Psicoanalisi contro n. 1 – La sessualità e il piacere; il corpo e la parola

maggio , 1979

La nostra è una realtà corporea e, per questo, sessuale. Noi siamo so­prattutto il corpo che abbiamo sa­puto e voluto costruire nell’inter-a­zione tra il nostro desiderio di esi­stere e il mondo. Di questo corpo sono parte integrante gli organi ge­nitali, che ancora non abbiamo im­parato ad amare abbastanza e di cui non abbiamo imparato a suffi­cienza la determinante funzione po­litica.

La lettura del corpo è una lettura totale della persona: il cazzo e la fica sono specchio dell’anima ben più degli occhi; e gli occhi lo sono in quanto messaggeri del corpo e non dell’anima.

Il corpo è totalmente sessuale e ses­suato. Le zone erogene sono una schematizzazione della pornografia borghese, che pretende di insegnarci a fare l’amore con i brandelli del nostro corpo che, al momento, sono i più vendibili.

Il coito è un rapporto tra due corpi che inter-agiscono totalmente.

Le nevrosi sono dovute troppo spes­so ad una lettura particolare e di­storta dei messaggi che il corpo man­da, a dispetto del nostro «super Io».

Se è vero che le psicosi e le nevrosi hanno origine, in gran parte, in que­sto rifiuto del corpo, è evidente il limite di interventi «terapeutici» che pretendano di risolvere ogni pro­blema con la parola e soltanto con la parola.

È ridicolo che uno psicoanalista par­li del complesso di Edipo a un delirante o a un catatonico o a persone che, in vari modi e per varie ragioni, sono molto lontane dal linguaggio comune. E però possibile, anche per uno psicoanalista, cercare di ristabi­lire una comunicazione proprio at­traverso un tentativo, operato in­sieme, di recupero del corpo. Sbloc­care articolazioni irrigidite, far ri­trovare il piacere di desiderare ed essere desiderati, non attraverso comandi; ma attraverso una fisicità vissuta in comune: ballando, man­giando, lavandosi, toccandosi, ba­ciandosi; può essere il primo passo dopo il quale possiamo poi sperare che rinasca il desiderio della comu­nicazione più completa (anche ver­bale) che è anche presa di coscienza. È importante, però, che nessuno si imponga, e che a nessuno si impon­ga, un contatto non voluto; che non ci sia l’ombra di un sacrificio in nome di «un principio superiore». Bisogna che tutto si basi su di un desiderio ritrovato e reciproco: un contatto tra corpi che, insieme, ab­biamo reso possibile e desiderabile. Per riuscire a cogliere il linguag­gio del corpo, bisogna, prima di tutto, accettare il corpo; per accettare il corpo è indispensabile accettare il significato fondamentale del corpo stesso, e cioè: la pulsione sessuale è la radice della sessualità che è il piacere. Noi viviamo in una società che ci ha insegnato ad avere paura del piacere; il sacrificio è nobile, il piacere è pericoloso, «l’ozio è il padre di vizi», «prima il dovere e poi il piacere» (e questo è, forse, il più stupido di tutti i proverbi).

Ognuno di noi si sente nobilitato quando soffre e prova un poco di vergogna quando gode. Ci sono i pia­ceri permessi: il piacere dell’arte, il piacere di una passeggiata in cam­pagna; e ci sono i piaceri guardati con diffidenza; ma tollerati: il pia­cere della buona tavola, il piacere di un bel vestito (e qui già si parla di «frivolezza»); ci sono poi piaceri equivoci: il piacere di fare un bagno, il piacere di odorare un pro­fumo; e, infine, i piaceri quasi sem­pre condannabili che sono quelli della sessualità.

Diciamo quasi sempre, perché qual­cosa viene, di fatto, permesso, in questo campo; purché sia ben chia­ro che viene permesso a una coppia ben precisa, composta da un lui e da una lei, che si comportino, di fatto, come un lui maschio e una lei fem­mina, che, almeno, si amino (non si pretende neppure più che siano sposati) e che abbiano dei gusti per­sonali in materia di sesso, ma non così personali da essere «eccentri­ci». Al di là di ogni barriera del lecito sono invece collocati i piaceri decisamente sconvenienti: il piacere di orinare, il piacere di sentire le feci che escono dal ventre che si svuota, si rilassa. Questi sono i pia­ceri che tutti proviamo con grande intensità, ma che nessuno accetta di riconoscere al di fuori di un «gabi­netto» che diventa così un santua­rio dell’innominabile. Eppure fino a questo punto non abbiamo elencato nulla che possa costituire pericolo per il bene comune; non s’è parlato di piacere della tortura, piacere del­l’omicidio, piacere dell’offesa.

