Psicoanalisi contro n. 1 – Eros e Bios: anche la nascita del rito (3^ parte)

maggio , 1979

A questo punto vorrei parlare di un atteggiamento diametralmente opposto, anche se ha la stessa genesi difensiva: il comportamento sadomasochistico.
Mi pare abbastanza evidente (ma è meglio esplicitarlo) che io, qui, ora, sto elaborando una sistemazione soprattutto logica: sto descrivendo due atteggiamenti e comportamenti esistenziali, il narcisismo e il sadomasochismo, usando una serie di astrazioni che mi servono operativamente per il mio discorso, ma che servono soprattutto per il discorso. Allora dovrei dire che si tratta di pure costruzioni mentali? lo spero di no, per due ragioni: la prima è che una costruzione mentale non è mai soltanto una costruzione mentale; la seconda che un discorso sistematico, anche se astratto, è sistematico appunto perché cerca di sistemare un materiale che tende alla sistemazione, sebbene, per fortuna, non sia riducibile interamente alla sola sistemazione.
La cultura dell’ottocento, nei romanzi, in teatro e in psicologia, ha scoperto il sadismo e il masochismo.
Il marchese de Sade e lo scrittore Sacher von Masoch hanno prestato il loro nome alla definizione di questi due comportamenti umani vecchi quasi quanto l’uomo. Le osservazioni più o meno psicologiche hanno inoltre scoperto che questi due comportamenti sessuali si presentavano in coppia. Quello stesso che, per provare il piacere erotico, deve infliggere sofferenze al partner, allo stesso tempo, in modo più o meno fantastico, desidera anche vivere le situazioni della sua vittima e, ovviamente, viceversa, colui che ama essere la vittima si identifica anche con il carnefice.
La psicologia, descrittiva e non, del tardo ottocento, e anche la psicoanalisi, hanno tentato di compilare up elenco delle cosiddette « perversioni sessuali», cioè di quei comportamenti sessuali che si allontanano così tanto da ciò che la consuetudine ritiene debba essere la sana attività sessuale da pervertirne il senso; e il senso della sessualità normale è identificato soprattutto con la procreazione. (Il fine e il significato della sessualità è stato posto nella procreazione, come ho detto, ma non bisogna tacere che la psicoanalisi si è sempre sforzata di mettere in evidenza anche l’aspetto della sessualità legata al piacere).
È un fatto ormai che le perversioni sessuali, elencate, discusse e raccontate fanno bella mostra di sé nei trattati e nella letteratura.
La coppia sadismo-masochismo, insieme con l’omosessualità, rappresenta il tipo di perversione che ha fatto più orrore alle coscienze nell’ultimo secolo. Un orrore pieno di fascino tenebroso.
Era abbastanza inevitabile che da queste basi scaturissero poi anche gli esaltatori della perversione; per ragioni estetiche prima, politiche poi. Ed ecco le estetiche e le ideologie che esaltano il «diverso». Un diverso, però, secondo me, assai poco « diverso». Tutto sommato, la nostra cultura contemporanea ha preso per buone l’elencazione e la descrizione delle perversioni come le ha catalogate la « bèlle époque» ed ha tentato di metterli addosso a noi, come se fossero costumi di carnevale: il costume del « normale » in una categoria a parte; poi quello dell’omosessuale, del sadomasochista, dell’esibizionista, del feticista, e via discorrendo. La psicoanalisi, dal canto suo, teorizzava che l’essere umano nasce, vero prodigio di circo, avendo addosso, o almeno a disposizione, tutti i costumi di questo carnevale della sessualità.
Da quando ho incominciato ad interessarmi della psiche umana, mi sono imbattuto nella diagnosi. Dapprima vi ho creduto assolutamente, tentando di calare ogni persona che incontravo dentro ad uno schema diagnostico; poi mi sono accorto di come le diagnosi siano abiti che non si adattano mai alle persone singole; malgrado i più abili lavori di aggiustamento che una sartoria potrebbe fare. Ogni essere umano sfugge, sempre, con ostinazione, ai tentativi più volenterosi di imprigionarlo in uno schema rigido. A questo punto sorge (sorse anche in me) l’iconoclastia antidiagnostica. Con furia mi sono messo a distruggere le nuove icone, le cartelle cliniche, le descrizioni precise. Ora mi sono stancato anche di questo furore delirante. Mi rimangono molti brandelli variopinti e rimane, però, intatta e insoddisfatta la voglia di capire gli altri e me stesso.
