Archivio di novembre 1978

Psicoanalisi contro n. 1 – La psicosi e la psicoanalisi

giovedì, 2 novembre 1978

Psicoanalisi Contro ha deciso di intervenire all’interno dell’istituzione manicomiale per una serie di ragioni. Alcune sono chiare, politicamente giustificabili e sufficienti, altre sono ambigue, oscure e contraddittorie.
Le motivazioni più scomode da dichiarare sono quelle che derivano dal nostro delirio di onnipotenza e dal nostro bisogno di affermare che, tutto sommato, non siamo «matti»; tanto è vero che ci permettiamo persino il lusso di entrare in un manicomio, dal di fuori, con le nostre gambe, spontaneamente, non trascinati là dall’ululato di una sirena dopo una chiamata al 113, e, per di più, siamo anche quelli che, tutto sommato, stanno dalla parte dei terapeuti.
Il nostro delirio di onnipotenza si è espresso proprio nel buttarci con incoscienza ed entusiasmo dentro e contro una mastodontica struttura come il S. Maria della Pietà: manicomio provinciale, che si regge su di un giro di miliardi, guidato da baroni astuti e scaltri, da psichiatri potenti, da suore ed infermieri potentissimi; brulicante di operatori più o meno volontari e politicizzati ed infestato da benefattori e benefattrici alla ricerca della folcloristica commozione sul matto.
Sotto tutto questo interessi politici molto grossi e spesso incomprensibili.
Nonostante ciò, appunto, Psicoanalisi Contro ha l’ardire di confrontarsi con questo bestione semiparalitico e apparentemente immortale.
Il problema delle istituzioni totalizzanti non si è presentato soltanto quando abbiamo avuto la possibilità di «infiltrarci» nel S. Maria della Pietà: avevamo già discussò a lungo questo problema, elaborando analisi politiche spesso anche pertinenti. Molti di noi, inoltre, per ragioni di studio o di lavoro, si erano già trovati a frequentare l’istituzione manicomiale; ma fino ad allora il problema era stato soprattutto personale e dopo tutto le responsabilità più grosse venivano delegate agli altri. L’ospedale veniva vissuto come un’entità quasi astratta, con i contorni poco definiti ed ognuno di noi incontrava persone diverse e si trovava ad affrontare problemi personali che cercava di risolvere come meglio poteva, gestendo anche la propria angoscia.
Il problema teorico delle psicosi ci ha perciò interessato fin dall’inizio del nostro lavoro e si è immediatamente saldato con il problema politico dell’istituzione. Per questo abbiamo accettato di «operare» dentro, pur senza saper bene che cosa fare; avendo soltanto il preciso intento di rimanere coerenti con alcuni atteggiamenti ideologici che avevamo accettato già prima e fuori del manicomio.

A questo punto il problema teorico e il problema politico si ricongiungono. La psicosi nell’istituzione è, di fatto, un’altra cosa che la psicosi all’esterno.
La psicoanalisi tradizionale, che già vacilla nell’affrontare il rapporto con lo psicotico nell’ovattato studio di uno psicoanalista, si trova assolutamente disorientata e spaurita di fronte alle aggressioni farmacologiche degli psichiatri, all’esistenza paradossale dei ricoverati, all’irritazione e alla frustrazione che questi inducono in chi si avvicina a loro.
Ancora adesso ci chiediamo se non sia meglio teorizzare sulla psicosi astrattamente, cercando di chiarirne il significato, e contemporaneamente agire anche prima di aver risolto tutti i nostri dubbi teorici; agire quindi anche senza sapere prima tutto il come e il perché. E ovvio che a questo punto ci siamo trovati di fronte alla nostra ansia di destrutturazione.
Di fatto, questo nostro discorso è quanto mai problematico, ambiguo, contraddittorio. Non solo, nei confronti della psicosi nell’ospedale psichiatrico non abbiamo le soluzioni in tasca, ma non abbiamo neppure le tasche. Eppure noi ci ostiniamo tentando di dare un significato alle ore passate in manicomio in compagnia di quelli che vengono chiamati i «matti».
La psicoanalisi freudiana ha assunto fin dalle sue prime formulazioni un atteggiamento rinunciatario nei confronti delle così dette psicosi; probabilmente ciò deriva anche dal fatto che Sigmund Freud abbia operato soprattutto al di fuori degli ospedali psichiatrici e con persone che, tutto sommato, accettavano liberamente di sottoporsi al suo intervento, costrettevi soprattutto dal loro personale stato di disagio psichico. Non è casuale che l’unica forma psicotica che Freud ha esposto con esauriente ampiezza sia quella del Presidente Schreber, personaggio che Freud conobbe soltanto attraverso le sue memorie, quindi senza alcun contatto diretto.
A parte queste considerazioni sulla biografia freudiana e sulle sue personali resistenze ad affrontare la psicosi, la psicoanalisi ha giustificato teoricamente e con argomentazioni non del tutto deliranti il suo rifiuto di intervenire in proposito.
Le argomentazioni che giustificano questo rifiuto ad agire possono essere sintetizzate in due punti: il primo riguarda la situazione attuale dello psicotico, il secondo la genesi delle psicosi.

Lo psicotico perde buona parte del contatto con la realtà per un massiccio disinvestimento libidico oggettuale, che rende praticamente impossibile l’instaurarsi del «transfert» e, quindi, rende impossibile il lavoro analitico; lavoro basato soprattutto su di un processo di presa di coscienza da parte di qualcuno che, in fondo, percepisce la realtà in modo sufficientemente simile a quello del terapeuta, rendendo così possibile la lotta contro i fantasmi che nel terapeuta si incarnano via, via, evidenziandoli e riconoscendoli per poi riuscire a vincerli. Lo psicotico, invece, chiuso nel suo delirio, disinteressato al mondo esterno, mette in atto una lotta silenziosa contro i suoi fantasmi che rimangono solo suoi e che egli si rifiuta di comunicare. Perciò Kohut può dire: «La stima dell’influenza esercitata dalla personalità del terapeuta acquista un’importanza particolare nella valutazione dei risultati terapeutici della psicoterapia delle psicosi e dei cosiddetti stati «limite» (Stern, 1938). Non si può dubitare dell’apporto fornito a certi straordinari successi terapeutici, ottenuti con adulti o bambini profondamente disturbati, dal fervore quasi religioso del terapeuta o dal suo sentimento profondo di santità spirituale (vedi ad esempio, Schwing, 1940, p. 16). L’influenza esercitata può emanare direttamente dal terapeuta carismatico, o può essere trasmessa attraverso la mediazione del gruppo terapeutico di cui egli è il leader (…). In ultima analisi si tratta in questi casi di una cura attraverso l’amore — anche se è un amore profondamente narcisistico! — che si avvicina all’atteggiamento combattuto da Freud quando dovette confrontarsi con gli ultimi esperimenti terapeutici di Ferenczi (…). Certamente nessuno dovrebbe criticare dei successi terapeutici, ottenuti con disturbi pressoché intrattabili, per il fatto che sono stati realizzati grazie all’influenza diretta o indiretta della personalità del terapeuta. Quello che è discutibile invece sono le razionalizzazioni secondarie che tentano di dare rispettabilità scientifica ai procedimenti adoperati. Il problema di sapere se una forma di terapia sia sostanzialmente scientifica, o se dipenda dall’ispirazione del terapeuta (…) dev’essere risolto rispondendo ai seguenti quesiti:
1) Esiste una comprensione teorica sistematica dei processi implicati nella terapia? 2) Il metodo del trattamento può essere comunicato ad altri, può cioè essere imparato (e in ultima analisi messo in pratica) senza la presenza del suo creatore? 3) Il punto più importante: Il metodo del trattamento rimane efficace dopo la morte del suo creatore? E’ specialmente quest’ultimo evento che purtroppo sembra rivelare troppo spesso che la metodologia terapeutica non era scientifica, e che il successo dipendeva dalla presenza concreta di un singolo individuo particolarmente dotato» (H. Kohut, Narcisismo e analisi del sé, Boringhieri, Torino, 1976)

A proposito della genesi delle psicosi la psicoanalisi afferma che essa si radica nelle epoche preedipiche. L’Edipo ha per Freud una capacità unificante della personalità ed ha inoltre la proprietà di porre saldamente in contatto l’Io del bambino con l’Io degli altri; cioè gli permette di impossessarsi della realtà.
Lo psicotico è colui che, disturbato nei suoi primissimi anni di vita, è riuscito a raggiungere una soltanto apparente e frammentaria unità dell’Io ed ha un labile contatto con il mondo esterno. È una persona che non è mai diventata «persona», ma è rimasta un cumulo di pulsioni parziali senza un preciso orientamento unificatore.
Oggi la psicoanalisi (anche la più «ortodossa») non è più così drastica nei confronti delle psicosi, infatti, sia pur con molte diffidenze e cautele, molti psicoanalisti affrontano terapeuticamente il problema. Così dice la Zetzel (Psichiatria Psicoanalitica, 1973): «Man mano che continuavano le indagini di Freud, egli gradualmente estrapolava gli stadi ormai a lui famigliari del primo sviluppo sessuale. Le scoperte relative al contenuto, cioè di materiale indicativo di diversi livelli di sviluppo pulsionale, furono messe in relazione da lui e da altri pionieri della psicoanalisi con diversi tipi di disturbi psicologici. Sono stati fatti quindi parecchi tentativi di classificare la malattia mentale nei termini della teoria psicoanalitica delle pulsioni. Nell’insieme questi sforzi non sono stati del tutto soddisfacenti».
E prosegue: «Se si riflette un poco non è difficile capirne il perché. Man mano che i diversi livelli di sviluppo pulsionale vengono sperimentati da tutti gli individui che stanno maturando, non è sorprendente che i sintomi o i tratti di carattere che riflettono i diversi livelli di tale sviluppo possano essere riscontrati in una ampia varietà di situazioni cliniche. Le scoperte della psicoanalisi inoltre sono state ottenute principalmente attraverso l’uso della tecnica psicoanalitica. Con il passare del tempo è diventato sempre più chiaro che questa tecnica non può essere usata senza significative modificazioni nel trattamento di gravi disturbi del carattere, di casi limite e di malattie psicotiche. La conoscenza psicoanalitica delle nevrosi, compresi in esse i meno gravi disturbi nevrotici del carattere, è molto più ampia della conoscenza avuta fino a oggi sulla genesi e sulla natura di disturbi più gravi. Inoltre le aumentate conoscenze derivate da osservazioni sia analitiche sia obbiettive indica l’estrema importanza del periodo preverbale per la futura salute mentale. Siamo così giunti a riconoscere che i pazienti su cui ci piacerebbe sapere di più sono coloro che di regola sono capaci di dirci di meno. Può darsi che dobbiamo accettare una situazione paradossale. È la psicoanalisi che ci ha aiutato a diventare consci dell’estrema importanza dei primi mesi e anni di vita. Ma è proprio in questo periodo che può darsi che la psicoanalisi debba accettare le limitazioni del proprio metodo d’indagine, e cioè la tecnica psicoanalitica, e rivolgersi ad altri metodi d’indagine per trovare risposte migliori».
La psicoanalisi ortodossa quindi ritiene di non avere strumenti adeguati per affrontare le psicosi. In realtà si è fatto notare da più parti come i primi casi di isteria affrontati da Freud non fossero così lontani dalla psicosi e si possano considerare come situazioni pre-psicotiche o casi limite. Il problema della psicosi è sempre presente nel pensiero freudiano. In ogni caso, Freud ritiene che la psicoanalisi serva, operativamente, assai bene per comprendere la genesi e il significato della psicosi, sebbene non abbia poi gli strumenti adeguati per affrontarla.

L’analisi del presidente Schreber, da molti (anche ortodossi) criticata, è sì l’analisi della genesi di un disturbo ed è piena di osservazioni interessanti sulla ricchezza della fantasia umana; però, di fatto, vuole essere una terapia impossibile. In fondo, Schreber è un foglio di carta, o meglio: è un sogno di Freud! Freud stesso ha compreso, del resto, e questo è un assunto teorico, non soltanto una concessione, come le manifestazioni nevrotiche e quelle psicotiche non abbiano una differenza sostanziale: le seconde non sorgono da una corruzione morale e genetica, così come le prime non sono comportamenti così diversi dai comportamenti e dai disturbi più consueti della vita quotidiana. Per questo gli esseri umani non si possono distinguere in: normali, nevrotici e psicotici. Il discorso è, per Freud, se mai, un discorso quantitativo.
Queste osservazioni possono sembrare ovvie, anzi, logore. Tutti ormai dicono che la pazzia è in ognuno di noi, che non c’è differenza tra il sano ed il matto e così via. Queste affermazioni sono pericolose in bocca a coloro che le usano per disfarsi del problema del disagio mentale con un’allegra superficialità che non serve a nessuno; esse hanno però un significato fondamentale per chi voglia affrontare questo problema operando in campo psicologico e psichiatrico, cercando di capire qualche cosa delle situazioni esistenziali altrui e delle dinamiche inconsce e non. Ci si accorge allora di come i parametri interpretativi imparati sui libri si frantumino al contatto con la realtà delle persone.
E’ vero che ci sono individui che rifiutano il contatto e il dialogo, che alcuni di essi sono immersi in un delirio persecutorio, altri chiusi nelle loro difese narcisistiche, altri fissati in meccanismi rituali ossessivi, altri sono terapeuti che fanno dell’interpretazione la più brutale arma per allontanare il contatto col paziente e con tutti. Noi non vogliamo negare l’esistenza di situazioni di destrutturazione massiccia in cui è difficile intervenire a causa del disorientamento del paziente e del terapeuta; però vogliamo affermare che le diagnosi sono uno strumento più dannoso che utile perché imprigionano paziente e terapeuta entro schemi in cui è difficile muoversi con scioltezza.
Certamente esistono delle costanti di comportamento che si possono, per convenienza operativa, classificare; ma il tutto è estremamente precario, fluido e ambiguo.

I trattati di psichiatria affermano che l’oligofrenico deriva la sua insufficienza mentale anche da una insufficiente mielinizzazione del sistema nervoso centrale, però, quando si osserva la storia di una di queste persone si trovano spesso situazioni di emarginazione, di brutalità subite, di abbandono assai precoce e così via. Allora ci si chiede quale sia l’importanza reale dei lipidi, delle proteine, delle neurocheratine. «Lesione del nevrasse» va bene, ma quante altre lesioni? Oppure non vogliamo considerare psicotico l’oligofrenico, ma solo uno stupido? E diciamo che psicotica è quella signora che crede le abbiano infilato degli elettrodi nel cervello per captare i suoi pensieri. Anche questa però è una risposta ad una situazione. E non sempre lo psicotico è la vittima, talvolta è il carnefice che usa il suo delirio per schiacciare, opprimere, castrare. Comunque bisogna sempre analizzare una situazione, un’esistenza, una realtà sociale. In tutto questo le dinamiche inconsce danno la tonalità, l’armonizzazione di base. Per la formazione della personalità, quindi anche della personalità psicotica, ha un ruolo importantissimo, secondo la psicoanalisi, il tirannico complesso di Edipo. Abbiamo detto tirannico perché è un polo accentratore, un punto focale attorno al quale e nel quale confluiscono, si risolvono e si dissolvono, buona parte delle dinamiche che nella storia della persona contribuiscono a darle una unità e una organizzazione. Anche se Freud non ci ha lasciato una esposizione organica e completa del complesso di Edipo, questo si è venuto lentamente costituendo come concetto fondamentale, concetto base, della psicoanalisi, sia per come è intuito nella autoanalisi dello stesso Freud che per come si presenta in buona parte delle esposizioni teoriche e cliniche.

