Psicoanalisi contro n. 1 – Eros e Bios: anche la nascita del rito (1^ parte)

maggio , 1979

Io penso che l’essere umano sia, anche, continuamente, alla ricerca della stabilità.
La novità affascina e spaventa nello stesso tempo. Affascina perché spezza la monotonia di situazioni ripetute; spaventa perché sembra incontrollabile. La novità è difficile da concepire, sfugge con i suoi contorni imprecisi: dove la mano si aspetta un appiglio si può trovare il vuoto, o, improvvisamente, si presenta sotto le dita qualcosa di compatto, ma di strana consistenza, incomprensibile.
Mi sono accorto di aver usato il concetto di novità come se non fosse un concetto e tanto meno il concetto di novità. Nella mia mente si sono presentate due immagini; la prima era formata da uno sfondo grumoso, indefinibile su cui si sono formate le sei lettere: n-o-v-i-t-à. Un serpente nero con al fondo, sulla a, un monumentale e incisivo accento.
La seconda immagine consisteva in una figura fumosa, dai contorni mobili, inafferrabili. È dunque questo, per me, il concetto di novità? Nient’altro che l’ingenua immaginazione di un pittore concettuale?
In effetti, il concetto di novità assoluta non riesco a costruirmelo e a comprenderlo: coincide con il nulla. Potrei mettermi a giocare con il concetto di nulla; ma la filosofia occidentale ci ha già giocato fin troppo; credo che annoierei chi legge e, soprattutto, mi annoierei.
La novità è quindi per me non qualcosa di assolutamente nuovo, che, come ho detto, non so cosa voglia dire; ma un che di impreciso, di inafferrabile, proiettato in avanti. Il concetto di novità porta con sé altre parole come: attesa, speranza ed, anche, spavento. Quindi è assai meglio far scaturire la novità da ciò che è noto. Dobbiamo abbattere le strutture avendone però in mente di nuove che, essendo già in mente, non sono, però, più novità assoluta.
Ma queste nuove strutture di dove sorgono? Non certo dall’assolutamente ignoto, il vecchio non essere parmenideo; ma da quello che noi siamo, vogliamo, o crediamo di volere.
La novità, però, non è soltanto il nuovo, il diverso; è anche l’imprevisto. L’imprevisto è l’aspetto ignoto del diverso; però l’imprevisto e l’ignoto, non appena vengono pronunziati, come parole o come concetti, non sono più quello che dovrebbero essere. L’ignoto ha un volto, anche se impreciso ed inquietante, l’imprevisto si mescola con i nostri progetti e i nostri desideri.
L’uomo come cerca, per lo più, di controllare la novità, senza distruggerla, e nello stesso tempo cercando di evitare il rischio di cadere preda del sempre saputo e della noia?
Andando alla ricerca dei principi primi, o dei primi principi o del principio dei principi.
Se riusciamo a dare un ordine a quella che noi chiamiamo realtà; la novità e l’imprevisto si debbono assoggettare, tutto sommato, a questo ordine, pur mantenendo le loro caratteristiche indefinibili.
Penso che tutte le culture abbiano tentato di interpretare in qualche modo i fatti che accadono. Ho usato il termine «fatto» perché è il più concreto e il meno compromesso. Fatto è un avvenimento storico e fatto è anche un gesto quotidiano.
Sono i fatti che «avvengono» attorno a noi e in noi.
L’occidente ha, da millenni, prodotto un genere di persone chiamate: i filosofi. È, questo, un genere di individui quanto mai difficile da definire.
Il buon senso comune dice: in fondo siamo tutti filosofi. La cultura, però, ha isolato alcune persone della sua storia definendole con questo nome, e, per di più, alcuni di costoro volevano essere tali e altri no!
Nonostante la difficoltà di definire che cosa sia il filosofo, noi abbiamo la filosofia e la storia di questa nostra filosofia. La storia della nostra filosofia è guidata, secondo me, da tre direttrici fondamentali.
Lungo la prima linea di pensiero si situano tutte quelle correnti filosofiche che tentano di portare l’infinita varietà dei fatti ad ordinarsi secondo un unico principio ad essi sottinteso e dei quali è guida. Queste sono concezioni metafisico-spiritualistiche, o materialistiche, che si ritrovano, però, d’accordo nel fissare un principio, esporne il meccanismo, perché anche i principi hanno un meccanismo al loro interno, e porlo, come ho detto, prima e dentro ad ogni cosa. Questo principio è estremamente protettivo e rassicurante.