Potrei assumere l’atteggiamento moderato di chi dice che le diagnosi e le definizioni hanno un carattere strumentale ed operativo, che pur sapendo che l’essere umano è molto più ricco bisogna comunque tentare di descriverne il comportamento. lo, però, conosco anche il pericolo che si nasconde nelle parole.
Le parole non soltanto descrivono; ma, spesso, creano. Le parole sono altro dal desiderio; ma condizionano il desiderio. Io sento e dico con le parole che io non sono. sono parole; ma esse sono presenti nel miei pensieri e, spesso, le mie parole e la mia carne sono sentite e pronunciate allo stesso tempo.
Il catalogo delle perversioni, quindi è un elenco di diagnosi e una serie di «parole». Accettarlo è riduttivo rifiutarlo interamente pare impossibile. Non voglio, però, esserne prigioniero. Voglio cercare di liberarmene almeno in parte. Ho contrapposto, prima, il narcisismo al sadomasochismo: questa è una contrapposizione che mette in re!azione. Ho sommato due concetti che non bisognava sommare. Il narcisismo non faceva parte del catalogo delle perversioni, tutt’al più è la causa di alcune di queste, il sadomasochismo, invece, è una perversione. E allora? Allora si vede che ho preso questi due vecchi. concetti e li ho un po’ rimescolati e stravolti.
Il narcisismo e il sadomasochismo sono, per me, due modi fondamentali di affrontare la relazione sessuale, e poiché ogni relazione sessuale è anche una relazione e ogni relazione una relazione sessuale, possiamo dire che sono due modi fondamentali di affrontare la relazione.
Il primo modo, quello narcisistico, affronta la relazione tentando di negarla. O meglio: il narcisista. tenta di negare l’altro come altro riconoscendogli soltanto una presenza fantasmatica nell’obbiettivo di renderlo innocuo e controllabile.
Il sadomasochismo, invece, va alla ricerca dell’altro, come tale, nella sua concretezza. Se l’altro non è sentito e vissuto come altro, il sadomasochismo non è sadomasochismo. Il comportamento sadico sessuale consapevole, non solo vuole, ma deve sentire l’altro come altro da far soffrire. Più l’altro è altro, maggiore è il piacere di infliggergli sofferenza. Nel rapporto sadico è indispensabile percepire l’altro nel!e sue vibrazioni sensuali per meglio coglierle realmente, per vibrare con precisione il colpo. Così nella situazione masochistica l’altro deve essere sentito come altro che, nella sua alterità, infligge la sofferenza.
Perché il piacere sia pieno bisogna convincersi che sia realmente un altro a stringere, ad opprimere ad umiliare. L’Io non deve sapere nulla dei meccanismi proiettivi per i quali l’altro diviene anche non altro in un gioco di specchi contrapposti. Il gioco ha le sue regole e solo una stupida pedagogia considera il gioco come un’illusione.

Un pomeriggio venne da me un ragazzo: gentile e bruttino. Con una vocetta sentimentale incominciò a parlarmi usando molte espressioni convenzionali, da rotocalco; ma c’era in lui qualcosa di leggermente inquietante. Pian piano, nel corso della conversazione, vennero fuori fantasie sadomasochistiche attente e precise. Poi mi parlò dell’esperienza di collegio, dei terribili giochi cercati e subiti, echeggianti il ricordo letterario di Musil e del suo giovane Torless. La volta successiva ritornò; era passata una settimana; ma, dalle sue parole, mi accorsi che aveva percepito tutto nel corso del nostro precedente incontro: il mio abbigliamento, la mia casa, gli odori, i suoni, i rumori del quartiere.