Tutti noi abbiamo un’estrema diffi­denza verso il piacere: un terapeuta sa quanto l’inconscio sia astuto nel vendicarsi del piacere. Politicamen­te, il poveraccio che se ne sta sdraia­to sul divano, ha accettato e voluto molti piaceri, li ha vissuti fino in fondo; ed ecco che questo perfido «inconscio» e questo sadico «su­per Io» si accaniscono su di lui pro­curandogli sintomi terribili, tortu­randolo, facendolo torcere. Proprio come l’Inquisizione faceva contro quelli che si ribellavano all’uomo ve­stito di bianco che dettava la legge, in nome di Gesù, San Pietro e dello Spirito Santo.

Abbiamo introiettato che il piacere debba farci paura, perché il piacere, e questo la nostra cultura l’ha capi­to prima e meglio di Freud, è sem­pre sessualità in atto. Non c’è pia­cere che non abbia una sfumatura di sessualità, un colorito sessuale, un profumo di sesso: ecco perché ci fa paura. Tutti cerchiamo questo pia­cere e tutti ne abbiamo paura: ab­biamo paura di vederlo in noi e ne­gli altri, abbiamo paura di darlo a noi stessi e agli altri.

Bisogna invece accettare il piacere, andare alla ricerca delle radici di ogni piacere e di tutto il piacere, cer­care di conoscere di dove sorge e sapere che sorge dalla sessualità. Bisogna lottare contro l’ombra ca­stratrice degli antichi padri, che si proietta sul nostro piacere e lo tra­sforma in sofferenza ed ansia, che ci fa vivere il nostro sesso e la no­stra sessualità come angoscia.

Non basta però un semplice gesto di volontà perché riusciamo a liberarci di meccanismi che sono rimasti den­tro di noi per anni; ma il piacere ha un aspetto molto positivo: non si spegne mai, piacere e sessualità sono continuamente presenti: nel bambi­no, nell’adulto e nel vecchio.

La società borghese ha tentato di vo­lere che i due estremi della vita: l’infanzia e la vecchiaia, fossero esenti dalla «scura macchia» del sesso; ma, al contrario, sessualità e piacere sono vivi, in tutta la loro ricchezza, in ogni momento della vita: dall’inizio alla fine.

Ci si può alleare alla voglia che il nostro corpo ha di sesso e di piacere per trovare un’energia che si opponga alla forza di questa Santa Inquisizione che ci portiamo dentro. L’irrigidimento, anche fisico, degli individui adulti non è solo o preva­lentemente dovuto al processo di atrofia muscolare o alla minore ela­sticità ossea. Gli adulti sono rigidi proprio perché hanno rifiutato il corpo e lo hanno inserito in rituali stereotipi che permettono loro di vi­vere trovando sempre la giustifica­zione di ogni loro gesto.

Il corpo è ancora e di nuovo una realtà tutta da scoprire, miscono­sciuta e intatta. Dopo anni, io credo di aver imparato almeno un poco a leggere il corpo: prima ho imparato a leggere il mio e poi quello degli altri.

Il corpo, come la psiche, ha la sua storia, i suoi sintomi, le sue reazioni, il suo linguaggio; ma è importante leggerlo non solo da un punto di vi­sta che pretenda di essere teorico, tecnico, scientifico: questo tipo di lettura potrebbe essere importante e interessante per uno psicoanalista che voglia percorrere nei due sensi il passaggio dal corpo alla psiche e dalla psiche al corpo per i suoi fini terapeutici; è molto più importante la lettura che ognuno di noi può fare del proprio e dell’altrui corpo, pro­prio perché ognuno di noi è un cor­po. Due corpi che si toccano sono due individui che si parlano e purtroppo la sintassi di questo linguag­gio è andata perduta e perciò la comunicazione è diventata così diffici­le e mistificata.

Non voglio quindi che si pensi al linguaggio corporeo come a un lin­guaggio in più da porre in mano ai «tecnici»; ma vorrei che il corpo riacquistasse per ognuno di noi tutta la capacità espressiva. Capacità che si può esprimere solo rompendo gli schemi del comportamento fisico che ci hanno finora ingabbiati perché anche il nostro corpo fosse funzio­nale alle strutture che sono state co­struite sopra e contro di esso.

Tutto: dall’esigenza di produttività all’insediamento dei meccanismi di potere è stato operato contro le esi­genze del corpo, che è un principio egualitario nella sua stessa essenza. Abbiamo ricoperto il corpo di abiti e di parole per imporre agli altri uno stato sociale, e questo stato sociale si è poi identificato con lo stato bor­ghese.

Non voglio teorizzare, qui ed ora, il ritorno alla belva umana; voglio solo che sia chiaro che l’addizionarsi del­le ragioni storiche ed economiche che ci hanno portato a questa nega­zione del corpo, costituiscono la ra­gione stessa che ha reso questa ne­gazione necessaria.

Il sofista è più pericoloso del lotta­tore, perché lo può determinare e condizionare anche nell’uso della stessa forza fisica. Bisogna che l’uo­mo si convinca che la presa di co­scienza è un problema che lo riguar­da nella sua totalità e che la sua totalità è, di fatto, il suo corpo: an­che il più sublime dei concetti si può esprimere solo in funzione di una realtà fisica corporea.