Ci sono, all’interno di questa concezione, due ulteriori atteggiamenti fondamentali. Il primo vede questo principio come qualcosa di buono, che fa progredire il tutto: uomini, formiche e stelle, verso un futuro sempre migliore, al di qua e al di là della vita. Il secondo, più disincantato e forse un po’ sadico, parla di corsi e ricorsi, di cicli che si richiudono e ricominciano sempre, eternamente immutabili.
Spesso, all’interno di questi sistemi, alcune concezioni hanno sentito l’esigenza di scindere il principio guida in due momenti antitetici in conflitto che, però, attraverso e per mezzo di questa loro tensione, guidano e determinano il divenire del tutto. Il meccanismo originario rimane uno e comprende e risolve in sé i due opposti. I principi in conflitto trovano il loro significato nel conflitto stesso, che li controlla e li domina.
Lungo la seconda linea di pensiero si collocano tutte quelle filosofie che vedono i fatti dominati da più principi, che possono essere o non essere in conflitto tra loro. Il principio unificatore di tutto è la facoltà interpretativa della ragione. La ragione unifica perché comprende le concatenazioni causali e comprende anche se stessa. Anche quando queste concezioni ipotizzano un Dio, esso non è tanto il garante della salvezza e dell’ordine universale, quanto la facoltà unificatrice della comprensione razionale. La ragione, comprendendo ed interpretando, unifica, distingue tutti gli esseri in generi e specie; ne esprime le caratteristiche, ne esprime i significati esistenziali e scientifici. La ragione riunisce ciò che è simile e distingue ciò che è diverso. La ragione, divenuta meno ingenua, ha prodotto e fondato essa stessa i propri concetti e il concetto di concetto. All’interno di questa corrente, alcuni pensatori, con una struttura psichica particolarmente paranoide, o depressiva, hanno sentito vano lo sforzo unificatore della ragione, anche quando fondava se stessa, e, usando la ragione, hanno fondato lo scetticismo della ragione.
Le teorizzazioni di cui ho parlato prima sono il frutto del pensiero di menti acculturate e, quindi, sono espressioni della cultura di una classe precisa: la classe dominante.
Una cultura si esprime per mezzo di un linguaggio comprensibile, soprattutto, a coloro che la producono. Anche i temi trattati sono congeniali alla classe che li esprime; perciò la visione del mondo che ne deriva è interpretabile con parametri specifici coerenti con il sistema di valori e di significati espressi da quella cultura.
I libri parlano di «tutto»; ma non sono per «tutti». I libri buttano uno sguardo sul mondo, su tutto il mondo, tentano di comprenderlo, di sistemarlo, di chiarirlo; tentano di chiarire i problemi di tutti: dei re e dei servi, dei ricchi e dei poveri; però, fino ad ora, lo hanno fatto dal punto di vista dei re e dei ricchi. Anche quando parlano contro i re e contro i ricchi i libri lo fanno usando il linguaggio, gli strumenti e la cultura di costoro.
Io credo che sia fondamentale l’appropriazione, da parte di tutti, di questi strumenti e di questa cultura, non credo nell’utilità della loro distruzione che significherebbe la definitiva castrazione; ma credo nell’importanza dell’espropriazione di un monopolio. E se l’espropriazione passa anche attraverso strumenti compromessi dal potere dei re e dei ricchi, chi se ne frega? Spero che avremo abbastanza saponette profumate e detergenti biodegradabili per lavarci con cura le mani sporche.
La cultura dominante, sebbene propria di una classe, è riuscita a dare ugualmente una visione del mondo organica e coerente, riuscendo anche a sistemare con sufficiente assennatezza i problemi e i significati connessi a quella parte di umanità che a questa cultura è abbastanza estranea. La realtà, però, non è qualcosa che è dato e basta, di oggettivo; la realtà è costruita anche dalla interpretazione che se ne dà. Per cui la cultura, nel suo costruirsi, costruisce anche, almeno in parte, la realtà che tenta di chiarire. Non mi sembra del tutto delirante dire che l’interpretazione della realtà, data, nella nostra società, dalla cultura con la C maiuscola, è un’interpretazione necessariamente parziale.