Un inizio di transfert? Senz’altro; ma anche qualcosa di più. Un bisogno di attenzione, di mettere all’erta la pelle e lo sguardo, per essere pronto a non perdere la possibilità di ferite da infliggere e da subire. Altrimenti la realtà sfugge, il pia. cere rischia di non essere avvertito, di presentarsi senza la sua punizione e questo non sia mai! Ecco: di nuovo la difesa, il desiderio del piacere e il piacere del desiderio che fanno muovere l’essere vivente o meglio: che cominciano a muovere nell’essere vivente. Ma ciò che è intorno è sentito come rigido ed ostile; il desiderio si smarrisce e si disorienta, si sente debole, ha paura; ma non fugge: attacca.
La sofferenza è un modo di appropriarsi di una relazione difficile in cui il senso di colpa si presenta subito, perché è già presente tutto intorno. Il desiderio è piacevole; ma cerca di travestirsi con i panni del suo contrario. Sono nuovamente presenti le quattro cause che hanno originato anche il narcisismo: la frustrazione del desiderio, da cui la ribellione compensatoria; la paura di un’ulteriore impossibilità della relazione, da cui inizia il meccanismo di difesa. Il piacere nega se stesso, negando il rapporto diretto con l’altro: è indispensabile il diaframma del dolore; ma, poiché si cerca fuori di sé la compensazione, non si devono qui chiudere le finestre sull’esterno, anzi: i giochi sono capovolti, i gesti vengono rovesciati.
Il sadismo e il masochismo riescono di rado a raggiungere la consapevolezza. Nell’analizzare il narcisismo e il sadomasochismo, ho ritrovato in pieno il pregnante significato dell’inconscio. Io ho più volte ripetuto che la psicoanalisi tradizionale ha eccessivamente schematizzato la psiche umana, dividendo in modo troppo netto il conscio dall’inconscio (inserire il concetto di pre-conscio non è sufficiente). Pur continuando a ritenere valida questa mia affermazione, mi rendo però conto di aver avuto troppa vergogna dell’inconscio; come se offrisse una scappatoia troppo facile per non spiegare ciò che non si ha il coraggio di capire.
Eppure l’inconscio non è un’ingenua trovatina tardo ottocentesca. È la più importante scoperta impossibile del nostro secolo. L’inconscio mi si è ripresentato ora con tutta sua oscura forza. Il narcisismo si presenta compatto; ma con una gran parte di sé rimossa e, sotto ancora, ci sono fantasie sadomasochistiche decisamente inconsce; il sadomasochismo ha, da parte sua, operato una massiccia rimozione del narcisismo, producendo un lo claudicante e falsamente onnipotente. Sulla strada del sadomasochismo ho anche trovato, però, un atteggiamento particolare, che mi ha, lì per lì, lasciato perplesso. È, questo, un atteggiamento al quale la psicologia non ha ancora affibbiato un nome-etichetta; perciò si tratta di qualcosa di particolarmente sfuggente; ma che si può riscontrare nella realtà della persona, preciso e puntuale.
È l’atteggiamento di colui che, pur avendo poche fantasie sadomasochistiche consce, è riuscito a liberarsi sufficientemente del meccanismo di difesa narcisistico e, quindi, percepisce l’altro intensamente, perché cerca dall’altro gratificazione, consenso. L’altro è percepito come altro perché possa appoggiare ed applaudire e, soprattutto, ammirare. Intendiamoci, non parlo del desiderio di ammirazione ottuso ed opaco del narcisista per il quale l’altro e gli altri sono una presenza indistinta, una platea, immersa nel buio, di fronte alla quale egli recita.
In questa situazione, gli altri debbono necessariamente essere altri, altrimenti non si gode a sufficienza, non si è adeguatamente rassicurati.
A questo punto del mio discorso, sono assolutamente certo che i narcisisti che stanno leggendo queste righe si sono identificati con quest’ultimo tipo di persone. Questo è, invece, un atteggiamento che si riscontra abbastanza raramente; ma la cui presenza ha rischiato, per un po’, di mettere in crisi la mia bella visione dicotomica e speculare. Fortunatamente, i quattro meccanismi di cui ho detto più sopra si trovavano già ad essere elementi unificanti originari dell’atteggiamento narcisistico e di quello sadomasochistico; atteggiamenti la cui differenziazione avviene poi per ragioni legate alla storia del desiderio individuale.