Già nel 1897, in una lettera del 15 ottobre a Fliess, Freud scriveva:
«Si comprende l’interesse palpitante che suscita l’Edipo Re (…) il mito greco si rifà a una costrizione che ognuno riconosce per averne sentita personalmente la presenza.»
Anche se il termine non sarà per il momento ripreso, il suo concetto è presente nell’Interpretazione dei sogni del 1899 e nelle Cinque conferenze sulla psicoanalisi del 1910, chiamato col nome di «complesso nucleare» e presente in modo più o meno velato nelle considerazioni teoriche di questi anni in cui la psicoanalisi si viene costruendo come sistema.
La prima volta che Freud usa il termine «complesso di Edipo» esplicitandone il significato è nell’opera «Su un tipo particolare di scelta oggettuale nell’uomo» del 1911: «Egli incomincia a desiderare la madre proprio nel senso venuto or ora a conoscere, e torna a odiare il padre come rivale che ostacola questo desiderio; egli finisce col ricadere, come siamo soliti dire, sotto il dominio del complesso edipico». D’ora in avanti l’espressione e il suo significato saranno ufficialmente non solo un elemento fondamentale della psicoanalisi, ma anche della cultura comune dei nostri giorni; il complesso di Edipo sarà presente nei romanzi e sui rotocalchi.
L’esposizione, in genere, è molto schematica e semplicistica, mentre per Freud è invece caratterizzata da un fascio di interazioni emotive quanto mai ricco e sfumato.
Non è questa la sede in cui fare un’analisi critica del significato del complesso di Edipo nel pensiero freudiano, e non è neppure la sede adatta per affrontare la storia di questo concetto nella letteratura post-freudiana.
Freud, come ben si sa, fissa il culmine del complesso edipico nella fase fallica ed in questa fase pone quindi la formazione di quelle strutture fondamentali per la personalità che da essa dipendono. Altri pensatori strettamente legati al pensiero freudiano, la Klein e Spitz, per esempio, spingono assai più indietro l’affacciarsi delle formazioni edipiche e le strutture da esse dipendenti. Comunque, per la psicoanalisi ortodossa, il mancato raggiungimento e la mancata risoluzione dell’Edipo procurano, come abbiamo più sopra già accennato, disastri irreparabili nella psiche dell’individuo.

Ovviamente un concetto così importante non poteva non essere attaccato da coloro che contestano a fondo la psicoanalisi. Deleuze e Guattari, per esempio, si ribellano al dominio dell’Edipo e ritengono che la sua importanza derivi non tanto da una sua reale presenza nella storia dell’individuo, quanto da una schematizzazione operata dalla psicoanalisi che non può che interpretare tutto con parametri capitalistico-borghesi, imprigionando quindi l’individuo negli schemi famigliari e nelle dinamiche che ne conseguono. Così essi si esprimono in un paragrafo de L’anti-Edipo intitolato «L’imperiali smo di Edipo»: «Edipo ristretto è la figura del triangolo papà-mamma-io, la costellazione famigliare in persona. Ma quando la psicoanalisi ne fa il suo dogma, non ignora l’esistenza di relazioni dette preedipiche nel bambino, esoedipiche nello psicotico, paraedipiche in altri popoli. La funzione di Edipo come dogma, o «complesso nucleare» è inseparabile da un forcing grazie al quale il teorico psicanalista si eleva alla concezione di un Edipo generalizzato. Da una parte tiene conto, per ogni soggetto dell’uno o dell’altro sesso, d’una serie intensiva di pulsioni, affetti e relazioni che uniscono la forma normale e positiva del complesso alla sua forma inversa o negativa: Edipo di serie, come Freud lo presenta in L’Io e l’Es, e che consente all’occorrenza di ricondurre le fasi preedipiche al complesso negativo.
D’altra parte tiene conto della coesistenza in estensione dei soggetti stessi, e delle loro molteplici interazioni: Edipo di gruppo, che riunisce collaterali, discendenti e ascendenti (in tal modo la resistenza visibile dello schizofrenico alla edipizzazione, l’assenza evidente di legame edipico possono essere assorbite in una costellazione che comprende i nonni (grand parentale), sia che si stimi necessario un accumulo di tre generazioni per fare uno psicotico, sia che si scopra un meccanismo d’intervento ancor più diretto dei nonni nella psicosi, e che si formino così degli Edipi di Edipo al quadrato: la nevrosi, è papà-mamma, ma la nonnina è la psicosi). La distinzione tra immaginario e simbolico, infine, consente di enucleare una struttura edipica come sistema di posti e di funzioni che non si confondono con la figura variabile di quelli che vengono ad occuparli in una determinata formazione sociale o patologica: Edipo di struttura (3+1) che non si confonde con un triangolo ma che opera tutte le triangolazioni possibili distribuendo in un determinato campo il desiderio, il suo oggetto e la legge certo che i due modi di generalizzazione precedenti non assumono la loro portata vera e propria se non nell’interpretazione strutturale. È questa a fare dell’Edipo una sorta di simbolo cattolico universale, al di là di tutte le modalità immaginarie. Essa fa dell’Edipo un asse di riferimento tanto per le fasi preedipiche che per le varietà para- edipiche e per i fenomeni esoedipici (…).

Lo psicanalista è diventato l’attaccapanni di Edipo, il grande agente dell’antiproduzione nel desiderio. La stessa storia del capitale, e del suo mondo incantato, miracolato (anche agli inizi, diceva Marx, i primi capitalisti non potevano non avere coscienza…)».
L’attacco all’Edipo portato con l’atteggiamento e le argomentazioni che sopra abbiamo visto è abbastanza ingenuo e politicamente reazionario. È interessante osservare che il titolo del paragrafo (è ovvio che noi abbiamo scelto di citare questo paragrafo soprattutto per il suo titolo) è «L’imperialismo di Edipo» e, all’interno vi è poi un semplicistico attacco a questo imperialismo. Sarebbe come se si credesse di liberare il mondo dall’imperialismo americano affermando che l’imperialismo e gli americani non esistono, ma sono un’invenzione di Lincoln e Roosevelt. Purtroppo l’imperialismo degli americani e della famiglia esiste e non è presente soltanto come una realtà che ci opprime dall’esterno, è una realtà che ci determina e struttura dall’interno, addirittura con dinamiche che precedono la nostra nascita. Perciò l’essere umano e lo psicoanalista si trovano, loro malgrado e loro buon grado, padri, madri, nonnini e nonnine, sbucare da ogni piega dell’inconscio.
Nonostante questo, l’attacco al monolitico peso dell’Edipo può essere abbastanza utile (preso come chiave interpretativa, non come realtà). Lo schemino un po’ sempliciotto della psicoanalisi per cui l’Edipo struttura le persone e per il quale gli psicotici sono persone regredite allo stadio preedipico che non sono mai riusciti a superare completamente e salutarmente è contraddetto però dalla esperienza clinica. Sarebbe bello se lo schemino fosse vero; in tal caso la chiave interpretativa potrebbe essere usata con facilità e i comportamenti, psicotici e non, diverrebbero, almeno per quello che riguarda la loro genesi remota, comprensibili.

Purtroppo, come abbiamo detto, non è così. Nella storia degli psicotici, anche di quelli che la psichiatria psicoanalitica riterrebbe psicotici puri, si trova spessissimo un Edipo ben strutturato, superato e risolto; mentre, d’altro canto, in persone abbastanza lontane da quello che convenzionalmente è ritenuto il delirio psicotico, si può trovare quasi altrettanto spesso un Edipo che, secondo i parametri della psicoanalisi più ortodossa, non è mai stato raggiunto o superato.
Il mito di Edipo ha nella storia di ognuno configurazioni uniche e irripetibili. L’Edipo (o l’Elettra) che è in noi non ha una collocazione costante, ma sorge, sprofonda e risorge; forse tutta la vita è un’unica fase edipica: l’Edipo che sempre comincia non finisce mai. Anche questo può essere un imprigionamento: per fortuna l’uomo non è soltanto l’Edipo o l’Elettra. Forse la liberazione non avviene con l’uccisione di Laio (o di Agamennone), ma con il suicidio di Edipo (o di Elettra).
Queste sono argomentazioni che ci stanno portando lontano. Torniamo al discorso della psicosi e del suo rapporto con l’Edipo: noi concludiamo, basandoci su osservazioni cliniche, che il superamento dell’Edipo non ha in sé un significato particolare nei confronti della psicosi. La genesi della psicosi ritorna, secondo noi, nel buio dell’ignoto. Il fatto è che forse non è possibile operare elementari e semplici suddivisioni del comportamento umano e andare alla ricerca di una genesi in modo troppo semplicistico. Ci possono essere certamente casi in cui certe realtà infantili e positure molto precoci si prolungano in epoche successive, ma quanto gioca in tutto ciò la nostra interpretazione, data dall’esterno e incapace a cogliere tutte le evoluzioni così diverse dalle nostre? E chi ci dice che anche in queste situazioni l’Edipo non sia stato vissuto e superato? Tanto più che alcune volte l’esperienza clinica ci ha insegnato, ad una osservazione più attenta, che è stato proprio così. Il grosso problema della psicoanalisi è quello di riuscire a instaurare un rapporto con persone avvolte nella incomunicabilità del delirio. È molto importante l’affermazione di Freud secondo la quale il rifiuto o la difficoltà di comunicazione con l’altro dipendono da un ritiro della libido dall’esterno, si potrebbe dire: da una incapacità di sentire sessualmente il mondo esterno. Freud ha chiamato questo atteggiamento «nevrosi narcisistica», identificandola, all’inizio, con la psicosi (cfr. Introduzione al narcisismo, 1914); ha operato in seguito un’ulteriore distinzione usando l’espressione di nevrosi narcisistica nei confronti dei casi di melanconia distinguendola quindi da altre forme di psicosi (cfr. Nevrosi e psicosi, 1924). Non è il caso di avventurarci in una analisi del significato teorico e pratico del concetto di nevrosi narcisistica e di psicosi in Freud; importante osservare invece che per Freud in alcune situazioni particolarmente disturbate, la terapia è difficoltosa o addirittura impossibile, perché è impossibile la relazione col fuori di sé, è impossibile cioè il transfert. Termine questo così importante e abusato che ha quasi perso il suo significato tecnico per entrare ormai nel linguaggio comune.

Nella psicoanalisi, e forse è inutile ribadirlo, il concetto di transfert è uno dei pilastri: «È questo il terreno su cui deve essere riportata la vittoria (…). innegabile che il compito di domare i fenomeni di transfert è particolarmente difficile per lo psicoanalista; ma non bisogna dimenticare che sono appunto queste difficoltà che ci rendono l’inestimabile servizio di attualizzare e di manifestare i moti amorosi sepolti e dimenticati; in fin dei conti, nessuno può essere giustiziato “in absentia” o “in effigie”» (cfr. S. Freud, Dinamica della traslazione, 1912).
Questa famosissima citazione freudiana dice appunto con chi il lavoro e la lotta debbono essere intrapresi: con lo psicoanalista, vissuto contemporaneamente come fantasma di figure passate e persona reale che le incarna. Verso di lui devono dirigersi i moti amorosi; con lui, attore-personaggio-regista persona sessuale di carne ed ossa, deve iniziare il rapporto stretto e profondo senza il quale l’analisi non convince, o meglio, non acquista il suo più vero significato.
Ma è vero che con lo psicotico questo rapporto è impossibile? Di nuovo, qui noi ci riferiamo alle nostre esperienze cliniche, che poi sono anche esperienze della nostra vita: è vero che ci sono persone che fanno fatica a percepire gli altri, che non si accorgono, o non vogliono accorgersi, dei sentimenti e mutamenti altrui, che usano gli altri come semplici marionette del loro teatrino interno. Con costoro il lavoro, non solo psicoanalitico, è estremamente difficile, perché difficilmente si trasforma in un rapporto umano di relazione reciproca. Ci si sente strumentalizzati, reificati, violentati.
Questo non accade però solamente con gli psicotici; la causa è il narcisismo, siamo d’accordo; ma non necessariamente lo psicotico è più narcisista dello psichiatra o dell’impiegato di banca. Noi abbiamo riscontrato transfert tenaci, profondi, sessualmente ricchi, transfert nel pieno significato psicoanalitico in molti ricoverati dell’ospedale psichiatrico. D’altro lato abbiamo riscontrato in psicoanalisti con alle spalle anni di analisi e di training, la più assoluta incapacità di sentire gli altri con calore umano e sessuale e lo stesso vale per i portieri chiacchieroni e fascisticamente «normali» in signore querule e sedicenti mamme amorevoli, donne virtuose e patriottiche e in sinistrelli barbuti monologanti in continuazione.
Anche alcuni psicotici ti guardano con occhio stralunato, si appropriano di te, ti inseriscono nel loro delirio, non fanno che mendicare qualche lira o qualche sigaretta; ma quello che non funziona è la divisione che sta a monte per cui gli psicotici o i nevrotici narcisisti non opererebbero il transfert, gli altri nevrotici e i normali sì.
E siamo ritornati a questo transfert che sembra indispensabile per darci la capacità di incominciare ad essere uomini che sanno gestire la propria persona e il rapporto con gli altri.
Certo, sarebbe bello se tutte queste schematizzazioni fossero assolutamente vere, ma ci rendiamo conto che esistono solo sui libri e poi la realtà le scompiglia e contraddice. E allora? Allora cadono altri parametri: cosa vuol dire essere psicotico? Cosa può fare lo psicoanalista che, vinte tutte le resistenze, vuole tentare di operare in un ospedale in cui la psicosi è una realtà concreta? Ma concrete e reali sono tante altre contraddizioni che con la psicosi hanno poco a che fare. Dopo aver constatato concretamente che anche con un ricoverato lungodegente si è instaurato un transfert «classicissimo» cosa faccio?

Sorge a questo punto un problema molto grosso, che fa paura: contestare i parametri, dire che non hanno la schematica chiarezza che vorrebbero avere. Non rischia tutto ciò di far passare il discorso che la psicosi abbia realmente la sua origine in una degenerazione del sistema nervoso? È sufficiente per evitare questo pericolo sostenere che la psicosi è un prodotto sociale, che lo psicotico è un ribelle, un emarginato? Noi riteniamo squallida e riduttiva, oltre che scorretta, quest’ultima interpretazione. Siamo profondamente convinti che la psicosi sia anche il risultato di una situazione sociale, però pensiamo che ogni essere umano, chiamato o no psicotico, abbia una sua storia una sua irriducibile avventura inconscia, con la quale dobbiamo confrontarci se vogliamo capire almeno un po’ la realtà psichica delle persone che incontriamo.
La psicoanalisi freudiana è riuscita a dare una interpretazione della psicosi, delle sue origini e delle sue manifestazioni basandosi esclusivamente su parametri psicologici. Nonostante alcune affermazioni organicistiche di Freud, sparse qua e là lungo la sua opera, il tentativo del 1895 di scoprire la stretta relazione tra le reazioni del sistema nervoso e le manifestazioni psichiche fu interrotto da Freud stesso e mai più ripreso, anche se mai sconfessato come tentativo. Perciò le posizioni freudiane hanno un grandissimo valore teorico e politico: anche dalla psicoanalisi delle origini la psicosi non viene interpretata come degenerazione delle cellule nervose, come frutto di una inevitabile tara ereditaria, come tuttora sostengono i trattati di psichiatria in dotazione nelle nostre facoltà di medicina.
Anche senza impegnarci in questa sede a delineare una vera e propria concezione alternativa della psicosi, noi siamo però convinti quando affermiamo che anche il delirio più dissociato e dissociante e la catatonia più profonda possono essere affrontati e compresi con criteri e parametri interpretativi di impostazione analitica, purché non si abbia timore di allargare le possibilità di comunicazione e di contatto e non si voglia avere un riduttivistico e malinteso atteggiamento scientista.
I linguaggi sono molti, la parola non è che uno di questi, l’importante è aver voglia di capire. Possiamo anche tentare di scoprire nuove tecniche, purché non pretendiamo che queste siano sempre e per sempre riproducibili e schematizzabili in diagrammi, formule e formulette.
Il problema della psicosi è più che mai un problema aperto.