La nostra è, però, soprattutto, una cultura intelligente, fatta da persone intelligenti, perciò la sua frammentarietà e la sua parzialità sono ben camuffate, tanto che, qualche volta, anch’io, frutto ed espressione di questa cultura, ho l’impressione di muovermi dentro alla cultura; cioè dentro all’unica forma possibile di ricerca del significato di ciò che mi trovo addosso ed intorno.
Penso che questa sensazione derivi, in buona parte, da miopia narcisistica, da pigrizia mentale e dalla paura della destrutturazione derivante dal timore di perdere i miei privilegi; penso, però, che derivi anche dal fatto che la cultura dominante non è così stupida da guardarsi solo allo specchio o da guardare il mondo solo attraverso il suo specchio; vuole anche appropriarsi di ciò che non è suo, di ciò che non deriva da lei; ma di cui ha bisogno per poter sopravvivere.
La cultura della classe dominante ha bisogno di condizionare la cultura popolare e subalterna, per poter controllare la società in generale; tanto che proprio ora che intendevo affrontare la cosiddetta cultura popolare, non ufficiale, subalterna, mi sono trovato di fronte una cultura profondamente compromessa con la cultura al potere.
È abbastanza comprensibile che millenni di violenze e di stupri abbiano fatto partorire alla cultura del popolo figlioletti straordinariamente somiglianti a Lorenzo il Magnifico.
La vergine cultura popolare non esiste più, forse non è mai esistita.
Fin dall’inizio, quando due persone hanno guardato il mondo e cercato di capirlo e di farsene una ragione, il più forte e il più «intelligente» ha cominciato a dire e a fare cose bellissime, l’altro, più debole e più stupido (?) ha cominciato a guardarlo a bocca aperta, a servirlo, e, nello stesso tempo, a sentirsi venir su, di dentro, una gran voglia di ribellarsi, di dare una ginocchiata nei coglioni o nella fica a quel tale o a quella tale che vivevano del suo lavoro, torcevano il naso per la sua puzza e che dicevano, parlando tra loro, cose bellissime. Gli è venuta voglia di… ed ha parlato di ribellione. Però gli è anche venuta voglia di… ed ha tentato di imitare quei due; ma è venuto un altro a dirgli che non doveva né ribellarsi né imitare, che Dio non voleva. Allora ha avuto paura ed ha incominciato a raccontarsi storie, così, per passare il tempo. Storie in cui tutto era confuso, in cui, sotto, sotto, c’era solo la voglia di star bene, di godere anche lui, con lo stomaco e con il sesso, di avere anch’egli il suo piccolo dominio.
Io ho studiato a lungo la poesia e la musica popolari italiane, ed ho trovato moduli musicali interessanti, antichissimi, misteriosi, mescolati a melodie ed armonie delle musiche del padrone. La stragrande maggioranza dei versi delle canzoni popolari esprimeva una piena accettazione del sistema di valori espressi dai padroni. Con mio estremo stupore, ho trovato l’arte popolare assai poco rivoluzionaria.
Gli oppressi non hanno mai desiderato altro che poter sognare di essere padroni e su tutto è prevalsa sempre una malinconica stanchezza, un invito a rinunciare alla lotta. Se il mondo è sempre stato così, è inutile sperare di cambiario. I proverbi esprimono non tanto la saggezza dei popoli quanto la loro rassegnazione.
La società contadina e proletaria, da alcuni secoli, almeno, non è una società che desidera la giustizia ed il rispetto; i deboli vi sono schiacciati e i diversi derisi con brutalità e violenza. Basta, per capirlo, ascoltare le antiche canzoni venete, le lunghe storie piemontesi e i lirici canti della Sicilia. I padroni non soltanto hanno saputo costringere i servi e servire, ma li hanno costretti a produrre anche una sottocultura in cui sopraffazione, violenza ed egoismo sono i temi presenti e dominanti.
Di giustizia e di libertà, per fortuna, qualche volta si parla, come, per fortuna, lungo i secoli, gli oppressi hanno preso la falce e i bastoni e li hanno usati come armi contro i castelli dei padroni; ma la loro cultura, dopo qualche decina di esecuzioni sui patiboli e sulle forche, ha ricominciato a sognare e a fantasticare; è rinato il desiderio di essere a loro volta padroni. Poi i parroci hanno ricominciato a predicare e le buone signore a portare ciambelle ai figli dei poveri e piano, piano sono rinati anche i canti della rassegnazione e si sono prodotti sempre meno inni di rivolta. Un’antica strofetta delle campagne piemontesi ai piedi della Val d’Aosta, facendo il verso al suono delle campane, dice così: «Chi n’a nèn, chi n’a poc, chi n’a tan, tan, tan ». (C’è chi ha niente, chi ha poco e chi ha tanto, tanto, tanto). Una constatazione di una realtà sociale, ironica e disincantata: lo dicono anche le campane che non c’è niente da fare.