Questo, apparentemente, terzo atteggiamento, che chiamerei: «senso antologico di castrazione» lo situo sulla strada del sadomasochismo.
La frustrazione originaria costituisce la persona come mancante. La paura e la difesa mettono in atto un particolare tipo di compensazione, per cui non è tanto il senso di colpa ad agire, quanto il bisogno di una gratificazione immediata, che viene trovata nell’ammirazione protettiva. Se portiamo a fondo l’analisi di questa personalità e di questi atteggiamenti, troviamo una gran quantità di desideri sadomasochistici abortiti ed un egoismo tenace e caparbio che ha superato persino il ripiegamento sul sé narcisistico. Chi si trova immerso in questo atteggiamento ha, spesso, un estremo bisogno del sentimento di riconoscenza da parte dell’altro. Vediamo questi individui profondamente offesi, quasi si sentissero espropriati, quando un dono che essi fanno, anche piccolissimo, non viene notato dall’altro che non si affretta a manifestare subito una profonda gratitudine. Colui che si trova in questa situazione è anche un avaro, quanto e, forse, più del sadomasochista.
Il denaro ha per lui un profondo significato simbolico; riesce a destargli immaginazioni di aggressione, agita e subita. Costui prova spesso una profonda avversione ad entrare nei negozi, soprattutto in quelli in cui il rapporto col venditore è più personale, con il diretto scambio tra merce e denaro.
Anche per questo, forse, l’economia di mercato ha inventato la formula del grande magazzino, luogo in cui il rapporto è più anonimo, dove manca la figura super-egoica che ti assilla osservandoti mentre chiedi e strappandoti direttamente di mano il denaro. Nel grande magazzino le commesse e i commessi sono persone distratte e disinteressate; la merce è sciorinata in un’inerzia spesso caotica; il denaro viene ingoiato da un aggeggio meccanico che produce suoni fantascientifici, non ben distinto dalla figura della persona che lo manovra.
Le persone che si trovano in questa situazione non reggono alla competizione, a differenza del narcisista che la cerca; ma, spesso, non la percepisce. Qui, il sadomasochismo fa che la competizione sia desiderata; ma il timore della sconfitta rende spesso troppo insicuri e perciò rinunciatari. In questo aspetto possiamo forse vedere il punto che unisce narcisismo e sadomasochismo:
entrambi sono comportamenti sempre sessuali, perché sessuale è, sempre, ogni comportamento.
Non me la sento, e non ne ho voglia, di. definire qui che cosa sia la sessualità (debbo purtroppo riconoscere che il non detto soverchia, sempre e di gran lunga, il pochissimo detto).

Sessualità e rapporto narcisistico, sessualità e rapporto sadomasochistico (perché pur sempre di rapporto si tratta) sono comportamenti che si circoscrivono entro la dinamica vitale. Wittgenstein ha detto: «La morte non è evento della vita. La morte non si vive» (cfr. «Tractatus », 6.4311).

La psicoanalisi, in una balorda crisi metafisica, ha teorizzato la pulsione di morte; ma noi dobbiamo sapere che la morte che avviene è tutt’altra cosa: la vita è circoscritta, tutta, nella vita. È troppo ingenuo far coincidere il dolore con la morte, e forse anche troppo comodo. Il dolore è distruttivo appunto perché non distrugge del tutto. Le fantasie dell’adulto e del bambino sentono il dolore come male proprio perché è presente come forza della vita.
Ho detto che la cultura è rappresentazione, e la rappresentazione è sempre rappresentazione di una lotta fra il bene e il male, i quali non sono altro che il piacere e il dolore.
Ho anche detto che questa rappresentazione si realizza negli istanti dell’attesa. La fantasia colma i vuoti apparenti (perché mi sembra abbastanza evidente che non esiste, veramente, il vuoto). Nell’attesa in cui sorge e si distende il desiderio nasce il nostro bisogno di inventarci il tempo.