Psicoanalisi contro n. 1 – Osservazioni frammentarie e psicoanalitiche su di una composizione musicale

giovedì, 2 novembre 1978

A me piace la cucina francese, anche i vini francesi, naturalmente, però in Italia si producono ottimi vini: basti pensare ai vini piemontesi, toscani, veneti.
Come è banale dire che dopo aver mangiato, con la testa annebbiata, ti piace buttarti in terra, sul tappeto, davanti al camino. Il sibilo di un ramo secco mi ricorda Dante Alighieri; anche le mie orecchie sibilano; mi debbo nobilitare: voglio scrivere un quartetto, ma non il solito quartetto: primo violino, secondo violino, viola e violoncello. Il secondo violino sarà sostituito da un flauto. Dritto o traverso? Flauto dritto, cazzo dritto: ha la sonorità un po’ nasale e petulante non adatta per questo quartetto. Mi rotea in testa un tema di Pachelbel, o forse è Buxtehude. Flauto dritto, cazzo dritto.
Mozart preferiva il clarinetto al flauto. Io sono innamorato di Mozart; io sono sempre stato innamorato di Mozart. Flauto traverso, flauto normale, non esistono flauti normali; per un musicista non esistono flauti normali.
Non solo sono ubriaco, ma ho anche fatto la più stupida delle associazioni: flauto = cazzo. Mi debbo nobilitare e scrivere un bellissimo quartetto: violino, flauto, viola e violoncello… se ci mettessi il pianoforte, invece della viola?… o farlo diventare un quintetto.
Ho voglia di scrivere un quartetto; mi è venuta voglia di fare pipì; un po’ barcollando… il bagno è silenzioso, fresco… l’orina nella tazza; quasi tutta dentro, evapora un po’, un profumo acre.
Io non sono troppo abituato a scrivere non su commissione, proprio come i musicanti antichi; l’ultimo musicante antico, il mio amore: Volfango Amedeo. I musicanti antichi scrivevano su commissione; anche a me piacerebbe scrivere sempre su commissione; però è anche bello, qualche volta, scrivere soltanto perché ti va di scrivere. Mi lavo i denti: lo spazzolino è come se fosse una flauto, o un cazzo Che associazioni stupide e banali per uno psicoanalista compositore!
Sol- mi, una terza minore discendente… mi rotea in testa un tema di Pachelbel o di Buxtehude. Non so se prima mi è venuto in mente questo mucchietto di note o prima l’idea di scrivere un quartetto. Mucchietto di note confuso, impreciso e smozzicato: è evidente soltanto quell’intervallo di terza discendente. Nella mente mi si costruisce un tema che è una successione di intervalli di terza, maggiori e minori, poi una quarta, un tema dilatato, sgranato. Le note sono distanziate, come se avessero paura di toccarsi: do – re, no: do – mi, di nuovo un intervallo di terza.

Tutti sono andati a dormire, passo la mano sul caminetto di pietra: qui c’è inciso 1715. Il tema lo espone il flauto, non è tonale, beh lo si può far diventare con due note del violoncello; preferisco che non sia tonale. Sono molto diffidente nei confronti della musica atonale che si esprime attraverso i nostri dodici suoni, inventati per un altro linguaggio; forse la musica atonale è un bluff. Il tema lo espone il flauto, da solo. Mi dispiace, Volfango
Amedeo, a me piace molto il flauto; lo sento, nella mente, scivolare sugli intervalli di terza, e poi la quarta e poi fermarsi su di un mi bemolle. Ecco, a questo punto il violino; due note lunghe, tenute, della viola e del violoncello. Come è piacevole immaginare nella mente le due note della viola e del violoncello: sol, si bemolle. Il violino, all’inizio, potrei usarlo un po’ come se fosse un grillo; qualche volta il violino deve imparare a non cantare troppo; un grillo: note smozzicate, vagamente aspre e poi un pizzicato… no, come un grillo. Nella mente mi si disegnano accordi che impongono un tono: do minore.
Voglio ancora fuggire dal tono; a fatica, nella mia mente, i quattro strumenti si spostano un pochino, di quel tanto che basti per fare sparire il do minore. Mi avvicino al pianoforte e mi stupisco dell’avorio liscio; prima le mani erano contro la pietra del camino, aspra. Ecco il suono rotondo del pianoforte; mi sorprende perché è concreto, non è soltanto più nella mia mente, del resto nella mia mente sentivo il flauto, il violino, la viola e il violoncello…
Il suono rotondo del pianoforte è concreto, un po’ mi sveglia, penso che sia molto tardi, non debbo suonare forte. Le dita cercano, mi fermo a pensare: immagino una strada, degli alberi; il flauto continua, imperterrito. Mi piacerebbe un po’ di contrappunto col violino, appena un po’, ma deve smettere di fare il grillo, allora; va bene, piuttosto la viola. Mi si ripresenta un tono: il do maggiore; gli strumenti si spostano di quel tanto per farlo sparire. Tutti e quattro gli strumenti suonano alla distanza di una terza… di una terza… lo stesso disegno a distanza di una terza. Un quartetto… quattro, e un intervallo di terza; a me piacciono moltissimo i quartetti, queste quattro voci danno alla composizione un impianto solido, una architettura precisa, ricca, di cui, però, si possono vedere tutte le nervature; l’orecchio riesce a seguire ogni nota, con precisione, con esattezza. Il quartetto ti dà in mano un’infinità di combinazioni, ma ti impedisce sempre di diventare confuso o confusionario, opaco o sbrodolato; il quartetto ti invita ad essere contrappuntistico un po’ arcaico e, nello stesso tempo, ti dà la possibilità di innumerevoli combinazioni sonore, armonie lontane, dissonanti, ambigue, se vuoi, o precise; il quartetto è una costruzione che si poggia su quattro pilastri, solida. L’intervallo di terza è estremamente piacevole, come il suo rivolto, quello di sesta, è dolce e discorsivo, aperto a tante possibilità, ti sembra meno rigido della quarta, meno dissonante della seconda, meno definitivo della quinta, meno ansiogeno della settima, meno dogmatico dell’ottava: è un intervallo morbido, un piccolo salto, una consonanza delicata.
Mi ha sempre messo un po’ a disagio l’intervallo di terza, perché l’ho sempre sentito così sensuale; ho sempre avuto paura ad usare l’intervallo di terza e un’istintiva attrazione. Mi ritorna in mente la strada, e gli alberi, so benissimo che strada sia e quali alberi. Tutto adesso si deve movimentare, il mio discorso farsi serrato: un po’ di nebbia, note che scivolano, frullano, e poi si impone il flauto… un cazzo duro, dritto, dorato… mi dà fastidio questa associazione, eppure… è lì davanti a me, morbido e allegro, un cazzo dritto, bello come l’emblema di un dio… Una delle cose più stupide che abbia detto Freud è che gli organi genitali siano brutti. Era da un po’ che sapevo che il numero tre è il simbolo di mia madre perché con tutti i lavori analitici era venuto fuori; immediatamente al numero tre, tuttora, associo mia madre, sebbene il tre, per la simbologia «classica» stia ad indicare l’organo maschile… Chissà che non c’entri anche questo. Le dita scivolano sui tasti, costruiscono frammenti di melodia: accordi… poi mi fermo a pensare: sol mi, mi sol… che cosa mi ricorda? Adesso mi verrebbe da dire che pensavo ad una strada con degli alberi, ma non è vero, o forse mi dà fastidio perché sarebbe troppo «classico». A nessuno piace essere troppo da manuale: è come essere troppo banali; diciamo che non ho visto né la strada né gli alberi, però le dita
facevano: sol mi, mi sol, sol ecco che viene fuori tutta una frase con le parole: « O pecorina il tuo bianco vello ti toserò, ma senza farti male; il mio piccino vuole un bel mantello, ti ricompenserò con pane e sale. E gira e va la ruota, tu sei il fiore della vita mia e tutto il mondo tu potrai girare, ma un’altra mamma non potrai trovare ». Tutta di seguito, di filato, questa piccola melodia, rivestita da questi pochi versi, la voce di mia madre che la canta; e poi la voce di mia madre che mi racconta che me la cantava; lei mi dice che è la prima canzone che mi ha cantato, forse non è vero, però ho l’impressione che sia una melodia che è in me da sempre, mi sembra anche di sentire la voce di mia madre giovane, una voce un po’ tremolante, da soprano leggero che bamboleggia. Mia madre è sempre stata molto intonata. Sol mi, questa canzonetta popolare, italiana, credo, italiana senz’altro, di cui non conosco l’origine, ha la melodia costruita per lo più sull’intervallo di terza: incomincia con quest’intervallo di terza minore, ostinato, discendente, è una melodia malinconica, semplice, che io non trovo brutta; mi commuove e mi fa malinconia… la terza… Quando ero piccolo, ricordo, mi faceva estremamente tristezza, quasi fino alle lacrime, pensare o sentire la seconda strofa: «E gira e va la ruota, tu sei il fiore della vita mia e tutto il mondo potrai girare, ma un’altra mamma non potrai trovare».

Faceva venire in me il senso dell’abbandono, della possibilità dell’abbandono, mi diceva che quella persona era così importante che era impossibile trovarne un’altra, insinuava anche la possibilità che se ne potesse andare, che ci fosse qualcuno che, dopo averla persa, la mamma, andasse in giro per il mondo, inutilmente, a cercarla…
Ruota… scura… un tacchino… il primo sogno che io ricordi è quello di un tacchino, con la ruota, grigiastra, che entrava, si avvicinava al mio letto e mi porgeva una lettera; su quella lettera c’era la comunicazione della morte di mia madre; io mi svegliavo urlando, e ricordo mia madre, seduta vicino a me, a consolarmi. Scena tipica…, di nuovo, tipica!
Ecco di dove viene fuori la ruota, la ruota della canzone, la ruota del tacchino che mi porta la lettera; di qui la sottile angoscia, un po’ più di una malinconia, legata a quella canzone; ma anche esprime un grosso desiderio di morte verso mia madre, tipico, unito ad un innamoramento, altrettanto tipico. Per fortuna nelle analisi le situazioni tipiche si mescolano e si rimescolano e danno luogo sempre a storie originali, uniche.
La resistenza ad usare la terza, il tre, nei miei primi giochini di musicista e compositorucolo era stata interpretata come resistenza all’incesto. Vero! Però, anche come un rifiuto del desiderio di morte verso mia madre. Credo, altrettanto vero! Di qui la sensuale malinconia di questo intervallo, che mi affascina e mi fa paura, mi disturba e mi attrae. Purtroppo non ho in mente un così bel giochino per tirar fuori il quattro da mio padre; eppure, da sempre, io ho associato il numero quattro a mio padre. Ho pensato a lungo: la stabilità, la razionalità, il mio concetto infantile della virilità, ma tutto questo sta dietro al quattro o il quattro è una sua espressione?
Le dita sulla tastiera improvvisano una fughetta a quattro voci, che poi si va a perdere lontano in dissonanze e in una «stretta» bizzarra. Non c’entra niente, ma è il quattro… la fuga… Bach, per me una figura estremamente virile. Il quattro si ricollega a mio padre molto tempo prima che io sapessi di Bach e delle fughe. Certo, quando mia madre mi cantava «o pecorina il tuo bianco vello» io non sapevo che cosa fosse una terza, ma nell’orecchio quell’intervallo si era appiccicato, era ormai stabile nel mio inconscio e quando le mie dita lo ritrovarono su di una tastiera seppi allora che era una terza, un tre; quell’intervallo era un tre. Il quattro, invece, non capisco bene di dove venga: la virilità, la stabilità, i quattro pilastri… anche questa è un’associazione molto antica; ho l’impressione che si perda chissà dove, indietro nel tempo. Il quattro… mio padre…

Ricordo un disegno: un grande foglio bianco e sopra, disegnata in rosso, la mia famiglia: mio padre, mia madre, mio fratello ed io. Mio padre ha in mano quattro enormi fiori, altissimi, come fossero papaveri, quattro papaveri; la mia famiglia è composta di quattro, mio padre è il primo… il quarto… Non so se questo disegno abbia qualcosa a che vedere, certo, è abbastanza strano: quattro enormi papaveri; ma non si spiega perché quattro fiori… il quattro già c’era… probabilmente arriva da altrove, chissà di dove. Ripensandoci, quello è uno dei disegni che ricordo meglio dei tanti che ho fatto dopo, prima di dover interrompere; per me quattro è il quadrato per me quattro è la croce: ecco dove si annida l’aggressività, luogo di supplizio, ma anche luogo onorifico.
Questo deve essere un allegretto, non un tempo molto veloce, ma ritmato e disteso allo stesso tempo; le quattro voci adesso si rincorrono, si rincorrono, si fermano su accordi lunghi, un po’ ansimanti… alcune collane di semicrome, poi sbuca il flauto, teso, morbido e dritto, enuncia perentorio il tema iniziale, con frange di note degli archi. È sicuro di sé, poi ritrova la sua dolcezza e la sua flessuosità e si allontana, piano, con gli altri; voglio che finisca così, in sordina.
A questo punto, il secondo tempo, deve essere un lento, come vuole la buona tradizione, un largo. La mia casa è tutta silenziosa, il fuoco nel caminetto non crepita più, il rumore di una motocicletta invade la stanza e si allontana. Le dita accarezzano l’avorio dei tasti, la mente immagina i suoni che non escono dal pianoforte. Ritorno indietro, al primo tempo del mio quartetto appena abbozzato, il tema con le terze, mia madre, l’amore tenero, appassionato, del piccolo Edipo; l’aggressività, il desiderio di morte, la malinconia. Lei si esprime attraverso un quartetto, o il quartetto si esprime attraverso di lei; in questo quartetto si insinua un flauto, un bel cazzo dorato, quello di mio padre, che suona il tema di mia madre, ma io me ne approprio; io quel cazzo lo onoro e lo crocifiggo e me ne approprio, e mi inserisco nel quartetto, che canta una melodia di terze: «O pecorina il tuo bianco vello, ti toserò… » che significato ha questo «ti toserò», che significato ha avuto? Il dritto flauto d’oro si inserisce nel quartetto che canta una melodia, ci sta bene e domina, possiede ed è posseduto. Che cosa ha a che vedere tutto questo con il bello? Niente e forse tutto, a me piace il primo tempo del quartetto appena abbozzato, e lo accarezzo qualche volta, lo penso e lo ripenso, mi piace; ma perché mi piace? Ma perché è bello? È un discorso che vale soltanto per me?
Eppure, sono sicuro, può comunicare le mie stesse emozioni ad altri.
Ma chi può capire che c’è un piccolo Edipo rannicchiato a sgranocchiare il proprio incesto, la propria omosessualità in un pentagramma? Eppure, forse, è bello soltanto per questo: ogni nota riveste di suono un mio desiderio.
A me piace soprattutto la cucina francese.

Psicoanalisi contro n. 1 – Il disagio mentale. Problema che riguarda anche gli “altri”

mercoledì, 1 novembre 1978

Il problema della salute mentale è un problema collettivo e politico; le cause della cosiddetta malattia mentale sono anche da ricercarsi nella struttura sociale in cui esse sorgono. Solo alcuni psichiatri deliranti possono ancora dire che la follia sia un problema esclusivamente organico di disfunzione del sistema nervoso. Ci possono essere e spesso ci sono componenti organiche neurologiche, ma il nucleo del problema consiste sempre nelle dinamiche interpersonali, si tratta perciò sempre di un problema soprattutto sociale e politico.
Dire che la follia è un problema sociale e politico non significa però dimenticare che è un problema che riguarda sempre gli individui e non delle entità astratte, che è un problema psichiatrico e perciò anche tecnico. I politici con tutto il loro bagaglio di follia inconsapevole non sono in grado di parlare della follia e, in genere, quando lo fanno non ottengono altri risultati che quello di propagare una situazione di disagio e di inconsapevolezza estremamente pericolose. Un problema «tecnico», non risolvibile cioè con formulette demagogiche.
Il timore di non farcela più psichicamente, l’ansia intensa, sono esperienze che riguardano ognuno di noi. Nessuno è esente dall’esperienza della follia. Ognuno di noi si è sentito, in qualche momento della sua vita, isolato, stanco e confuso; non ha più capito il proprio comportamento ed ha sentito lontani ed estranei gli altri, ha desiderato di non continuare più, di gettare la spugna, di ritirarsi, di rinunciare alla lotta e alla comunicazione. Oppure ha desiderato aggredire, gridare, fare qualcosa di strano. Ognuno conosce l’angoscia radicata e dolorosa che sta dietro a tutto questo. Non esiste una linea di demarcazione netta tra il sano e il malato di mente.
È assurdo e ridicolo dire che i matti sono gli «altri», mentre noi siamo i sani e i normali, che sanno capire e compatire.
Un’esperienza certamente difficile da gestire è quella del rapporto con la follia di chi, compagno o parente, dopo una vita di lavoro e di interessi comuni, manifesta la sua incapacità di continuare attraverso un comportamento improvvisamente incomprensibile. Tutti a quel punto decidono che è «matto» e la scienza gli appiccica il cartellino «schizofrenico» oppure «paranoico» e così via. Noi stessi rimaniamo disorientati, perché diventa veramente molto difficile continuare ad avere un rapporto con quella persona che ora è diventata così incomprensibile e così strana; non sappiamo che cosa fare e sentiamo sorgere in noi tutta l’antica, primitiva paura della follia. Allora desideriamo fuggire, desideriamo rinchiuderlo, speriamo che un «tecnico» esperto se ne prenda cura, agisca su quella mente sconvolta con medicine, facendo qualcosa, fino a rimettere l’equilibrio dove c’è squilibrio. Si fugge dal matto, lo si teme: «adesso sembra tranquillo, ma… ». È questa una paura inconsistente; il pericolo è molto più remoto di quello che corriamo per strada ogni giorno. In realtà, vogliamo allontanare, con la persona, la nostra stessa paura di questo oscuro male.

