Psicoanalisi contro n. 1 – Nel velluto un’armonia in silenzio

maggio , 1979

« Si immagini tutta questa severa al­legria, sormontata dall’aurea son­tuosa architettura dell’arpa a pedali di Erard, e si comprenderà la ma­gica attrazione che il negozio dello zio, quel paradiso di armonie silenti ma preannunciate in cento forme, esercitava su noi ragazzi… » (T. Mann, « Doctor Faustus »).

Il fascino degli strumenti musicali è infinito: superfici di legno liscio e lucido, spessori compatti di legno caldo; metalli freddi o teneri come la carne, ance, pistoni, tasti, riccio­li, velluto, fessure che aprono pro­fondità misteriose, e poi, odore di musica.

Lo stumento musicale è un corpo. Si è venuto costruendo a contatto con il corpo umano. Secoli di amore e di ricerca hanno partorito il vio­lino e il clarinetto.

Un’ingenua favoletta ci racconta che la musica è nata dall’imitazione del canto degli uccelli. Io dico che la musica ‘è prima e dopo; solo per ac­cidente essa è suono: La musica è prima di tutto silenzio, la musica si esprime col tatto.

La via del suono l’ha imparata dopo.

La musica vive nel corpo che vive. Il corpo che vive si muove: un fluire, un pulsare di organi, un contrarsi di fibre. Un corpo che vive e che muove è anche: il respiro, la gamba che fa il passo, la mano che acca­rezza.

Tutto questo si distende in momenti successivi. Prima ho detto che la musica è prima di tutto silenzio; però avrei potuto dire che la musi­ca è soltanto tensione e distensione; ma è una distensione che si costrui­sce attraverso tante piccole tensio­ni; ed è una tensione che si scioglie in una miriade di morbide disten­sioni.

La musica è il gesto più vicino al sogno; meglio: è prima del sogno. La musica si esprime attraverso la considerazione. La melodia, anche quando è omofona, ha dietro di sé, presupposta, una complicata polifo­nia. Gli armonici di un suono non sono soltanto il suo chiaroscuro, sono altri suoni che si condensano. Poi, ancora, armonie che sfumano, appena intuite, silenziose; talvolta precise come un sillogismo, talaltra arbitrarie e impreviste.

Non esistono quindi melodie da in­tendersi come una pura successione nel tempo di suoni, la musica è pri­ma del suono; è una condensazione di istanti vitali che, nel contrarsi e nel distendersi, roteano attorno e dentro al suono.

La musica è sotto la pelle, la musica è anche la pelle. Quando le mani palpano uno strumento musicale questo deve diventare una parte del corpo. Questa è la magia dello stru­mento musicale: quando sonnecchia nel suo astuccio di velluto è un cor­po intatto ed intero, autonomo. Quan­do incontra un corpo umano, perde la sua autonomia, deve diventare il prolungamento di questo: caldo, su­dato, insalivato; odore di legno, di metallo, di panno.

Qualche volta lo strumento è appa­rentemente più dentro al corpo stes­so, quando la musica trova, cioè, la strada della voce umana. Ma non cambia niente: strumento di metal­lo, di legno, oppure tessuto organico la musica è prima, è già nell’impos­sibile silenzio.

Perché ho detto: impossibile si­lenzio? Perché quando penso alla musica la mia mente si riempie di suoni silenziosi: note che sono im­magini, e che sono anche altro, si intrecciano e si sciolgono. È così forte quel suono che sento dentro di me!

E poi la musica si annida nei polpa­strelli delle mie dita, quando dise­gno ritmi sul ricciolo massiccio di legno del bracciolo della mia sedia. La musica è sempre un gesto osses­sivo, tutti i gesti sono sempre un po’ ossessivi, quindi tutti i gesti sono anche musica.

Il mio corpo nudo che tocca un al­tro corpo nudo si esprime in gesti che non sono mai del tutto sponta­nei: quel corpo e questo corpo, cer­candosi, si esprimono in gesti desi­derati ed imparati in precedenza, cui si aggiungono gesti che sono im­parati in quello stesso momento, ma che diventano, immediatamente, rito.