Il tempo misura la durata del desiderio. L’attesa è sempre un proiettarsi all’esterno. In questo dirigersi, il desiderio aspetta. In questo aspettare sorge il concetto di tempo. Un concetto, questo, la cui unica raffigurazione corretta è rappresentata dalla misurazione che ne fanno i nostri imprecisi orologi; imprecisi sempre, perché sempre altro dal desiderio; ma, nello stesso tempo, sempre esatti, perché sono l’unica oggettivazione possibile del tempo.
In questa temporale estensione del desiderio sorge il teatro della cultura: tempo e cultura, tempo e arte, coincidono.
La rappresentazione desiderante non coincide con la pulsione desiderante; ma le si sovrappone. I contorni quasi combaciano; ma non perfettamente. Il tempo non è il significato dell’esistenza. L’esistenza si inventa il tempo per colmare e placare la tensione del desiderio. Il tempo è il senso della rappresentazione. La rappresentazione desiderante si sovrappone al desiderio, non né è assolutamente in contrasto:
potrei dire che è un desiderio che si sovrappone ad un altro desiderio.
La rappresentazione desiderante si distende nel tempo per appagare ciò che il tempo ci fa sentire come di là da venire.
A questo punto, le avventure mentali possono essere molte: giochi e capriole logiche che, forse, mi costringerebbero a trarre una conclusione che non voglio, cioè che la rappresentazione desiderante, pur avendo come suo senso il tempo, sorgerebbe per contraddire il tempo, per opporglisi, per costringerlo in un presente atemporale.
Cerco di spiegarmi meglio: il tempo e la rappresentazione desiderante sorgono entrambi quando il desiderio attende, e il desiderio è sempre un po’ in attesa. La rappresentazione desiderante sorgerebbe allora per colmare la sensazione di vuoto dell’attesa, la quale si presenta a noi perché c’è il tempo; quindi la rappresentazione desiderante sorgerebbe per distruggere il tempo. Ma, se il tempo è il suo significato, la rappresentazione desiderante sorgerebbe per distruggere il proprio significato.
lo che amo le contraddizioni sono talvolta messo a disagio dalle contraddizioni stesse. Questa è una di quelle contraddizioni che rischiano di modificare i miei pensieri, rendendoli sterili ed inefficaci. La soluzione la trovo, forse, immergendomi con un po’ meno di paura nel concetto di tempo.
Finora ho parlato di tempo come di qualcosa di reale e di misurabile solo con se stesso; ma gli orologi non sono il tempo, ne sono soltanto la misura. Il desiderio e la rappresentazione desiderante non sono unidirezionali come il tempo; essi si diramano per vie molteplici. Il tempo sorge per imprigionare il desiderio: prigionia assai utile; ma che è solo una delle possibilità del desiderio. Quindi, la rappresentazione desiderante ha come suo senso il tempo; ma non coincide con esso: sorge nel tempo, si distende nel tempo, ma tenta, perennemente, di liberarsi da esso.
Ecco perché io penso che la rappresentazione del desiderio più immediata, quella più vicina al desiderio stesso, sia la musica. La musica fa del tempo la sua ossatura; ma riesce quasi (o forse ci riesce del tutto) a distruggerne l’unidirezionalità.
Il tempo della musica è il ritmo. Il ritmo è il tempo nel momento stesso in cui è sentito, nel momento, quindi, in cui, quasi, non è ancora tempo; ma è solo pulsione che si dirige e che, in questo suo dirigersi, gode nell’ascoltare il suo movimento. Movimento che non è spazio, ma è ritmo.
Il ritmo è costituito dall’alternarsi della pausa e della presenza: pausa che diventa presenza e presenza che si trasforma in pausa.