Fortunatamente non accade sempre così: a volte ci sono persone che, per ragioni affettive, morali o politiche, si pongono il problema di voler continuare a gestire il loro rapporto con i «matti», pur non considerandosi i tecnici della malattia, né volendo sostituirsi ad essi. Ma spesso non si sa proprio che fare. Una stupida letteratura, che vorrebbe essere di sinistra, ha blaterato ai quattro venti che lo psicotico è solo un debole che è stato frustrato e violentato, il frutto di emarginazione ed avrebbe bisogno solo di comprensione. Il che è vero, ma semplicistico, e genera spesso confusione.
Accade infatti che molte persone si avvicinino allo psicotico con affetto, talvolta pietistico, ma, spesso, sinceramente e politicamente consapevole, e spesso si sentano frustrati perché non solo non si vede la follia regredire, ma addirittura si vede il proprio sforzo disprezzato e rifiutato con ostinata e incomprensibile cattiveria.
Il fatto è che il problema è ben più profondo: non basta la carità, cristiana o marxista, non basta la buona volontà, anche se può essere il primo passo. I famigliari di uno psicotico spesso rivolgono una domanda che imbarazza: «Come ci dobbiamo comportare?» Si aspettano una «ricetta»; si aspettano dallo psicoanalista, che conosce i «profondi meandri» dell’animo umano, una serie di regolette a cui attenersi, sul tipo: «Quando dice così, voi rispondete così; quando reagisce in quel modo voi comportatevi in quest’altro modo». È un desiderio legittimo, però può nascondere la volontà di non capire.

Innanzi tutto, a tutte le persone che, in famiglia, sul lavoro, nel quartiere, nel gruppo si trovano a dover affrontare il problema della follia di uno di loro, debbo dire che il comportamento psicotico è sempre anche (dico anche perché, a volte, ci possono essere implicanze neurologiche importanti) un comportamento che è una risposta, una richiesta, un messaggio. Una risposta ad una situazione, una richiesta di aiuto, un messaggio diretto ad ottenere modifiche di un certo comportamento. È da rifiutarsi comunque la regola stupida e squallida imposta dalla tradizione popolare e dalla psichiatria deteriore, secondo la quale il matto ha sempre ragione. Al contrario, con il «matto» bisogna sforzarsi di entrare in comunicazione, bisogna sforzarsi di capire il suo messaggio, bisogna sforzarsi di cogliere il senso di quella risposta; ma non necessariamente per accettarla, talvolta per contestarla, per rifiutarla, perché non sempre è un’esigenza accettabile. Bisogna però sempre sforzarsi di capire e capire non significa sempre approvare.
Il sintomo della malattia mentale non riguarda mai solo l’individuo, ma riguarda sempre anche il gruppo e tutto il gruppo deve sentirsi coinvolto e chiedersi perché. L’analisi deve essere fatta su due piani: un’analisi tecnica, psicologica, meglio se psicoanalitica, fatta da un esperto, per andare alla ricerca dell’origine infantile, delle cause prime, delle prime esperienze che, accumulandosi, hanno condizionato la personalità dell’individuo; fino a giungere alle cause immediate, che hanno il loro peso e, quindi, non vanno sottovalutate addossando tutte le responsabilità ai traumi e alle situazioni infantili. Contemporaneamente bisogna rendere chiaro a tutti coloro che sono partecipi della vita dello psicotico, quanto il disturbo mentale sia frutto di una inter-azione reciproca che, quasi sempre, li riguarda più da vicino di quanto pensino. La famiglia ha il dovere di chiedersi perché uno dei suoi componenti sta vivendo l’esperienza psicotica. Non si tratta solo di amore e di sofferenza, non basta che tutti dicano: «Noi siamo pronti a fare tutto». Quando poi si rifiutano di voler ricercare cosa — nel loro comportamento — ha contribuito all’esplosione della psicosi. Se anche un solo individuo al mondo diventasse matto, tutta la società avrebbe il dovere di chiedersene il perché, e dovrebbe sentirsi chiamata in causa. Ciò vale, a maggior ragione, quando questa esperienza riguarda qualcuno che vive con noi da molto tempo o da sempre.
Non sempre la cosiddetta «terapia famigliare» è utile; il più delle volte, si tratta di un’ennesima aggressione, perpetrata con l’aiuto di un tecnico, alla persona che soffre. In particolare, ciò vale per quelle forme di terapia della famiglia che non hanno un’impostazione psicoanalitica. Si tratta, in questi casi, di una violenza che viene dall’esterno ad insegnare elementari o catechistici precetti per mutare il comportamento di una famiglia. Questo tipo di intervento è spesso più dannoso che utile ed è sempre, e soprattutto politicamente, inaccettabile.
È importante che i membri di un gruppo si chiedano, prima di tutto, il perché del problema mentale scoppiato tra di loro, e se pure hanno bisogno dell’aiuto di un tecnico, non accettino di delegare completamente ai tecnici la soluzione dei problemi connessi alla malattia mentale.
Il solo metodo di intervento che risulti corretto nei confronti di ogni problema terapeutico, è quello che ne ricerca la soluzione attraverso la presa di coscienza.

Psicoanalisi contro n. 1 – Intorno al sogno (2^parte)

mercoledì, 1 novembre 1978

L’altro desiderio che balza evidente è quello di distruggere gli altri componenti del gruppo per rimanere solo con me. A campanello associa un ricordo infantile: da piccolo, non ricorda quando, si sbagliava sempre, chiamando un gruppetto di persone riunite campanello anziché capannello. Il campanello è quindi il capannello, cioè il gruppo che lui tenta di schiacciare o di castrare. A questo punto il ragazzo rivela di essere particolarmente geloso nei confronti di un membro del gruppo, perché teme che abbia rapporti erotici con me. Poi, attraverso un lungo passaggio di immagini, associa al cesello un gioiello indossato da una ragazza del gruppo.
Tutte le interpretazioni dei componenti del gruppo misero in evidenza, correttamente, il desiderio di seduzione nei miei confronti e di castrazione e distruzione, nei confronti del gruppo. Però, il compiacimento con cui tutti descrissero l’esibizionismo del sognatore e il suo desiderio distruttivo, misero in evidenza l’aggressività che già da tempo il gruppo sentiva per lui ed ognuno intepretò come timore del sognatore per un mio gesto aggressivo ciò che in realtà non era altro che il desiderio di ognuno che io compissi realmente quel gesto contro il ragazzo. Uno gli disse: «Tu hai paura di strapparti il vestito perché hai paura che ti punisca scacciandoti». Un altro: «Tu vuoi farci star zitti; noi siamo campane che parliamo, perché hai paura che Sandro ci dia ragione». Un altro ancora: «Tu vuoi mangiare un fregio di metallo e allora lo fai diventare un elemento commestibile perché hai paura che Sandro ti dica che non capisci niente né di cibo né di antiquariato. Vuoi mangiare del metallo e indossi, lacerandolo, un vestito antico». Espongo ancora due esempi di meccanismi proiettivi; un componente del gruppo disse: «Vuoi prendere in bocca (le tenaglie) il cazzo di Sandro (battacchio )». Un altro dimostrò molta aggressività nei miei confronti, descrivendo, ormai rivolto a me, lo scempio che senza dubbio era stato fatto del vestito antico che certamente simboleggiava la mia persona (più anziano di tutti, amante del seicento, etc.).
Un piccolissimo lavoro di analisi rivelò immediatamente sia il desiderio del primo (da due giorni stava pensando ai miei genitali), che la reale aggressività del secondo che si vendicava di un mio attacco della sera precedente.
Questo sogno produsse una ricchissima messe di proiezioni che i componenti stessi del gruppo videro presentarsi di fronte a loro quasi spontaneamente e con grandissimo stupore.
Come abbiamo visto, nei sogni si affollano i desideri, sui sogni altrui noi proiettiamo i nostri. Abbiamo anche detto che il sogno parla una pluralità di lingue, spesso anche contemporaneamente. Ma queste sono caratteristiche proprie soltanto del sogno?
Forse che la veglia non conosce i desideri? O parla una lingua unidirezionale?
Il concetto di vita è un concetto vuoto. In sé non vuole dire niente. Non intendo certo dare qui una definizione della vita; io, abitualmente, cerco di definire un concetto non tanto sforzandomi di dire ciò che è; ma piuttosto ciò che ha. L’essenza è indecifrabile, forse non esiste. Questi sono discorsi vecchi di secoli. Pascal diceva che definire alcuni concetti fondamentali, ad esempio quello di tempo, è una perdita di tempo. Io penso che sia una perdita di tempo definire qualsiasi concetto, perché non credo esistano concetti fondamentali.
Non è più difficile definire il concetto di spazio di quanto non lo sia definire il concetto di gamba, di soffritto, o di pulsione. Le definizioni sono sempre ambigue e assai più che imprecise; sono sempre inesatte. Di conseguenza, dire ciò che una cosa è, risulta essere per me un’impresa al di sopra delle mie forze. Preferisco tentare di dire ciò che una cosa ha; ben sapendo che, anche così, ho soltanto aggirato il problema. L’avere mi sembra una cosa più amichevole che non l’essere. L’avere è ciò che io voglio che sia (maledizione, questo verbo essere è ritornato); ma, ripeto, l’avere è ciò che io voglio che una cosa sia. L’essere di una cosa, puro e semplice, che non vuol dire niente, non è contrapponibile neppure al nulla. La cosa «c’è» e il nulla non è né un suo attributo né un suo contenitore. Potrei dire che la cosa che c’è se ne frega del nulla. Il «c’è», per me, vuoi dire molto poco. Comunque, la cosa che «c’è» ha qualcosa di più della cosa che «soltanto» esiste e la «presenza» della cosa è un avere qualcosa di più del puro «c’è».
La presenza è la possibilità del dialogo, anche se la cosa non vuole dialogare. La cosa «ha» perciò la presenza e non «è» presente. Dire che la cosa presente ha la possibilità del dialogo e basta è, forse, scorretto. Penso sia meglio dire che la cosa che ha la presenza ha la possibilità di relazionarsi a me. Il dialogo interviene solo con alcune presenze, anche se io non sono capace di dire con quali.
Possibilità di relazioni e possibilità di dialogo sono possesso di una cosa che ha la presenza: dialogo, presenza, relazione, essere, avere sono parole. Io credo nel valore delle parole; ma credo anche nella caratteristica di desiderio propria di ogni parola. Ogni parola è sempre anche desiderio. Ogni parola dà alla presenza la sua possibilità di avere: avere ciò che ha, avere ciò che vuole e avere ciò che io voglio che abbia. La parola non è mai aggiunta alla cosa; la parola è ben di più dell’attributo di una cosa. La parola non è neppure il velo che nasconde una cosa, la parola non è neppure la cosa stessa. La parola è il desiderio della cosa e l’attesa della risposta. La parola è soprattutto esperienza della cosa. La parola si rivolge alla cosa e aspetta la risposta. Non esistono parole unidirezionali, perché non esistono soggetti che parlano di oggetti. La parola ha l’esperienza; ma l’esperienza non è soltanto parola. L’esperienza è l’espressione, che è pur sempre un dare alle cose perché abbiano e un aspettarci qualcosa dalle cose per avere a nostra volta.

L’esperienza ha sempre una sua espressione. L’espressione ha sempre un’esperienza. Il possesso dell’esperienza-espressione si realizza in quello che noi possiamo chiamare vita. La vita quindi non «è»; la vita «ha» la propria esperienza, che è un realizzarsi attraverso un’espressione che sperimenta se stessa esprimendosi e si esprime esperienzialmente. L’espressione non è soltanto il vivere. L’espressione esprime tutta la possibilità della vita-esperienza e l’esperienza realizza tutta la possibilità della vita-espressione. Ho detto che l’espressione non è il semplice dire; cioè non è il semplice parlare. L’espressione è il voler essere, cioè l’avere, il possedersi, il possedere, il comunicare.
La lingua della parola tende all’infinito, pur lasciando fuori di sé un infinito: tutte le altre forme di espressione che si coagulano tutte in un’esperienza. L’espressione – esperienza non si rivolge mai soltanto al passato, al presente o al futuro, cioè al tempo così come noi lo concepiamo, ingenuamente o metafisicamente (metafisiche sono anche a mio parere tutte le definizioni di tempo date dalla scienza). Il tempo è già il frutto di una espressione-esperienza, come lo spazio, come il soffitto, come le pulsioni… Allora consegue che l’espressione-esperienza sta prima soltanto perché io voglio che stia prima (anche se spero che si capisca che cosa voglio intendere con questo mio «volere». L’espressione-esperienza è ciò che io ho come uomo insieme con altri uomini. Avrei potuto chiamarla realtà; ma sarebbe stato un concetto opaco che, proprio come il concetto di essere, sarebbe stato totalmente inutile. L’espressione-esperienza ha bisogno anche del concetto di tempo, senza però doverne diventare prigioniera. L’espressione- esperienza non è altro che il complesso dei desideri.
Vivendo noi in qualche modo ci esprimiamo, non vogliamo soltanto comunicare qualcosa di noi ad un altro o a noi stessi. La nostra espressione è sempre orientata nel tentativo di soddisfare un bisogno e di realizzare un desiderio. La pura espressività è un mito ingenuo dell’art-déco; ha un significato estetico per chi già sa che cosa sia l’art-déco; ma in effetti è un’espressione che tende all’inganno, cioè che desidera ingannare.
Lì per lì mi viene da dire che esprimersi per esprimersi equivale al silenzio; ma poi mi accorgo di quanto sia ingenua questa mia affermazione. È meglio dire che esprimersi per esprimersi è impossibile. L’espressione sorge da un bisogno e da una pulsione, vive di queste e si esaurisce quando queste si esauriscono. Ecco un nuovo bisogno, ecco una nuova espressione. Quando dico che l’espressione è espressione di un bisogno, non voglio dire neppure che essa sia la comunicazione ad altri che io ho un bisogno. L’affermazione è assai più radicale: il bisogno è contemporaneamente anche espressione; cioè, non è soltanto il bisogno dell’espressione, ma ne è anche l’espressione stessa.