In questi versi è nascosto tutto il significato della cultura popolare; l’ironia deriva dalla voglia di ridere a tutti i costi, anche delle proprie disgrazie. C’è anche la consapevolezza che è da quel campanile che arriva l’esortazione ad accettare, con umiltà e rassegnazione, quello che è; però c’è anche la consapevolezza di quello che è; e la consapevolezza è il primo, indispensabile passo per riuscire a cambiare qualche cosa.
Io credo, però, che siano stati scritti più canti di protesta in questi ultimi dieci anni, da parte dei cantautori e dei mass media rivoluzionari, di quanti ne siano stati scritti e prodotti in millenni di storia passata.
I cantautori rivoluzionari della nostra epoca non sono, per lo più, proletari. Io scrissi canti di questo genere, alcuni anni or sono, in occasione di grossi scioperi alla FIAT di Torino. Ero allora un musicista e un universitario ribelle, col senso di colpa per essere nato borghese.
Quelle canzoni non le ricordo più, furono cantate per un giorno o due, su di un camion e sparse nell’aria con un altoparlante, insieme a quelle di altri, più belle e più brutte.
Tutto è così lontano. Erano canzoni sincere anche.
Penso che molti canti di protesta, prodotti in passato direttamente dal popolo e dai veri sfruttati, non sono giunti fino a noi, soprattutto, perché a raccoglierli e a tramandarli sono stati, per forza di cose, gli studiosi borghesi, i quali, comprensibilmente, hanno dato più spazio ad argomenti meno compromettenti e compromessi come: l’amore, la religione, persino il sesso, perché, si sa, il popolo è sempre un po’ volgare. Voglio anche aggiungere però, in base alla mia personale esperienza di ricercatore nelle campagne e nelle osterie di città, che il discorso di protesta non è stato così presente alla cultura popolare quanto si potrebbe credere. È però vero anche che la cultura popolare ha potuto raramente, nel passato, esprimersi attraverso la parola o il gesto esplicito, la rappresentazione. La cultura delle classi dominanti si è espressa, da sempre, per mezzo dei libri; i libri la racchiudono e la custodiscono. Attraverso i libri anche le forme di cultura che non si esprimono sulla pagina scritta vengono analizzate e meditate, la pagina è la parola congelata. In fondo, si potrebbe dire che il pensiero è stato il primo prodotto dell’uomo ad essere inscatolato per poter essere sempre pronto per l’uso. Non voglio dire con ciò che il libro sia un male, nemmeno che sia un male necessario. Penso che il libro possa essere usato male, questo sì; ma ritengo che sia, per il momento, uno degli oggetti più utili della nostra vita, ed anche uno dei più rivoluzionari.

La cultura popolare è da moltissimi secoli una cultura teatrale; questo teatro ha trovato una delle sue espressioni più concrete nella religione. Sacrificando il «tragos» a Dioniso il sacerdote narrava e mimava una storia. Il popolo ha sentito il rito come una propria espressione culturale. Al rito si è sentito partecipe ed ha sentito di potervi portare un contributo proprio ed originale. La teorizzazione della religione è estranea alla cultura popolare. Le teologie e le dissertazioni dottrinarie sono proprie della cultura delle classi dominanti. Il popolo invece, come ho detto, partecipa al rito; alla sua formazione. Non certo spontaneamente; non sono suoi i desideri ed i pensieri immediatamente espressi nel rituale.
I templi, i paramenti, le musiche sono manipolate e, per lo più, prodotte dal potere; un potere, però, disponibile ad ascoltare il sogno del popolo ed i suoi desideri. La ricca complessità dei riti è frutto della secolare sedimentazione di leggende, ricordi, bisogni, consapevoli e non, provenienti da una realtà sociale presa nel suo insieme. Frammenti di rituali di altre religioni si mescolano a quelli delle religioni dominanti, gesti che si perdono in lontananze indecifrabili, si intrecciano con gesti che esprimono esigenze del presente; il tutto nel tentativo di raccontare.