Il bene e il male, cioè: il piacere e il dolore, pulsano e si distendono in un ritmo. lo, però, nego che il dolore sia necessario al ritmo del piacere. Tutto viene ritmato; ma il ritmo è subito, è prima: nel distendersi stesso del piacere. Se non ci fosse il ritmo il piacere, è vero, non percepirebbe se stesso; ma io riaffermo, con tutte le forze di cui sono capace, che il ritmo del piacere non è dato dal suo alternarsi col dolore, bensì dal piacere che scopre se stesso. Il dolore è la contraddizione non necessaria del piacere e viene incluso nel ritmo malgrado il ritmo stesso.
La rappresentazione sorge nell’attesa, quando l’attesa viene percepita come tale. Il pensiero si realizza nel teatro: è una fantasia che coincide, quasi, con la realtà; ma che non è la realtà. Il teatro è la prima e forse l’unica forma di cultura. La tradizione storica pretenderebbe che il teatro sia scaturito dal rito.
Nei tempi antichi, si racconta a sostegno di questa tesi, avevano luogo rappresentazioni sacrificali. Presso i villaggi, in luoghi aperti e sacri, talvolta presso qualche grande albero, la gente si radunava per sacrificare a qualche dio (alcuni dicono a Dioniso). Il sacerdote raccontava le imprese del dio, il popolo punteggiava questo racconto con canti. In seguito, il racconto divenne rappresentazione, i fedeli, da partecipanti al rito che erano, si trasformarono in spettatori. I compiti si differenziarono in modo più netto: nacquero gli attori, qualcuno scrisse i testi e le musiche, sorse il teatro; in seguito sorsero i teatri.

lo intendo capovolgere questa storia, affermando che: prima sorse il teatro, poi, sul modello del teatro, sorse il rito. Secondo me il rito è figlio del teatro, e non viceversa. Il sogno è torse la prima forma concreta di teatro: nel sogno l’uomo racconta a se stesso, vivendo li, i propri desideri. Un lapsus che tutti facciamo molto frequentemente è quello di chiamare sogno uno spettacolo cinematografico o una rapo presentazione teatrale, non facciamo più nessun caso a questo lapsus, poiché lo riteniamo una di quelle ovvietà che non hanno bisogno di spiegazioni.
Tutti percepiamo il sogno come rapo presentazione, e viceversa. I sogni si sono formati per primi; poi, lentamente, dalle rappresentazioni del pensiero, nel sonno o nella veglia, si passò a brevi rappresentazioni quotidianamente agite: il canto, il lamento, il passo danzante; si incominciò ad usare suoni e gesti per esorcizzare la paura. Questi suoni e questi gesti confluirono poi nel rito, dove si organizzarono nell’intenzione di raccontare una storia, che servisse ad esorcizzare il pericolo.
Il rito è ancora così vicino al desiderio che riproduce, quasi intatto, il ritmo del piacere. Il rito si snoda con un ritmo esplicito e quasi sempre evidente: i gesti, le parole, gli odori, riproducono la danza originaria, la danza scaturita. dal desideri del sogno e della veglia. Il piacere e la pulsione libidica pulsano seguendo il loro ritmo. Il sogno, il pensiero e la danza mimano questo piacere cogliendolo, quasi, nell’istante stesso in cui sorge. Lo riproducono, lo fanno scaturire dalla successione dei gesti, fino a produrre una rappresentazione autonoma, organica, che si distende e si articola nel ritmo suo proprio.
L’apparente autonomia che i gesti rituali sembrano conservare nel confronti della loro fonte piacevole serve a realizzare la loro funzione di esorcismo. L’essere umano sente fin da subito che la frustrazione del desiderio non è causata soltanto dalla propria debolezza; ma, soprattutto, da una forza esterna cattiva e vendicatrice.
Credo che il primo pensiero che nasce dopo la frustrazione esprima il timore di essere vittime della punizione. È impossibile, per l’uomo, accettare la precarietà sentendola solo come tale; la precarietà è sentita anche come opaca e impersonale, lascia l’uomo esposto al pericolo oscuro della solitudine. Ho detto prima che l’uomo è programmato per la relazione: tutto l’individuo, tutto l’organismo umano, è programmato per la relazione, strutturato per reagire in rapporto con l’altro da sé, inanimato o animato che l’altro sia. La psiche, in particolare, è programmata per l’inter-azione con gli altri esseri viventi e l’uomo accetta con fatica l’idea che alcune delle cose che lo circondano siano inanimate. Basta osservare qualcuno alle prese con una radiolina che non funziona, per accorgersi, dai suoi gesti e dalle sue espressioni, che in fondo rimane la convinzione che la radio sia ammutolita anche con una intenzione, per fargli dispetto.