Il bisogno diviene bisogno nell’atto che si esprime come espressione; il desiderio che vive nel bisogno, o forse coincide col bisogno, si realizza nell’espressione. L’espressione, quindi non è comunicazione nel senso di informazione; è comunicazione nel senso di «mettere in comune». L’esperienza, dal canto suo, si realizza nel tendere ad appagare il desiderio. L’esperienza non è soltanto imparare, non è soltanto guardarsi indietro; non è neanche, come dicono i pragmatisti, guardare avanti. La dimensione dell’esperienza non è neanche il futuro dunque, e per concludere la triade, con buona pace degli ossessivi, dico che non è neanche il presente.
L’esperienza è la pulsione che sorge, che cerca uno sbocco al suo desiderio; ma già nell’atto in cui sorge desidera essere pulsione e contemporaneamente anche qualcosa di diverso dalla semplice pulsione, perché è anche realizzazione di desiderio. La dimensione dell’esperienza è forse l’attesa vissuta nell’istante, ricca di ciò che ho avuto, che ho e voglio ancora, che non ho avuto, che non ho e che non voglio, che ho avuto-non avuto, che ho-non ho, che avrò-non avrò. Questi sono anche, e soprattutto, giochi di parole che per di più sono goffamente e miseramente ricaduti nella trinità temporale…
Non sono mai riuscito a capire se il gioco di parole è il livello più basso e squallido dell’espressione oppure serve, baroccamente, a qualche cosa. Certo è che serve a non sputtanarsi troppo. Ogni pensiero, anche il più profondo, ha sempre un piede nella banalità.
Ogni frammento di vita è un’espressione-esperienza: guida l’automobile, sa guidare la macchina, gli piace guidare la macchina, deve arrivare in qualche luogo, vuole arrivarci perché così aveva pensato, è bello arrivare. Quand’era bambino la notte prima di un viaggio, anche se breve, non riusciva a prendere sonno. Si parte quando si è arrivati alla decisione di partire. Talvolta per arrivare, talaltra per partire. Non è bello guidare al crepuscolo; sono belle le ombre verdi e nere. La schiena calda contro il sedile, al posto di guida, le mani attorno al volante, sente il vibrare dell’automobile dalla schiena ai genitali. È piacevole manovrare i comandi; quello si sposta troppo a sinistra. L’aria dal finestrino abbassato ferisce la guancia sinistra, ferisce ma fa piacere. Quell’uomo piscia sul bordo della strada; un leggero prurito ai genitali. Quel cretino si sposta troppo a sinistra. Speriamo di trovarli ancora svegli. Sono stupidi quelli che usano il clacson a quattro note; quello è uno stupido, quel suono però fa piacere. Anche un rutto fa piacere. Volta la testa e dice al suo vicino: «Quel cretino guida in mezzo alla strada» Gli occhi del suo vicino sono belli. Fa piacere sentire la stoffa della camicia sulla pelle della schiena e la stoffa che si stacca con un crepitio leggero dallo schienale.
L’odore della sua camera da letto in campagna, l’odore del suo vicino, gli piace, non gli piace. È brutto guidare al crepuscolo. I calzoni sul ginocchio, il suo ginocchio… Ecco: in un frammento di vita, al volante di un’auto, per un momento; tutto è perché è tutto un moto di tensioni e di desiderio; di desideri e di movimenti, di pensieri; gli uni sfumano negli altri. Non è più importante arrivare di quanto sia importante godere nell’istante dell’odore del vicino. È piacevole la rabbia scaricata sul «cretino» che guida in mezzo alla strada; gli parli con un colpo di clacson. L’uomo che piscia sa che sei passato alle sue spalle, piscia anche per te. Il brivido ai tuoi genitali è anche per quello zampillo che hai creduto di intravedere. Muovere un ginocchio. Infilarsi nella strada, scivolarvi, vedere e sentire gli alberi; essi sono presenti, non sono soltanto, ti mandano la loro austerità verdastra. Penetrare nel crepuscolo, ti piace andare avanti in quel momento. Qualcosa lo sai, molto non lo sai. Tutto ciò che hai avuto è stato comunicato, non solo è stato comunicato; ma anche manipolato.
Ho detto che comunicare non è soltanto informare, ma è mettere in comune. Dire per ricevere una risposta, dire non soltanto con la parola. Comunicare però non è soltanto mettere in comune, è anche manipolare.
Il desiderio è sempre anche un progetto; ma nel progetto non sono soltanto implicite la tensione e l’attesa. Il progetto è l’opposto della previsione. Io affermo con assoluta convinzione che non esiste la previsione. Per l’essere umano è impossibile prevedere. Quando dico «prevedere» non intendo dire: «sapere ciò che accadrà», intendo dire «fare previsioni». Sono sicuro che nessun uomo fa previsioni; neppure i meteorologi. La previsione, come ho già detto, è sempre un progetto e il progetto non è altro che il desiderio di controllare-modificare il campo della realtà o dell’esperienza. Il progetto non si riferisce soltanto a ciò che non è ancora per realizzare in futuro ciò che noi desideriamo; intendere il progetto in questo senso vuol dire applicare senza discernimento alcune categorie proprie degli operatori economici. Il progetto si riferisce anche a ciò che è, tentando di farlo essere ciò che il progetto vuole che sia. Il progetto, infine, riguarda anche il passato. Qualcuno ha detto che la sola cosa impossibile anche a Dio è quella di far sì che non sia ciò che è stato. Può darsi che a Dio non sia impossibile; ma all’uomo sì. Continuamente l’uomo progetta anche il proprio passato. Il campo di presenza entro il quale si trova la presenza dell’uomo è continuamente manipolato per realizzare un desiderio-controllo. Un desiderio che non tende al controllo, e quindi alla manipolazione, non è un desiderio. L’uomo si muove ristrutturando continuamente il campo intorno a sé, non soltanto per modificare ciò che non è ancora, per avere fra un po’ una situazione più soddisfacente; ma anche per strutturare sempre e ancora l’ambiente spazio-tempo in cui si muove; egli sposta non soltanto gli oggetti, ma anche i valori e vede mutarsi le percezioni. Per questo i filosofi di tutti i tempi hanno potuto dire che l’uomo vive in un mondo di illusioni. L’uomo conosce soltanto i fenomeni, il noumeno è un concetto limite.
Quest’ultima affermazione kantiana, proprio perché non ha nessun senso, è innocua e quindi la si può lasciare nella sua beata inconcludenza. È però una delle frasi più importanti che la filosofia occidentale abbia pronunciato. La cosa in sé non si può dire né che sia né che non sia. Si può solo dire che l’uomo non conosce la cosa in sé, quindi il suo concetto è il limite della conoscenza umana. Molto più grossolani sono quei filosofi che parlano semplicemente di «mondo delle illusioni», dicendo che tutta la realtà è un’illusione. Dicono: la verità non esiste; e lo dicono con il compiacimento dei nonni che spaventano i bambini parlando loro dell’uomo nero. Che paura hanno i bambini! E che paura hanno gli uomini quando leggono su un testo massiccio, in un volume rilegato, che tutto è falso! Il primo pensiero che viene foro in mente è: «Mamma mia, questa bistecca che sto mangiando, forse, non è una bistecca, ma il sogno di una bistecca ed io sto sognando di mangiare una bistecca; o forse, potrebbe anche darsi che questa bistecca non sia una bistecca e io non stia mangiando una bistecca… ». L’unico consiglio da dare, a questo punto, è quello di non leggere mentre si sta mangiando, oltre a quello di non fumare, naturalmente. Il campo di presenza dell’uomo è, come abbiamo detto, il campo della espressione-esperienza. Pensieri e desideri, tutto ciò che l’uomo ha e tutto ciò che non ha (e ciò che ha, se lo ha adesso lo ha avuto anche prima, almeno per un po’) sono continuamente sottoposti al progetto. Se il campo è una totalità, modificarne una parte significa ristrutturare tutto il campo.
Come ho già detto, essere è troppo poco per essere veramente.

Per essere bisogna anche avere, avere soprattutto una presenza, una presenta che si esprime: cioè che comunica. Se l’uomo tenta di modificare che ha avuto può darsi che sia un riappropriarsi, un avere riferito a ciò che è stato; ma che non è stato realmente, perché non è stato avuto. Ecco perché il meccanismo della previsione è impossibile: come l’uomo prevede contemporaneamente interviene e il campo è quindi scosso, ridimensionato, adattato. L’uomo ha allora qualcosa di diverso, spererebbe qualcosa di meglio; ma l’insoddisfazione è la sua più profonda soddisfazione: allora il desiderio ricomincia ad agire, l’uomo ricomincia a sentire la propria vitale instabilità e riprende a progettare.
Guida ancora l’automobile; deve rettificare l’andatura, muove i piedi prova piacere a premere i pedali, ruota leggermente il volante. Con una mano si allontana una ciocca di capelli che gli infastidisce l’occhio sinistro. Accelera per un sorpasso. Un camioncino di bibite; ha sete, immagina tanta aranciata frizzante. Sente le cosce sotto i pantaloni, contrae il ventre, gli viene un rutto, si sente più sgonfio. Muove la mano sinistra per grattarsi un orecchio. Guarda il suo vicino, gli sembra triste, non si decide a chiedergli se è vero. Gli prude l’inguine, immagina di togliersi i pantaloni, sistema meglio le natiche, premendo la schiena contro lo schienale: va meglio. Muove leggermente la mano sinistra perché sente un leggero formicolio al pollice. Gli dà fastidio una grinza sul calzone. Avrebbe voglia di mordere una guancia al suo vicino; sorride, si mordicchia il labbro superiore. Gli sembra che sia tardi, accelera. Speriamo che a casa li aspettino svegli. Ha fame. Accelera ancora. Guarda il vicino che gli sorride, è contento, risponde al suo sorriso. Quello che pisciava in strada visto di dietro, sembrava Giorgio; è sicuro di aver visto lo zampillo di orina. Si accorge di non aver mai odiato Giorgio. Non solo non lo odia più; ma è certo di non averlo mai odiato; d’altra parte gli era sempre rimasto il dubbio. Suo cugino, quando orinava aveva uno zampillo come quello di Giorgio. La finestra sul terrazzo sarà aperta. Rivolto al suo vicino: «Hai fame?». «Sì, ma mi piace andare in macchina».
Tutto questo continuo progettare, rendere illusorio il mondo dell’esistente, tiene molto lontana da me una concezione solipsistica e pure sono lontano dallo scetticismo gnoseologico. La prassi si realizza in una presenza e la presenza si reifica in una prassi. Certo ormai le distinzioni tra materialismo e idealismo, conoscenza oggettiva e conoscenza soggettiva, non sono soltanto vecchie; ma sono anche strumentalmente inutili. Quei vecchi strumenti di orientamento sono oggi abbastanza inefficaci. Spirito e materia, vero e falso, hanno acquistato nuove dimensioni. Io sono la mia presenza che si esprime, si smarrisce e si ritrova continuamente. Le pulsioni dell’uomo non «spingono l’uomo verso»: «sono» l’uomo. I desideri non «spingono l’uomo verso»: «sono» l’uomo.
La contrapposizione tra stato di veglia e stato di sonno è stata evidenziata, nella nostra cultura, non soltato dalla fisiologia, ma anche dall’arte figurativa dalla poesia e dalla filosofia. In piccolissima parte a causa della esteriore somiglianza fra le due positure, si e spesso paragonato il sonno alla morte: «Guardalo! Sembra che dorma». Si dice di quasi tutti i morti. Ho detto in piccolissima parte per la positura, poiché penso che si sia usata questa somiglianza per negare una volta di più la morte come tale. Non mi interessa tanto mette in evidenza quanto per il senso comune il sonno venga considerato somiglianza alla morte, quanto come per tutti la morte assomigli al sonno.
La morte è chiamata «il sonno eterno». Non si capisce proprio perché il morto dovrebbe dormire se non lo si spiega con un ulteriore gioco fantastico che permette all’uomo di dire a se stesso: «Se chi dorme non è morto; ma chi è morto dorme ecco allora che chi e morto non è morto». La paura della morte viene così in parte esorcizzata con un inconsapevole, ma efficace, meccanismo sillogistico. Il modo di essere della morte diviene così uno dei tanti modi di continuare a vivere. In realtà la morte è quanto di più diverso dal sonno si possa immaginare. O, forse, la morte non è diversa né simile al sonno: la morte non è, e basta.
Il sonno, comunque, è una situazione quanto mai vitale: la contrapposizione veglia sonno è assurda come la contrapposizione vita-morte che come abbiamo visto è negata dalla psiche umana non appena si pone. La veglia è il contrario del sonno, la vita è il contrario della morte; ma la morte non è il contrario della vita, che è un modo di dormire, è un modo di essere, è un modo di avere. Che poi la morte accada è un altro discorso.
Il sonno è un momento quanto mai ricco di vita. Certo, le tensioni si spostano, tutto sembra rallentare, il fisico sembra rallentare il suo ritmo vitale e anche questo è, in parte, vero; ma è quanto mai scorretto pensare al sonno come a una situazione dell’organismo e della psiche unitaria e monolitica.
Il sonno come la veglia, e forse ancor più della veglia, vive situazioni psichiche diversissime. La soglia della percettività (al contrario di quello che dicono i manualetti scolastici che parlano del sonno) non è per nulla alzata: la percettività si sposta.

Già gli studiosi classici del sonno avevano osservato che le percezioni interne degli stimoli organici sono addirittura dilatate: stimoli e piccole sensazioni, movimenti degli organi che in stato di veglia sarebbero assolutamente impercepibili, vengono dilatati e colti con estrema precisione, anche se talvolta trasformati in sogno. Alcune esperienze mie personali mi portano ad affermare che anche stimoli provenienti dell’esterno vengono captati con estrema precisione durante il sonno. È pur vero che la soglia sensoriale si è alzata; ma certi stimoli, soprattutto se possono avere eco psichica per il dormiente, vedono la soglia percettiva addirittura abbassarsi nei loro confronti durante il sonno. È persin troppo noto l’esempio della capacità delle madri addormentate di cogliere anche i più impercettibili rumori prodotti dal figlioletto. Ritengo, ad esempio, che la sensibilità telepatica sia molto più sviluppata durante il sonno che nella veglia. Sarà interessante in altra sede e in altro momento esporre con precisione i risultati di ricerche da me fatte sui modi di essere nel mondo e di reagire tipici del dormiente. Qui basti dire che la vita psico-fisica del dormiente è ricca e varia, piena di momenti estremamente dinamici e, a volte, drammatici; ben lontana da ogni inerzia e impermeabilità agli stimoli.
L’arte e la filosofia, soprattutto, hanno amato la contrapposizione tra sogno e realtà. Cartesio ha usato l’affinità tra le sensazioni del sogno con quelle della veglia per avvalorare la sua sfiducia nella conoscenza sensibile; ma per potersi svegliare ha dovuto tirare in ballo il Dio della scolastica e della prova ontologica. Nella stessa epoca, Calderon de la Barca si tuffa in una deliziosa difesa della fantasia, sostenendo che «la vita è sogno».
Per molti, il momento del sogno è il momento della pura assurdità, da contrapporre alla veglia dominata dalla coscienza e dalla realtà. Io penso che, in effetti, il linguaggio dei sogni e il linguaggio della veglia non siano dissimili; anzi, sono assolutamente identici. Vi è sempre una pluralità di lingue che si stratificano per permettere all’uomo-desiderio di esprimersi. Potremmo con simpatica bizzarria barocca far l’occhiolino a Calderon e dire che non «la vita è sogno», ma bensì «il sogno è vita». Cioè: in effetti non si sogna mai, ma si vive sempre. Lì per lì sembrerebbe che con ciò io abbia detto esattamente la stessa cosa che ha detto lo spagnolo o che dicono i deliranti sostenitori a oltranza della vita come fantasia. Invece, io non penso così; penso che il sogno abbia diritto alla sua concretezza di momento della vita e dell’esperienza. Pulsioni, desideri, lingue che si sovrappongono sono una realtà tanto della veglia quanto del sogno. Talvolta la «realtà» è più fantastica del sogno e il sogno è più concreto e ricco di esperienza di certe fantasie della veglia. Per poterci muovere e dirigere da svegli abbiamo bisogno, forse ancor più che nel sogno, di amalgamare le stratificazioni delle nostre percezioni, dei nostri desideri e dei linguaggi diversi che sono presenti in ogni nostro gesto. Se ci fermiamo ad osservare anche un solo istante del nostro modo di essere al mondo da svegli ci accorgiamo che possiamo interpretarlo con gli stessi meccanismi con cui interpretiamo un sogno. Ogni parola che l’uomo dice porta con sé anche l’immaginazione fantastica; una pluralità di suoni, movimenti, odori, che hanno un significato diverso e nello stesso tempo omogeneo. Già i teorici classici del sogno avevano parlato di sogni ad occhi aperti come momenti squisitamente onirici; avevano parlato anche delle immagini ipnagogiche (cioè di quei sogni a cavallo tra la veglia e il sonno): non è una novità che il sogno è presente nella veglia come la veglia è presente nel sogno. Gli stessi strumenti che servono per interpretare gli uni servono anche per gli altri; questo perché i meccanismi che costruiscono i sogni costruiscono anche la veglia, e viceversa.
Un lapsus, un atto mancato, mettono in atto un meccanismo di lavoro inconscio simile a quello che produce il sogno. Analisi di questi piccoli disturbi del comportamento sono state fatte con attenzione nella letteratura psicoanalitica. Non solo; ogni espressione, anche la più adeguata è frutto dello stesso lavorio psichico.
Non voglio dire solo che ogni azione e comportamento umano hanno motivazioni inconsce, questa sarebbe una ovvia banalità inserita in un discorso psicoanalitico; ma affermo che ogni gesto ed espressione si compongono di una serie di elementi: sono il risultato anche di una deformazione mirante ad esprimere molto di più di quanto il gesto apparente non voglia; ogni espressione ha spesso in sé anche il proprio contrario, condensa altre espressioni. Molti significati sono spostati nei confronti dell’apparente centro dell’espressione, dell’apparente motivazione.
È impossibile portare alle labbra un bicchiere di vino soltanto per realizzare il desiderio di bere il vino; può succedere qualche, volta che questo non sia neppure il desiderio principale. Chi porta la mano che regge il bicchiere alla bocca costruisce una immagine significante, plurintenzionale. Colui che compie questo gesto mentre si esprime è contemporaneamente spettatore del gesto e come spettatore lo modifica, perché ha altre esigenze come spettatore, diverse dalle sue esigenze di attore.

