche qualcosa di più. La frase ampia ed articolata anche se con il «perché» rafforza in un primo momento le resistenze. Però, riesce, anche ad evidenziarle.
È, in genere, attraverso questo tipo di comunicazione che, assieme, si passa alla seconda fase dell’organizzazione delle resistenze. Mi pare abbastanza ovvio che in qualunque momento del lavoro analitico si possano usare i tipi di comunicazione di cui sopra ho parlato.
Io li uso soprattutto all’inizio. Ritengo fondamentale dire che, ogni tipo di comunicazione usato, e questo in particolare, deve trovare una sua esplicitazione durante lo svolgimento del lavoro di analisi. Per me è un espediente, ma anche un bisogno, comportarmi così.
Penso che sia indispensabile chiarire il più possibile anche il comportamento dell’analista. Il non detto in ogni rapporto è sempre troppo. Tu ed io parliamo, comunichiamo, ci coinvolgiamo. Tu ed io ci dobbiamo sforzare di chiederci «il perché».