La cultura borghese al suo sorgere ha tentato di costruirsi una religione senza riti; le evoluzioni del luteranesimo, e particolarmente le correnti calviniste, hanno tentato di negare il rito, trasformandolo in meditazione lirica collettiva. Il gesto è stato castrato, la parola e il suono sono diventati preponderanti; della rappresentazione non rimane che l’involucro.
Resta comunque centrale l’ascoltare in comune il racconto della vita di un personaggio vissuto tanti secoli prima; questa, almeno alle sue origini, è una religione espressa da alcuni padroni che si oppongono ad altri padroni. Anche il rito cattolico ed ebraico sono frutto della volontà dei dominatori; ma i desideri del popolo, almeno nella forma, li condizionano maggiormente: mi preme, però, ribadire l’affermazione che in tutte le espressioni culturali del popolo è primaria l’istanza teatrale; s’intende che mi riferisco soltanto alla nostra area socio-culturale, di cui non voglio definire i confini geografici; ma che spero sia ugualmente abbastanza localizzabile.
Anche l’espressione laica del popolo, quando si manifesta fuori delle chiese, è essenzialmente teatro e rappresentazione. Gli istrioni e i cantastorie raccontano e mimano fatti e avventure. Certo, esistono anche momenti di espressione lirica e sentimentale del desiderio; ma sorgono come commento espressivo a fatti che sono stati narrati o che vengono presupposti, per cui si può onestamente dire che l’aspetto fondamentale del pensiero espresso dal popolo si è espresso, nella nostra cultura, attraverso la rappresentazione. Nel rito, la partecipazione del gruppo è attiva, alle origini, e diviene man mano più passiva nelle rappresentazioni di tipo teatrale o parateatrale più vicine alla nostra epoca; fino all’estrema passivizzazione dello «spettatore» delle rappresentazioni cinematografiche e televisive. Qui lo spettatore (che non per nulla si chiama così) ha soprattutto il ruolo di entità pagante, che può, tutt’al più esprimere un parere, magari con lettere ai giornali. Nello spettacolo cinematografico e televisivo è del tutto abolita la presenza fisica di persone che parlano e si muovono in contatto emozionale diretto con altre persone che, messe di fronte, assistono, presenti con la loro carne, i loro odori, gli applausi e tante altre forme di partecipazione. Anche un cataclisma, o una rivoluzione piena di violenza e di morti reali, ripresa in diretta su di un teleschermo, diviene, soprattutto, spettacolo, teatro. In effetti, le indagini in diretta del telegiornale, trasmesse dopo un breve «parapperu» di archi e fiati, scivolano e si confondono, nella penombra dei tinelli, con le prime scene dell’incontro di Elisabetta I che recita, litigando, con l’arcivescovo di Westminster.
Ancora una volta, il potere ha preso in mano la situazione: spettacoli televisivi, cinematografici e partite di calcio non sono certo espressioni agite ed ideate dal popolo; anzi, questa parola: «popolo», sta diventando sempre più ridicola ed ha, forse, ancora un suo reale significato, solo quando viene pronunciata da Maria Antonietta in un drammone televisivo sulla rivoluzione francese.
Eppure, gli sfruttati esistono ancora: lasciamo in sospeso, per ora, questo problema.
La cultura dominante ha sempre avuto molta cura di distinguere l’arte dalla filosofia ritenendo la prima, di volta in volta, dominatrice e dominata dalle emozioni e la seconda espressione della ragione. Distinzione quanto mai balzana, che può essere vanificata osservando con un minimo di attenzione quei fenomeni che vengono chiamati arte e filosofia.
La cultura cosiddetta popolare non ha operato questa distinzione; alcuni dicono per sua inferiorità costitutiva, affermando che, essendo il popolo dominato dalle passioni e dall’immediatezza, non può e non sa riflettere in modo sistematico e astratto.
Quest’ultima affermazione è, secondo me, assai goffa e semplicistica. Non si tratta tanto di inferiorità costitutiva, quanto di impossibilità pratica di usare alcune forme di comunicazione. Io, inoltre, affermo che non esiste e non è mai esistita una cultura popolare autonoma. Come sono stati strumentalizzati e manipolati dal potere i singoli individui, così sono state strumentalizzate dal potere le forme di cultura.