Quel gesto è un segnale che è anche un simbolo, esprime un modo di essere che è un voler essere e anche un non voler essere. Un gesto può essere pienamente adeguato alla situazione; per esempio: il vino può benissimo arrivare alla bocca ed essere bevuto; non necessariamente il bordo del bicchiere deve urtare contro il mento e rovesciare il contenuto sul petto. Eppure anche nel primo caso ci può essere un rifiuto di bere il vino e nello stesso gesto si possono esprimere, condensate, altre tre intenzioni di cui la sorsata di vino non è che la copertura.
Si può concludere che ogni gesto è sempre anche un lapsus, un atto mancato, e quindi non può mai essere considerato adeguato allo scopo; anzi: non è mai adeguato al suo scopo più apparente o più immediato.
Ogni espressione della veglia ha perciò una pluralità di significati che si sovrappongono e si condensano, originati da una pluralità di pensieri e desideri, inconsci e consci, che tentano di esprimersi con linguaggi, spesso, diversi. Ogni singolo gesto esprime non soltanto il momento esistenziale ed esperienziale in cui si manifesta; ma presenta anche un riepilogo di pensieri e desideri molto lontani.
L’estetica espressionista ha tentato di isolare un gesto esasperandolo, cercando di caricarlo di significati molteplici ed emblematici. Per l’espressionismo, una persona, una situazione, trovano la loro migliore e pregnante manifestazione in un gesto, ritagliato dallo sfondo di altri gesti, quasi presentato su un cuscino di velluto. In piccola parte, accetto questa esaltazione del gesto; ma la trovo nello stesso tempo riduttiva. Quello che a me preme mettere in evidenza non è tanto la pregnanza dei singoli gesti espressivi, ma il loro carattere di produzione di lavoro inconscio, che mette capo ad un prodotto poli-espressivo, spesso contraddittorio. Spero che non si creda che io stia parlando del puro e semplice «acting out», cioè dell’inserzione improvvisa del rimosso, che, sopraffacendo l’espressione verbale, costringe l’individuo a compiere un atto quasi inconsapevolmente, per esprimere un proprio pensiero o ricordo inconsci. L’adeguato, preciso e consapevole gesto di un maturo chirurgo che affonda il bisturi, può comportare la risposta ad esigenze che non hanno nulla a che vedere con lo scopo terapeutico. Può tentare di comunicare anche bisogni lontani, pensieri infantili, desideri aggressivi o auto- punitivi, etc.
Se le espressioni della veglia e quelle oniriche si equivalgono, nel risultato, nelle motivazioni e negli elementi che le compongono, dove sta la differenza? La differenza esiste; anche se, come ho tentato di dire, non è facile da determinare. La differenza più grande è data dalla maggior compenetrabilità ed evidenza delle stratificazioni oniriche nei confronti di quelle della veglia. Nel sogno, i singoli elementi linguistici si affollano, si sovrappongono nel tentativo di manifestarsi e, proprio come in una lotta in cui le forze sono abbastanza equivalenti, il risultato presenta la pluralità degli elementi in modo più chiaro. I pensieri e i desideri del presente sono costretti a condividere la scena con quelli più remoti e rimossi.
Il sogno va alla ricerca di una coerenza almeno in parte diversa da quella cui noi sottoponiamo le espressioni della veglia. Le pulsioni e i linguaggi che si sovrappongono nella veglia debbono fare i conti con un’attenzione che si impone una direzionalità: si agisce anche in vista dello scopo consapevolmente prefisso e che, almeno qualche volta, deve essere realizzato. Per tornare all’immagine di prima: il bicchiere deve anche raggiungere le labbra, il vino deve anche essere bevuto.
Se nell’azione cosciente allo stato di veglia converge la somma di tutte le esigenze che la compongono; ci si accorgerà, però, spesso, che il suo fine palese non è quantitativamente e qualitativamente il più importante, anche se è quello in cui si concluderà l’azione.
Un gesto, un’espressione, tentano di realizzare desideri diversissimi. Anche qui, come nel sogno, si affollano bisogni e pulsioni che hanno bisogno di scarica. Di qui deriva, talvolta, l’ostinazione eccessiva con la quale si persegue un fine apparentemente insignificante: non è la conclusione del gesto che interessa, ma ciò che, con il pretesto di quel gesto, riusciamo ad esprimere. Ciò vale per il capriccio del bambino come per il gesto del bottegaio, per l’impresa sportiva come per la benedizione che il sacerdote impartisce. Di qui deriva anche il più di angoscia di cui vengono caricate molte piccole azioni.
Lo scopo apparente è più che lecito, i gesti per realizzarlo sono consueti e quotidiani, però, nel momento in cui il rituale si compie, l’angoscia sale; sembra eccessiva, qualche volta la coscienza ha la sensazione di una catastrofe vicina, quel povero, piccolo gesto acquista un colorito innegabilmente cupo. Questo non vale soltanto per le coazioni ossessive; ma può valere anche per ogni gesto.
I desideri rimossi che si appropriano del gesto per scaricarsi provocano quel sentimento angoscioso, in parte, per due ragioni: la prima ragione è l’inganno che noi sappiamo di star giocando a noi stessi: l’ingannare sé o gli altri provoca sempre un po’ di angoscia; la seconda ragione, più profonda, deriva dalla natura stessa del desiderio che è costretto a scaricare di soppiatto la sua componente di desiderio ignobile rifiutato dalla coscienza morale. Il genitore che aggredisce fisicamente il figlio e indugia con le mani, ancor più del  necessario, su quelle carni, dice a se stesso di punire suo malgrado e per il bene del figlio, soggiungendo con aria compunta: «Queste botte fan più male a me che a lui». Lo stesso genitore non riuscirebbe a vivere consapevolmente il piacere sadico provato sul corpo del figlio e l’eroticità del contatto epidermico; non riuscirebbe ad accettare l’idea che quella punizione vuole realizzare più un desiderio incestuoso che un principio di giustizia. Ecco allora verificarsi il conflitto interiore per il bisogno di punirsi di quel piacere illecito: l’angoscia si presenta riparatrice ed offuscamente di possibili chiarezze.
Le paure che ci assalgono durante il compimento di un’azione consueta non sono soltanto proprie dei fobici e degli ipocondriaci; nessuno è riuscito a strutturare la gerarchia delle proprie paure in modo totalmente coerente con ciò che consapevolmente sostiene. Anche la persona più spregiudicata e temeraria ha più paura di certi gesti che di altri, senza apparente giustificazione logica. Egli si affretterà a razionalizzare la gerarchia delle sue piccole paure, ci spiegherà perché ha più paura di una cosa che di un’altra; ma questa scala di valori non reggerà, o meglio: non reggeranno le giustificazioni se le sottoporremo ad una analisi ed osservazione accurate.
I gesti si caricano non soltanto di angosce e di paure derivanti loro da motivazioni inconsapevoli, ma acquistano, anche, coloriti emozionali euforici ed allegri, derivanti da ragioni analoghe ed opposte. Tutte le azioni umane racchiudono stranezze di tipo onirico; sembrano meno appariscenti e più controllate; però, scisse nei loro componenti ed osservate al microscopio, risulteranno ugualmente assurde. I gesti, spesso, compiono parabole stravaganti, prima di raggiungere lo scopo, se lo raggiungono. In moltissimi gesti sono presenti elementi che addirittura li contraddicono: mentre cerchiamo di raggiungere una meta il nostro comportamento è tale da inibirci il risultato. Ecco allora le indecisioni in gesti che dovrebbero essere decisi: schiaffi che accarezzano, baci che mordono, e così via. Tutti questi singoli elementi sono scomponibili ed osservabili. Anche per questo non esistono due persone uguali e la stessa persona non riesce a compiere due volte lo stesso gesto nell’identico modo. L’essere vivente si realizza nella ricchezza della propria contraddittorietà.
Ricchezza di elementi, contraddittorietà, sono anche caratteristiche dei sogni.
Nella veglia e nel sonno, l’uomo si rivolge a se stesso e agli altri attraverso tante lingue o formule espressive. Queste formule espressive non sono altro che il continuo tentativo di realizzare il desiderio. Desiderare e vivere sono, secondo me, la stessa cosa. Il desiderio e la vita sono molto complessi, variopinti e articolati. La vita si dirama in una pluralità aggrovigliata di desideri. I desideri si scontrano, si fondono e divengono: la vita.
Il sogno, appunto, permette alla vita di rappresentare sé a se stessa con uno spettacolo il più possibile immediato ed efficace. La vita pensa se stessa nei sogni; ma quanti bisogni e quanti desideri noi troviamo nei nostri sogni! Se la vita e il desiderio si esprimono nel sogno e se il sogno rappresenta la vita in un modo più immediato e diretto che la veglia, si potrebbe dedurre che l’essere umano nella sua più schietta natura non è altro che un cumulo di desideri; vitali sì, ma, per lo più, terribili e inconfessabili. Ancor meglio, si potrebbe dire che l’essere umano è soprattutto, o forse soltanto, desiderio. Il desiderio sorge da un bisogno che è sempre il bisogno di un singolo; il desiderio risulta allora essere il desiderio di un singolo e, quindi, sempre egoismo.
A questo punto, le considerazioni si affollano, vorrebbero trovare espressione tutte in una volta; mi è abbastanza difficile dar loro una organizzazione e un ordine di precedenza. Cercherò di dipanarle nel modo più semplice che mi sarà possibile. Le considerazioni che mi si sono presentate subito e contemporaneamente alla mente sono due. La prima: che l’egoismo è un termine che esprime un atteggiamento di arida chiusura verso gli altri ed è contrapposto all’altruismo, visto come atteggiamento di apertura feconda. La seconda: che il desiderio, pur vivendo sempre nel singolo, non per questo deve coincidere con l’egoismo.