Ma abbiamo appena scoperto l’atro­ce inganno paroliero della borghesia che ecco moltiplicarsi i profeti e le profetesse che ci annunciano l’Era del Corpo Liberato. Si allestiscono calderoni zeppi di corporeità conditi con le salse più differenziate: orgoni reichiani, peristalsi tantriche, rein­tegrazioni primarie. Gli stronzi di tut­ta la terra si riappropriano della loro fecalità e si proclamano isteri­camente o catatonicamente liberi. La Dittatura della parola ha ceduto il posto al Regno del corpo: ci toc­chiamo freneticamente gli alluci mu­gulando sensazioni per cui non esi­stono più parole. Eccoci un’altra volta divisi in due: da una parte il Corpo e dall’altra, infinitamente più sotto, la parola. Questa situazione la chiamiamo l’integrità psico-fisica. Un inganno è stato perpetrato an­cora una volta e il verbo borghese si riappropria della sua capacità di smercio e di controllo del mercato. Potrebbe anche non fregarcene nien­te di immischiarci in un gioco in cui l’imbroglio rappresenta per tutti i giocatori la loro ragion d’essere e, talvolta, la felicità, se non avessimo visto con quanta violenza lo stesso gioco è stato imposto a chi non ave­va deciso di giocarlo.

Ci riferiamo alla brutalità con cui nei lager aperti degli ex ospedali psichiatrici tersicoterapeuti cretini, musicoterapeuti reazionari od ergoterapeuti nazisti hanno deciso che bisogna far sgambettare il matto, che bisogna costringerlo a costruire bor­se di cuoio e tovaglie all’uncinetto per garantirgli la possibilità di rein­serirsi (finalmente!) nella civiltà pro­duttiva. Le case-famiglia, dentro e fuori, e i «day-hospital» pullulano di artigiani-padroni e artisti-aguzzi­ni che impongono i ritmi produttivi alla catena di montaggio della fisi­cità-felicità.

Questi millantatori del reinserimento provengono quasi tutti dai calderoni della corporeità cui accennavamo prima. Per fortuna che i ricoverati ed ex-ricoverati liberi o semi-liberi, ormai senza illusioni, hanno guarda­to e guardano con ironia i nuovi padroni.

Il crimine è possibile perché nel­l’ebrezza della fisicità, nessuno si preoccupa di cercare parole che sve­lino che solo il padrone è padrone del corpo (dell’altro).

Così come il primato della parola ha rappresentato, per secoli, la fuga dal corpo per stabilire il dominio sulle persone, oggi il potere ci impone di abbandonare le parole in fa­vore di una fisicità tutta fascista. Allora come ora, l’ingiunzione è di non pensare, di evitare la presa di coscienza.

Noi crediamo che la presa di co­scienza sia il passo indispensabile verso la presa di coscienza delle clas­si; noi crediamo che le parole pos­sano servire a costringerci a mettere in discussione noi stessi e gli altri. Liberare i nostri corpi, come preten­dono di insegnarci i rotocalchi, è non solo inutile; ma è dannoso, per­ché ci mutila un’altra volta.

Noi riteniamo fondamentale riap­propriarci del corpo; ma non voglia­mo dimenticare che di questo corpo la parola e il pensiero sono parti integranti. Una frase può costrin­gerci a prendere coscienza anche della nostra fisicità. Le parole pos­sono spesso essere scomode. Non serve dire che le parole sono ambi­gue: è vero; ma a volte ci inchiodano con la loro evidenza.

I training autogeni, le ipnosi, le te­rapie corporee, possono, qualche vol­ta far sparire l’ansia e renderci un po’ più allegri, scaricare ingorghi li­bidici, e noi siamo pienamente d’ac­cordo. Riteniamo che sia importan­te calarsi nel proprio e altrui corpo; ma è importante anche capire per­ché siamo stati così brutalmente se­parati dal corpo.

Non serve, né psichicamente, né po­liticamente, vivere una regressione fino ai nostri primi istanti di vita, se, parallelamente, e contempora­neamente, non ci rendiamo conto, attraverso la parola, del significato individuale e politico dei meccani­smi e dei condizionamenti che han­no contribuito a formarci.

La natura è un’invenzione della bor­ghesia: esistono le cose e gli uomini. Gli uomini debbono sforzarsi di capire perché hanno chiamato stelle le stelle; ma anche perché hanno chiamato uno maschio e l’altro fem­mina, uno padrone e l’altro schiavo; anche perché io ho avuto quel trau­ma e quei giocattoli.

Se l’uomo è uno, sia veramente uni­tario: con le ovaie e con i testicoli, con le orecchie e con la parola.

La parola può metterci a disagio, però non dobbiamo fuggirla; come non dobbiamo fuggire dal corpo.

Se abbiamo paura del corpo chie­diamocene il perché, se lo usiamo chiediamoci come.

La psicoanalisi è fatta anche di pa­role; ma non solo di parole. Può essere una via da percorrere, una possibilità di progredire.

Verso dove vogliamo progredire sta a noi dirlo: con le parole e con i fatti.