Anche la spontaneità si esprime at­traverso la coazione di piccoli gesti, inconsapevoli, ma consueti. 2. impos­sibile uscire dal gesto ossessivo, coatto. Come ho detto prima: ten­sione e distensione, ritmo e attesa, piacere che cerca il suo desiderio, questa è, per me, l’essenza della mu­sica.

Ci sono persone che suonano; ma, anche se usano la loro voce, lo stru­mento rimane staccato, separato da loro. La musica, in questo caso, tro­va suoni rigidi ed inerti; tanti pezzi di legno, senza vita, che costruisco­no una rigida gabbia. Quando suc­cede che la musica sia una cosa ed il corpo un’altra cosa, è estrema­mente pericoloso e dannoso stare a sentire. dannoso anche suonare in questo modo. Mi basta senti­re un corpo manifestarsi anche a- traverso quattro note per capire Se quella è musica « buona ». Ho usato questa espressione « buona », perché non volevo ricorrere ad espressioni più ricercate; tutti san­no, credo, cosa vuol dire « buona ». Quando la mia mano affonda nei ta­sti, in un modo che non so descri­vere, quella volta, allora, capisco che sto suonando davvero, allora anch’io mi accorgo di esprimermi con una musica « buona ».

Il discorso è lo stesso, né più né meno, se la musica nasce da un ge­sto, con o senza la bacchetta: si in­contrano più corpi; ma è impor­tante che non vi sia separazione. Ho trovato un pensiero di Stock­hausen, che, secondo me, è reaziona­rio, oltre che stupido: « … La nostra musica è divenuta musica di discor­so… Essa è determinata dai muscoli: quelli della laringe per il canto, quelli delle dita per gli strumenti a ta­stiera, quelli della respirazione per gli strumenti a fiato: tutto era de­terminato dal corpo dell’uomo ed è per questo che non si è mai suonato su ritmi più rapidi o più lenti di quelli dei movimenti naturali del corpo… ritmo di marcia, ritmo di polsi, ritmo di cuore, tutti questi ritmi meccanici che sono anche quel­li del nostro corpo e che rimangono al nostro corpo e non a qualcosa di libero, qualcosa che voli, qualcosa che mi lasci provare tra le battute il mio ritmo personale, che mi la­sci il tempo, qualcosa che cambia, che non è statico, che ha una facol­tà di variazione che non trovo nella vita meccanica di tutti i giorni » (Cfr. Guillot, Jost, Lecourt, « La musico- terapia », Guaraldi ed.).

Dove è il mio ritmo personale, al di fuori di questo mio corpo? Forse in un improbabile spirito, che cerca una libertà ridicola, perché soltanto detta.

Anche i musicisti cadono, a volte, nell’ingenuo qualunquismo proprio a molti artisti ed hanno paura del corpo e del quotidiano. Certo, sono pienamente d’accordo nel rifiutare al ritmo di questo corpo, qui ed ora, l’attributo di « buon ritmo natura­le ». Ritmo, suono ed espressione debbono dilatarsi e restringersi con­tinuamente. Non credo che sia giu­sto e naturale ciò che adesso trova e sente questo mio corpo. 2, però, in questo mio corpo che voglio tro­vare la radice del desiderio, del­l’espressione e della musica.

E’ estremamente gradevole ed è ses­sualmente eccitante, quando si ascol­ta una chitarra, sentire il frusciare delle corde sotto le dita di chi la suona; o sentire il respiro del flau­tista; ed è bello capire che non pos­sono andare più in là, anche perché hanno questo corpo. C’è chi parla dell’infinita libertà dello spirito; io preferisco parlare dell’indefinibile tenerezza e possibilità del corpo. Lo spirito è la mia voglia di comuni­care. Non esistono limiti positivi, ma sentire, come limite il mio corpo non è un limite.