A proposito della prima considerazione, voglio dire che questa contrapposizione e di egoismo-altruismo è il frutto di una cultura e di un atteggiamento che, mentre da un lato esaltano cristianamente l’altruismo, condannano l’egoismo, dall’altro ritengono l’egoismo, da un punto di vista biologico ed economico, l’unica molla dell’essere umano.
Questa è la profonda schizofrenia della nostra cultura. La nostra società ha, inoltre, bisogno di esaltarsi esaltando l’abnegazione e la bontà, mentre, contemporaneamente, vive di un egoismo che non è soltanto ricerca del piacere; ma è soprattutto paura e rifiuto di una buona parte di piaceri, propri e altrui. La bontà e l’egoismo sono visti soprattutto come sofferenza, rinuncia e auto-castrazione. I piaceri sono visti con diffidenza: debbono essere controllati e controllabili: guai se sfuggono di mano! Si ha molta paura di confessare che si sta godendo, un po’ perché si farebbe brutta figura, un po’ perché immediatamente sorge dall’interno un’oscura paura della punizione. In realtà, non è l’egoismo, in generale, ad essere l’unica molla della vita; ma è un egoismo specifico: chiuso, rattrappito e diffidente. Questa situazione è la causa principale che conduce ed educa gli esseri umani alla cattiva coscienza; a provare in sé quell’egoismo rancido ed ottuso che ha timore del piacere e del godimento. Nello stesso tempo dagli altari, dalle cattedre e dai buoni libri piovono esortazioni alla bontà e alla abnegazione.
Posso ora passare, senza fare un salto troppo brusco, a fare alcune osservazioni sulla mia seconda considerazione. Abbiamo visto come l’egoismo sia un modo particolare di vivere il sé, ed anche un modo particolare di vivere i propri desideri. L’egoismo è, quindi, soprattutto frutto della diffidenza. Diffidenza talvolta giustificata in una società di diffidenti. Non ho nessuna intenzione di esortare ad offrirsi moralmente e psichicamente nudi ed ingenui ad una società di persone armate e sospettose: sarebbe improduttivo, poco divertente e pericoloso. La lotta e la diffidenza hanno anche un loro aspetto affascinante; divengono pericolose, e anche noiose, quando sono le uniche categorie di vita.
Secondo me, l’egoismo non coincide con il desiderio individuale: è un modo di vivere alcuni desideri. I bisogni umani, e quindi i desideri, sono, per fortuna, molto più ricchi. Non mi piace contrapporre l’egoismo all’altruismo; preferisco ricercare in me e negli altri i bisogni e i desideri tentando di non avere paura di quelli imbarazzanti.
A questo punto sono giunto ad una stretta che mi è difficile sciogliere: o dico, come un bell’eroe tardo- romantico, che bisogna esaltare ed accettare tutti i bisogni e vivere tutti i desideri, o mi contraddico, dicendo che alcuni bisogni e alcuni desideri non mi stanno bene e quindi non li accetto (si capisce però che non li voglio perché non li desidero). Io, noi, sono, siamo frutto di una situazione che ci ha preceduti. Altri prima di me, di noi, hanno vissuto e desiderato; io sono, noi siamo il risultato di questi desideri. Perciò questi desideri non solo determinano questo modo di vita, ma sono anche questa vita: la vita che c’è, o meglio: le cose che questa-vita-che-c’è ha.
Il proliferare dei bisogni continua, come pure continuano i desideri. Orientarsi in questa selva di bisogni e desideri avendo come molla e direttrice un gruppo di bisogni e di desideri può essere abbastanza stravagante. Forse è strano soltanto secondo uno dei linguaggi possibili, che però si compiace nell’esprimere questa stravaganza. Nuovamente i giochi di parole potrebbero essere moltissimi e molto fioriti, una altalena di contraddizioni, non del tutto inutile; ma che a questo punto stancherebbe.
Col mio desiderio, quindi, guido i miei desideri. Questa affermazione è ricca di possibilità, spero che esprimerla così, sotto forma di sentenza, non la impoverisca, ma che la carichi retoricamente di significati.
Sta di fatto che non tutti i bisogni e desideri sono accettabili. Progredire esistenzialmente e politicamente vuole anche dire rifiutare alcuni bisogni e alcuni desideri, che risultano a loro volta inaccettabili a causa delle esigenze di altri bisogni e altri desideri.
È importante, però, sforzarsi di tentare la strada della realizzazione di tutti i desideri, almeno buttarci uno sguardo. L’aggettivo «tutti» è certamente esagerato, ma non voglio sostituirlo per attenuarne la forza; mi parrebbe di castrare, se pur solo in astratto, l’avventura dei desideri e della loro scoperta.
I bisogni ci sono e si esprimono attraverso i desideri. Vivere, come ho già detto, vuol dire anche avere e conoscere i bisogni, avere e conoscere i desideri.
Questo continuo ristrutturare il campo delle nostre possibilità ed esperienze, per esprimere bisogni e desideri, non è altro che la continua ed ineliminabile ricerca del piacere. Tutte le nostre espressioni-esperienze tentano di realizzarsi seguendo il principio di piacere come principale, e forse unico, modo di essere. Il piacere è un concetto così onnicomprensivo che, se non fosse espressione di qualcosa che ci sentiamo sotto la pelle con immediatezza, sarebbe quasi inesprimibile.. Ciò che viene sentito come piacere parrebbe qualcosa di originario, di primitivo, di assolutamente spontaneo; ma non è così.
Il piacere e il bisogno del piacere sono ineliminabili. Però, il piacere è sempre «questo» o «quel» piacere, in seguito ad un processo evolutivo e storico.
I condizionamenti producono i piaceri e i piaceri controllano i condizionamenti. Il piacere non è spontaneo, il piacere è. La sua ineliminabilità non ha niente a che fare con la sua spontaneità. Credo che sia assolutamente inutile tentare di determinare se siano nati prima i condizionamenti oppure i piaceri. Bisogni, desideri e piaceri sono frutto di una realtà storica. Sono il dato di un momento del divenire del vivere umano. È facile e stupido perdere tempo per dire le solite frasi intorno al relativismo e al soggettivismo del piacere.
Il piacere, come il desiderio, ha sempre fatto paura. La nostra cultura ha coniato un termine: «edonismo», per marchiare quel modo di vivere che ha il piacere come sua unica guida. Gli edonisti sono persone guardate con diffidenza e disprezzo, come se fossero persone intente solo alla ricerca del proprio piacere egoistico. Edonista coincide con egoista. Forse l’edonista è considerato un egoista che sa vivere il proprio egoismo con eleganza; ma, sotto, sotto, è giudicato arido e sterile come tutti gli egoisti. Questo secondo la nostra cultura, che ha paura del piacere, o meglio, che non vuole confessare a se stessa di esistere soltanto per il piacere. Allora preferisce chiamare molti piaceri con un altro nome, credendo con questo di sfuggire al dominio del principio di piacere. È molto importante continuare a sostenere la sacralità del piacere. Bisogna liberarlo dalla schiavitù dell’egoismo. Piacere, egoismo, distruttività, non sono equivalenti: il piacere è sacro
e come tale va rispettato.
È compito di una nuova filosofia dell’uomo chiarire questo concetto. Forse è compito dell’uomo chiarire questo concetto alla filosofia. Chi se ne frega se Hegel sogghigna di piacere?
La ricerca del piacere non è più distruttiva ed egoistica di quanto lo siano la fuga dal dolore, l’abnegazione e l’altruismo.
Nel piacere è presente tutta la ricchezza della vita.
Al tempo presente però il piacere è troppo mescolato con l’egoismo e con la distruttività: secoli di educazione all’egoismo non si possono distruggere né con la filosofia, né con la psicoanalisi; forse non si distruggeranno più. Lo sforzo di liberare il piacere deve essere una esigenza costante. Attualmente il piacere porta con sé anche contraddizioni e paure che si rivelano non soltanto nell’assurdità dei gesti della veglia; ma anche nelle fantasiose costruzioni oniriche.
Sono tornato a parlare del sogno come espressione del desiderio e, quindi, come l’ennesimo tentativo dell’esistenza umana di vivere il piacere.
Il piacere, anche nel sogno, non si può manifestare direttamente e scopertamente; anzi, molti sogni, come tutti sanno, sembrano a volte contraddire il principio dell’immediata ricerca del piacere. L’ho già detto: ogni sogno tenta vie diverse e linguaggi molteplici, cercando di far vivere i desideri. Sotto questo aspetto, si possono distinguere tre tipi di sogno: a) sogni immediati di desiderio; b) sogni di angoscia; c) sogni di esorcismo.
I sogni immediati di desiderio, pur nella loro polidirezionalità, sono quei sogni che hanno un colorito piacevole e realizzano in modo manifesto un desiderio. Una giovane donna racconta:
«In quei giorni avrei dovuto presentarmi per essere assunta in un nuovo posto di lavoro. Per me era molto importante perché, se tutto fosse andato bene, sarei riuscita a sistemarmi definitivamente anche sotto l’aspetto economico e avrei potuto andarmene di casa. Ho sognato che ero molto allegra: mi trovavo in riva al mare, su di una spiaggia molto luminosa; ero in piedi sotto un ombrellone e tentavo, con un po’ di fatica, di togliermi di dosso una giacca da uomo pesante e scura. Raccontavo a qualcuno, non so a chi, che ero così contenta perché ero stata assunta. Il lavoro era molto interessante e molto più pagato di quanto non pensassi. Mi colse un brivido di freddo, ma molto piacevole, se pure un po’ angoscioso, quando improvvisamente mi trovai senza quella giacca pesante. Tutto intorno a me era allegro ed io mi sentivo a mio agio».
La realizzazione immediata del desiderio è evidente: in quei giorni di incertezza per il nuovo lavoro la donna sogna che tutto sia già risolto secondo i suoi desideri; è stata assunta, il lavoro è interessante e ben pagato. La spiaggia le ricorda quella del paese di mare delle sue villeggiature infantili. Ricorda le sgridate del padre che non la lasciava allontanare dall’ombrellone e le limitava il sole e l’acqua, perché in quei tempi la sua salute era abbastanza delicata. Riconosce con certezza in quella giacca pesante e scura una vecchia giacca di suo padre. Trovare lavoro vuole anche dire emanciparsi dalla famiglia e dalla sudditanza al padre (la donna, non più giovanissima, sente i genitori come un peso insostenibile). Ecco il piacere un po’ angoscioso nel liberarsi di quella giacca, gesto che è anche però un denudarsi e quindi un esibirsi. Il sogno ha comunque tutto un colorito piacevole per il gradevole senso di esibizione e di liberazione che allo stato di veglia era solo una speranza.
I sogni di angoscia nascondono, come sappiamo, desideri rifiutati o conflittuali, che perciò, nel manifestarsi, procurano angoscia. La stratificazione e la condensazione onirica servono a rendere il sogno oscuro per la razionalità vigile; ma il sogno, nel momento in cui si manifesta, conosce bene i propri desideri. Una ragazza racconta:
«Mi trovo di fronte ad un grande tavolo, veramente sproporzionato; su questo tavolo c’è ma grande bacinella azzurra, io voglio vedere che cosa contiene, avvicino una sedia al tavolo, vi salgo su, e mi trovo a guardare un liquido biancastro. Ho in mano una forma di materia indefinibile, viscida e disgustosa, immergo la mano e questa cosa nel liquido. La sensazione è orribile; la “cosa” sembra via, came se fosse un polipo o un pesce. Sto malissimo e mi sveglio terrorizzata».
La sognatrice, pur sostenendo di avere nel sogno la sua età in realtà, ha vissuto oniricamente una situazione infantile: i mobili smisurati, il gesto di salire ai di una sedia per riuscire a vedere sul tavolo. Con una certa ansia ricorda di dove proviene il catino azzurro: è il catino in cui vedeva immergere il fratellino al momento del bagno. La «cosa» o pesce che ha tra le dita le ricorda un grande pesce di gomma con il fischietto, gioco preferito dal fratellino. Non è difficile far affiorare alcuni desideri rifiutati che procurano angoscia: da bambina la sognatrice ha desiderato annegare il fratellino che vedeva nell’acqua, ed ha anche desiderato toccargli i genitali, sia per strapparglieli che per masturbarlo. L’aggressività e i desideri erotici verso il fratello non hanno solo tormentato la sognatrice da bambina; ma sono uno dei suoi grossi problemi attuali. L’angoscia di fronte a questi desideri è più che comprensibile.
Il terzo tipo di sogni è quello che io ho chiamato di esorcismo. In questi sogni viene rivissuto un evento traumatico e angoscioso, spesso si tratta di sogni ricorrenti. L’evento sgradevole si presenta nuovamente alla psiche, che tenta di appropriarsene, immaginando, allucinatoriamente, di dominarlo meglio di quanto in realtà non sia accaduto. L’evento sognato è in realtà sgradevole; ma il sognatore, risognandolo se ne appropria: non ne è più vittima passiva. Il fatto stesso che è lui a riprodurre l’avvenimento, nel sogno, gli permette, in un certo senso, di controllarlo, di esorcizzarlo. Questo vale anche per qualche sogno in cui si presentano esperienze dolorose di cui si ha timore, anche se, in realtà, non sono mai accadute. Questo è più che mai un esorcismo: rappresentare l’avvenimento significa dominarlo, renderlo famigliare e quindi innocuo. Un uomo racconta:
«Dieci anni fa, circa, vissi una terribile esperienza di naufragio su di una piccola imbarcazione; quell’esperienza ritorna ancora nei sogni. È terribile ed angosciosa. Sogno gli avvenimenti come sono realmente avvenuti, anche se ho l’impressione che ogni volta vi sia qualcosa di diverso. Qualche notte fa, ad esempio, il sogno terribile è ritornato: gli elementi fondamentali erano gli stessi; però mi pare che ci fosse un nuovo elemento: il tentativo di arrampicarmi sulle spalle di un mio compagno di disavventura, per raggiungere qualcosa che si trovava in alto. Ogni volta il sogno si conclude con il mio risveglio: sono seduto ed ho il cuore in gola, accendo la luce, mi guardo intorno con un piacevolissimo senso di liberazione. Sono contento di trovarmi nella mia camera, nel mio letto, al sicuro… ».
Ho fatto l’esempio di questo sogno perché, secondo me, prova come i sogni siano spesso strettamente intrecciati alla veglia. Il gioco piacevole che viene messo in atto, in questo caso, è quello di riprovare lo spavento per godere immediatamente del risveglio e della sicurezza ritrovata. Qui viene realizzato il pensiero di molte situazioni tristi: «Come vorrei che fosse un sogno!». È persino probabile che l’uomo durante la terribile esperienza abbia proprio pensato questo ed ora realizzi il suo desiderio, sentendosi così onnipotente. Si può notare anche la presenza di un desiderio omosessuale: salire sulle spalle del compagno; che potrebbe aggiungere angoscia all’angoscia. Desideri omosessuali che potrebbero essere sorti violentemente durante l’esperienza del naufragio in cui un gruppetto di individui, tutti maschi, si trovò molto unito emotivamente e fisicamente, nello sforzo verso la salvezza.
Come balza evidente, in tutti i tre sogni che ho presentato sono presenti, oltre all’elemento caratteristico proprio di ciascun tipo di sogno, anche gli elementi degli altri due tipi. Il sogno, come il pensiero vigile, è una sintesi di pensieri. Probabilmente il sogno non si snoda mai così come viene ricordato e raccontato; al contrario, esso è molto verosimilmente una catasta di immagini, parole, suoni compresenti e polidiretti, che cerca un suo ordine fin dal suo primo ripresentarsi alla memoria. Catasta di elementi che traboccano dal sogno per confondersi e fondersi con il mucchio di immagini, gesti e parole della veglia.
La stranezza del linguaggio onirico e la sua fantasiosa ricchezza possono far pensare che il sogno sia il regno della libertà e della spontaneità. Si potrebbe credere che l’essere umano, condizionato dalla coscienza vigile e dalle convenzioni, ritorni libero nel momento in cui, sognando, i desideri si scatenano esprimendosi in innumerevoli pensieri e linguaggi. Questa convinzione è, però, quanto mai ingenua. Non esiste nell’uomo il luogo privilegiato della spontaneità; proprio come sulla terra non esiste il luogo in cui vivono uomini selvaggi, spontanei e felici. Gli illuministi hanno inventato il mito del buon selvaggio e uno sciocco pedagogismo pseudopoetico ha esaltato il sogno come il luogo in cui l’emotività si scatena felice, senza limiti e pastoie.

Il sogno è schiavo, come il sognatore, di ciò che l’essere umano è ed ha. La non spontaneità del sogno non si rivela soltanto nel camuffamento dei desideri; la sua non spontaneità comincia nel momento stesso in cui il sogno tenta di esprimersi.
Io, sognatore, parlo di ciò che so con i linguaggi che posseggo. Posso dire soltanto quello che mi hanno condizionato a dire; nel sogno non sono più aggressivo che nella veglia: lo sono solo in modo diverso. Non sono più ipocrita, non sono più sincero, non sono più buono. Forse sono, mio malgrado, un po’ più sincero. Mio malgrado, perché la trasparenza dei sogni non è voluta né dal sogno né dal sognatore. Nel sogno io proseguo le mie esperienze e il mio desiderio di esprimermi. Ho forse un leggero spostamento di prospettiva, controllo meno alcune cose; ma di più altre. Forse l’unica libertà data all’uomo è la possibilità di essere un po’ più sincero e di guardare un po’ meglio in faccia i propri desideri. Non mi interessa affrontare il problema del libero arbitrio: forse questo è il problema più inutile che abbia inventato l’uomo. Ammesso che esistano problemi inutili.

Psicoanalisi contro n. 1 – Intorno al sogno (1^parte)

mercoledì, 1 novembre 1978

Non intendo affrontare il problema del sogno in modo sistematico e organico. Non intendo neppure esporre le principali teorie sul sogno che si sono avvicendate nella storia della nostra cultura. Vorrei solo fare alcune considerazioni, stimolato dal mio giornaliero lavoro sui sogni altrui e anche sui miei.
Il sogno ha affascinato gli uomini da sempre per la sua presenza inquietante e misteriosa. Non esistono persone che non sognino, non esistono persone che non siano state turbate almeno, una volta nella vita, da un sogno. Nell’arco della giornata ognuno di noi vive, ricordandola o no, l’esperienza di parecchi sogni. Nell’antichità gli interpreti dei sogni erano persone specializzate e circondate da considerazione e rispetto. Parallelamente alla concezione che vede nel sogno qualche cosa di misterioso e di soprannaturale, si è venuta sviluppando quella che considera i sogni costruzioni strampalate della mente che nel momento del rilassamento si lascia sfuggire brandelli di pensiero e di immagini senza nesso e organizzazione; ingenui e confusi aborti della sua attività vigile.
Gli studi sulla fisiologia del sonno e dei sogni non hanno ampliato molto le conoscenze sul primo e sui secondi. Forse è stato abbastanza importante, ma talvolta penso possa valere come semplice curiosità, aver scoperto le due fasi del sonno: il sonno profondo e il sonno paradossale; divisione in base alla quale si distingue una fase del sonno senza sogni da un’altra fase (detta «rem» = rapid eyes mouvement) in cui i sogni si presentano. La natura misteriosa, bizzarra, poetica del sogno non si è ancora lasciata imprigionare dagli schemi fisiologici.
Il lavoro di analisi della psiche usa il sogno come suo materiale privilegiato: non importa a quale scuola appartenga lo psicologo che vi mette mano. A molti psicoanalisti, forse a tutti, penso sia venuto in un momento della loro vita professionale, il sospetto di star lavorando su qualcosa di incosistente o, ancor peggio, di star giocando con bolle di sapone.
I terapeuti, in genere, hanno la presunzione, che serve anche a dare sicurezza, di intervenire con strumenti concreti su qualcosa di concreto: analisi di laboratorio, corpi da palpare, sintomi fisici apparentemente oggettivi. Il paziente racconta le sue sensazioni fisiche ed espone la storia del loro sviluppo; il terapeuta, sempre sospettoso, osserva, ausculta, affonda le sue dita nei tessuti, sente la vita degli organi interni e poi affida quel corpo a strumenti meccanici che registrano la situazione dell’organismo e posseggono una sensibilità maggiore di quella dei sensi umani, anche se esercitati da lunghi anni di esperienza. Questo accade nel rapporto terapeutico che si propone la «cura» del corpo. Quando si affronta la «cura» della psiche è ovvio per chiunque che i sintomi siano meno precisi, le descrizioni più ambigue. Con poco successo la psicologia sperimentale tenta di fornire allo psicoterapeuta dati e parametri completi e non equivocabili.

La sensazione di lavorare su qualcosa di inconsistente, usando parametri equivoci, raggiunge il massimo grado quando si mettono le armi su di un sogno. Il racconto del sogno è spesso frammentario ed oscuro, il linguaggio verbale non riesce a riprodurre moltissime delle sensazioni oniriche. Il terapeuta si rende ben conto di queste difficoltà, non solo perché gliele comunica il paziente con frasi del tipo: « … sì, ma non è cosi… » « … è questo, ma non è proprio questo… » «non riesco più a dirlo, non perché non ricordi, ma perché mi mancano le parole»; ma anche perché ha vissuto direttamente l’esperienza coi propri sogni. Quando al mattino mi sveglio il mio sogno mi appare come una nebbia di sensazioni e di immagini, che ondeggia e svapora lentamente; le figure del sogno sono sovrapposte, le sensazioni attorcigliate le une alle altre. Quando mi racconto un sogno ho l’impressione di raccontarmi, quasi, un altro sogno.
Le parole sono come recipienti troppo piccoli: molto materiale trabocca e va perduto. Qualche volta perciò lo psicoanalista alla fine di una giornata trascorsa in buona parte a rovistare tra i variopinti stracci dei sogni ha talvolta l’angoscioso sospetto, che subito reprime, di non essere uno scienziato. A questo punto, per rassicurare qualche estimatore della psicoanalisi, ma soprattutto per rassicurare me stesso, potrei avventuararmi in una lunga disquisizione filosofico-politica con la quale aggredisco e tento di distruggere la figura stereotipa dello scienziato tradizionale, dimostrando come le sue certezze si basino su ipotesi precarie e confuse e le sue analisi di laboratorio siano troppo spesso imprecise e contraddittorie.
Ma questa è una strada che, al momento, non ho voglia di percorrere; mi viene solo di dire che, abbandonando un po’ di presunzione e qualche segno di identificazione infantile, lo psicoanalista può vivere in prima persona lo sforzo di incarnare la figura dello scienziato nuovo, problematico, auto-ironico, un po’ bluffatore e questo lo deve anche, in parte, al fatto che lavora con i sogni.
Il sogno ha essenzialmente la funzione di realizzare un desiderio. È un’affermazione questa che è diventata classica non solo della saggezza popolare, ma anche degli scienziati del sogno. Parallelamente alle argomentazioni che venivano portate per sostenere questa tesi sono
stati però fatti anche molti tentativi per contestare al sogno questa sua caratteristica.