Il desiderio, quando è frustrato, sente rivolgerglisi contro un altro desiderio, o meglio sente che è il desiderio di qualcun altro che gli si oppone, anche quando non è così.

Il rito, come dicevo, con i suoi gesti carichi di libido, scarica parte del desiderio, appaga e, nello stesso tempo, protegge dalla punizione.
Spesso, le motivazioni del rito, quelle remote come quelle immediate, non sono neppure più percepite ed il rito stesso realizza tutto il suo significato perché difende dalla paura che il piacere venga frustrato appagandolo in modo autonomo.
Il desiderio, la pulsione, la sessualità, si realizzano nella relazione con l’altro. La difesa immediata da questa relazione, o meglio dalle possibili frustrazioni che dalla relazione possono derivare, può essere di due tipi. Nel primo tipo, la difesa non tenta di negare il rapporto con l’altro; tenta piuttosto di rappresentarlo, colmando così il vuoto creato dalla tensione dell’attesa: ed ecco la rappresentazione, il teatro, la cultura. Il teatro colma l’attesa, divenendo egli stesso piacere ed appropriazione, anche se, paradossalmente, riproduce una miriade di situazioni di attesa. Nel secondo tipo, la difesa mette in atto meccanismi che distaccano dal rapporto con l’altro.
Il narcisismo e il sadomasochismo sono atteggiamenti in cui il piacere del rapporto libidico si traveste e, talvolta, si disorienta. È, questo, un disorientamento profondo, che consegue a millenni di instabilità e di paura. Sarà mai possibile superare questa paura?

Esiste la possibilità di un rapporto che sia sessuale e felice nello stesso tempo? È possibile sentire l’altro come tale? È possibile trovare la propria realizzazione in un rapporto che percepisca l’altro nella sua autonomia e nella sua piacevolezza? Se gli altri sono altri, possono ferire: sarà possibile non temere queste ferite?
Noto che queste ultime ricche sono cosparse dai graziosi riccioli insinuanti dei punti interrogativi.
Questo grazioso ricciolo pretende, talvolta, una risposta; ma io penso che la risposta sia, per ora, impossibile.
Potrei dichiarare che mi accontento di sapere almeno ciò che non bisogna volere. Potrebbe bastarmi conoscere quali sono gli atteggiamenti in cui è pericoloso cadere ed imparare a difendermene. Significherebbe difendersi dalle difese: quante contraddizioni e quante parole!! Finalmente eccoci alla smilza e petulante asticciola del punto esclamativo; che, però, devo ammettere, non è venuta a concludere una risposta. Un esclamativo messo lì soltanto per rafforzare una constatazione.
Una parola sta roteando vorticosamente nella mia mente; una parola che non ho il coraggio di esprimere; una parola che viene di lontano, da un’altra lingua e, quasi, da un altro mondo. Una parola che potrebbe servirmi a definire l’atteggiamento possibile, che io ritengo accettabile e produttivo e anche politicamente soddisfacente. Ho paura però di definire un’altra volta, con troppa concretezza, un comportamento umano.
La parola che ho così paura di dire è: «Eros».
A me richiama alla mente una divinità lontana, gradevole e felice.
Ad altri può rievocare immagini meno gradevoli, o addirittura brutali.
Una parola a metà suono e a metà dio che io pongo a conclusione di questo discorso, per un mio incomprensibile bisogno di mitologia. Voglio dire che, secondo me, il rapporto pieno e diretto, che non teme la frustrazione e che non nega l’altro, è il rapporto erotico.
Ma non voglio difendere oltre questa mia scelta di una parola-dio e l’aggettivo che da essa deriva. Bisognava pur concludere con una cadenza elegante.