Tutte le lingue occidentali usano la parola sogno per indicare anche qualcosa di meraviglioso e di desiderabile; ciò vuol dire che nella tradizione popolare è profondamente radicata la convinzione che nel sogno si manifestino desideri e si cerchi di realizzarli almeno fantasmaticamente. Il sogno è spesso contrapposto alla realtà, quindi una cosa di sogno è considerata spesso una cosa irrealizzabile, un desiderio assurdo; però non per questo il sogno perde la sua caratteristica di realizzazione fantastica di un desiderio, anzi esso esprime un desiderio quanto mai profondo, intimo, inconfessabile; come se uno dicesse a se stesso: «almeno in sogno… », e di tutto ciò la saggezza popolare è protondamente convinta. Però la tradizione popolare ha messo anche in atto una massiccia resistenza nei confronti di questa consapevolezza; perciò si è preferito immediatamente affiancare all’asserzione che nei sogni si manifestino i desideri quella che interpreta il sogno come l’inserzione nel quotidiano del soprannaturale e del metafisico. Ecco che i sogni furono visti, e sono visti tuttora, come messaggi premonitori: nel sogno entra la divinità per comunicare con gli uomini, per guidarli, ammonirli e minacciarli. Ecco che nei sogni entrano i demoni e le forze malefiche per turbare, angosciare e sviare. Ecco che nei sogni entrano le figure dei morti per consigliare guidare o fare richieste ai vivi.
Ovviamente su questa congerie di messaggi contrastanti e contraddittori è allignato subito un ricco commercio: alcune persone ricavano potere e denaro interpretando i sogni. Se il sogno acquisisce un carattere sacro, sacre saranno considerate anche le persone che ne comprendono i geroglifici. Il sogno perde la dimensione del temporale del quotidiano; il passato, il presente e il futuro si fondono e anche per questo il sogno guarda oltre la rigida struttura temporale della veglia. Non credo che aver attribuito al sogno anche quest’altra natura sia dovuto solo alla resistenza popolare nei confronti del sogno visto come realizzatore di desideri.

Penso che le caratteristiche formali del sogno che lo fanno essere un elemento misterioso ed inquietante abbiano fatto sorgere nell’uomo sia il desiderio di protezione dall’ignoto sia quello di utilizzarlo a scopi pratici di immediata utilità come la previsione del futuro. L’uomo ha sempre cercato protezione dall’ignoto: l’ignoto, l’indecifrabile lo turbano: è meglio una conoscenza errata di un messaggio indecifrabile. L’uomo ha sempre cercato anche di utilizzare tutto ciò che viene a trovarsi fra le sue mani o gli si para di fronte: il sogno, con la sua interpretabilità elastica, è un utile elemento da usare come un faro che rischiari un pochino in avanti, verso l’ignoto, la strada della vita: «Se il futuro ci parla nei sogni, non è poi così impenetrabile, oscuro». Questa razionalizzazione del sogno serve quindi a capovolgerne la natura: da misterioso, impreciso, inquietante, il sogno diviene protettivo. Questa razionalizzazione ha però, secondo me, soprattutto la funzione di negare, o meglio di difendere, gli uomini da ciò che la tradizione aveva intuito: cioè che i sogni manifestano dei desideri. Il sogno come desiderio è estremamente scomodo perché nonostante la simbolizzazione e la deformazione (anche questi, caratteri che servono a difenderci dalla consapevolezza del desiderio), ci fa intuire dentro di noi la presenza di pensieri e voglie, assolutamente rifiutati dalla ragione, che ci repellono e ci disturbano. Questo discorso vale non solo per il singolo, ma anche per la collettività: come si potrebbe tollerare nelle buone madri il desiderio di torturare o di concupire incestuosamente i figli? Nelle caste spose il desiderio di infilare la lingua nella vagina di un’attrice famosa? Come potrebbe la collettività tollerare che il sogno dell’eroe contenga un insulto alla bandiera o in quello del servo si celi il desiderio di decapitare il buon padrone? E’ preferibile leggere i sogni come oscuri messaggi dell’al di là o utili premonizioni per il futuro. Meglio consultare il vecchio saggio che dopo aver ascoltato il nostro sogno ci metterà in guardia contro un nemico bruno oppure ci suggerirà i numeri da giocare al lotto.
Nel lavoro onirico i desideri sono manipolati, mescolati, cammuffati, resi abbastanza innocui; ma quello che il lavoro onirico non riesce a fare ecco che lo fa l’interpretazione razionalizzatrice e pratica della cultura quotidiana.

Prima ho detto che l’essere umano è spaventato dall’ignoto e dall’indecifrabile, adesso affermo che ancor più paura gli fanno i propri desideri, che sorgono da un oscuro abisso di pulsioni indistricabili: abisso nel quale penso nessuno di noi abbia il coraggio di immergersi fino in fondo.
La nuova scienza dei sogni: la «psicoanalisi» ha iniziato affermando in modo perentorio che i sogni, oltre ad avere una funzione protettiva del sonno, sono una realizzazione di desideri per lo più inconsci e infantili. Affermazione decisa e precisa, rimasta assoluta però solo per qualche anno. Poi la ricerca sul sogno incominciò ad affollarsi di altre esigenze. Ricominciarono soprattutto le considerazioni sui sogni profetici. La corrente più positiva, o positivistica, della psicologia dinamica ha interpretato i sogni cosiddetti premonitori come manifestazioni a livello onirico di propositi della psiche, già presenti a livello inconscio, che in seguito spingeranno a compiere una determinata azione, anticipata quindi nel sogno. Ancora si disse che certi disturbi dell’organismo i quali cominciano con leggére sensazioni di dolore in qualche parte del corpo vengono anticipati con l’inserzione di queste sensazioni sgradevoli, per lo più amplificate, nella trama dei sogni. Ecco che quindi si può dire che i sogni talvolta prevedono l’insorgere di qualche malattia organica.
Se nel primo caso la previsione non contraddice l’affermazione di base che il sogno sia la realizzazione di desideri; perché, tutto sommato, pur attraverso lo stravolgimento del lavoro onirico, il sogno anticipatore potrebbe in questo caso soddisfare il bisogno di compiere una certa azione, sia pure a livello allucinatorio; nel secondo caso sembrerebbe invece contraddire l’affermazione di base, poiché fa vivere al sognatore una sensazione sgradevole che lo mette in allarme, facendogli presentire un pericolo per la sua integrità fisica. Con una osservazione più attenta si potrebbe però dire a questo proposito che neppure in questo caso il sogno sfugge al principio di esprimere un desiderio: infatti o la sensazione sgradevole viene incorporata per realizzare il desiderio di continuare a dormire, oppure viene stravolta nel tentativo di essere negata, oppure ancora si potrebbe osservare nel sognatore un inconsapevole ma reale desiderio (per qualche scopo inconfessato) di ammalarsi.

Uno studente di medicina che aveva una grossa paura di affrontare un esame di anatomia racconta il seguente sogno, fatto qualche notte prima dell’esame:
«Mi sentivo un grande peso sullo stomaco; avevo mangiato e bevuto troppo (in sogno, non nella realtà). Io ero nudo con il ventre gonfio e dolente; dovevo andare all’esame, ma ero molto affaticato e non riuscivo a trovare i vestiti. Mi premo la pancia con le mani e incomincio a vomitare una gran quantità di cibo quasi non masticato, a cui sono frammisti brandelli del mio testo di anatomia. Il materiale che mi esce dalla bocca è in quantità spropositata, mi circonda e mi impedisce i movimenti, paralizzandomi». In effetti, la sera precedente il giorno dell’esame, lo studente, dopo aver studiato troppo (indigestione di anatomia), aveva cercato di rilassarsi andando in cucina, svuotando il frigorifero, mangiando e bevendo moltissimo con voracità e senza criterio. Nella notte aveva avuto un gran mal di pancia e il mattino seguente stava ancora male ed aveva una scusa sufficientemente valida per non affrontare l’esame.
Come appare abbastanza evidente, questo, più che un sogno premonitore, è un sogno «suggeritore», in cui viene realizzato il desiderio di non doversi presentare all’esame per cause di forza maggiore. Inoltre lo studente, pur giurando di esserselo ricordato solo in quel momento, confessa a me e a se stesso che il mattino seguente il sogno, guardandosi il ventre nudo e liscio aveva pensato: «Certo che una bella indigestione potrebbe anche essere utile… ».
Le correnti meno positiviste e più metafisicheggianti della psicologia dinamica hanno avvicinato sempre più il sogno alla profezia in senso stretto Queste scuole parlano di stravolgimento della dimensione spazio-temporale, Per cui nel sogno il futuro non è più così futuro, come il passato non è più così passato; per cui, nel sogno, il poi può diventare: adesso.
Prima, adesso e poi, si realizzerebbero nei sogni in una dimensione tutta particolare in cui le categorie del quotidiano e della veglia sono superate. Non voglio affrontare qui il problema della presenza della parapsicologia o del magico nella psicoanalisi; voglio soltanto dire che anche così interpretati i sogni non perdono certo la loro caratteristica di esprimere un desiderio. Ci si potrebbe porre il problema: «Ma quando il fatto che viene previsto nel sogno non è per nulla nei desideri del sognatore?».
La mia esperienza non ha mai trovato sogni di questo genere. Debbo però dire che sono abbastanza consapevole che l’esperienza di ogni scienziato o studioso è costituita più da elementi affini a ciò che egli si propone di trovare e assai meno da elementi che egli non ha voglia di cercare. Nonostante ciò, ripeto che non ho mai trovato sogni che non realizzino un desiderio di chi li sogna. Può darsi che cercare altri elementi nei sogni, oltre al desiderio, sia un atteggiamento scientificamente corretto, valido e proficuo (la ricerca non si deve mai fermare, le possibilità devono essere tutte vagliate e su ogni argomento le ipotesi di lavoro possono essere infinite), però io sono abbastanza convinto che nell’atteggiamento di coloro che resistono all’ipotesi del sogno-desiderio vi siano anche resistenze e fuga.
Fuga da che cosa? Fuga dalla paura che i desideri fanno. Anche i ricercatori, soprattutto se terapeuti, hanno paura dei desideri altrui, ma soprattutto dei propri. Il desiderio troppo spesso è una presenza scomoda, scottante, di cui ci si vorrebbe liberare perché ci umilia. Per di più, il sogno è una realtà psichica in cui i parametri esterni che distinguono il bene dal male vengono aboliti.

Fatevi raccontare, nel reparto di un ospedale, il sogno che lo psichiatra ha fatto nella notte, e poi fatevene raccontare uno da un ricoverato, per esempio, da uno schizofrenico: troverete sì delle differenze personali tra un sogno e l’altro, differenze di fisionomia, io direi anche di poesia; però vi sarà assai difficile dire quale è il sogno della persona sana di mente che vive fuori dall’istituzione e fa il medico e quale è invece il sogno di uno schizofrenico, ricoverato in ospedale, dove subisce le terapie che gli somministra proprio quel medico. Certo, nei due sogni si presenteranno desideri diversi, nascondenti angosce diverse, ma i desideri del terapeuta non sono più confessabili e meno bizzarri di quelli del «malato». I desideri di entrambi sorgono da bisogni oscuri, inconfessabili, assurdi, che sconvolgono.
La psicoanalisi ha avuto il grande merito di distruggere le barriere rigide tra sano e malato di mente. Ha fatto vedere come i comportamenti umani, di qualunque natura essi siano, sorgono da meccanismi primordiali e inconsci, presenti in ogni essere umano. La storia di ognuno si differenzierà da quella dell’altro: per qualcuno sarà una storia più organica e felice, per qualcun altro disorganica e angosciata. Alcuni riusciranno a controllare, almeno in parte, sé e gli altri, altre persone saranno invece travolte e diverranno inutili vittime e inutili carnefici.
Il sogno, visto come espressione di desideri non disturba solo il ricercatore esperto che specula e costruisce teorie; disturba anche il terapeuta principiante, sommerso da tutte le insicurezze di chi incomincia il lavoro di terapeuta e il disturbo diventa addirittura un disastro se il terapeuta è timido.
Quando il sognatore racconta un sogno in cui appaiono chiare per il terapeuta, ma oscure per il narratore, pulsioni molto rimosse, il terapeuta alle prime armi (e non soltanto) spesso si sente a disagio: non sa se dire o non dire, se svelare o non svelare. Prende il fiato facendo fare le libere associazioni; tira un sospiro di sollievo quando queste fluiscono ricche e ampie a prova dell’interpretazione intuita; allora il terapeuta pensa tra sé e sé: «Meno male, queste cose che avrei fatto fatica dirgli se le è chiarite da solo; le associazioni sono così chiare e lampanti… tutto è venuto a galla spontaneamente… ».

A questo punto, con desolata costernazione, si accorge che il sognatore non ha minimamente colto l’intepretazione implicita, non l’ha neppure intuita; l’azione del terapeuta e lo svolgersi della seduta lo hanno bensì messo un po’ a disagio perché, certo, qualcosa ha subodorato, ma egli sta facendo di tutto per sfuggire. Allora il terapeuta timido e alle prime armi cerca di convincersi che questa è un’interpretazione che non è ancora il momento di dare; non per nulla gli hanno insegnato che le interpretazioni date al momento sbagliato o cadono nel vuoto o bloccano il progredire del lavoro analitico.
Sotto a tutto questo c’è, però, la paura che ha il terapeuta di dispiacere al suo paziente, di offenderlo, di veder sfumare così quella fiduciosa dipendenza e incondizionata anamtrazione che tanto lo gratificavano. Il giovane terapeuta a questo punto imbocca una scappatoia che egli non crede possa essere dannosa, ma che è pericolosa se diviene un comportamento abituale: anziché interpretare il sogno buttando in faccia al povero sognatore una realtà inconscia rifiutata e scomoda, usa gli elementi del sogno per ribadire una situazione che ha le radici nel presente.
Dal sogno sembrano perciò non tanto prorompere realizzazioni di desideri inconsci quanto sottolineature di alcune caratteristiche importanti per la vita del paziente. Gli si dice: «Ecco, signore, lei è così preoccupato per la salute di sua moglie che teme sempre le possa succedere una disgrazia»; oppure:  «Lei signora ha troppe preoccupazioni per il suo lavoro e queste entrano anche nei suoi sogni»; oppure ancora: «Lei teme di non riuscire a fare l’amore e quindi anche in sogno…».
Pietose menzogne che vedranno però fiorire sul volto del paziente un sorriso di beatitudine e di riconoscenza, magari velato da una tristezza di circostanza: «Oh, come ha ragione… proprio così… come ha puntualizzato bene la mia situazione… ». Se il lavoro di analisi non si arresta a questo punto, ma con lenta cautela prosegue, tutto questo non è molto pericoloso, anzi, talvolta può addirittura essere utile. Non è detto che il terapeuta debba sado-masochisticamente buttarsi a ferire né ad essere ferito.

Io personalmente preferisco prendere un’altra strada. Quando posso prendo un elemento del sogno non troppo scomodo e lo interpreto correttamente. Il paziente, per lo più, a questo punto è pronto a seguirmi. Spesso però lascio cadere il sogno, cerco di parlare d’altro, poi, anche a distanza di qualche seduta, lo riprendo, riprendo anche le associazioni che erano state fatte, e comunico quello che vorrei dire sotto forma di domanda. Nel venticinque per cento dei casi la persona che lavora con me ha l’impressione di essere arrivata da sola all’interpretazione scomoda (ed in parte è così). Nel resto dei casi il lavoro cade, apparentemente, nel nulla. Solo apparentemente, infatti quelle domande, proprio perché non erano soltanto domande, lavorano. A distanza ecco venire fuori la risposta; proprio perché non era solo una risposta, ma era anche una presa di coscienza.
A questo proposito, vorrei sottolineare l’importanza che hanno le domande nella terapia analitica. Domande che non sono soltanto rivolte al paziente, ma che sono anche rivolte al terapeuta a se stesso.
Soprattutto all’inizio della terapia, io comunico soltanto attraverso domande e sottolineature. Intendiamoci: mi riferisco non alle domande iniziali, che sono reali domande per sapere, ma alle domande-messaggio ambigue e simpatiche; argomento questo che ritengo estremamente importante dal punto di vista tecnico e teorico, ma che affronterò e amplierò altrove.
Un ragazzo mi racconta questo sogno:
«Ero in un bar le cui caratteristiche erano a metà strada fra il bar di mio padre (le osterie in cui mi portava nell’infanzia) e un bar francese, come quelli che ora sono abituato a frequentare quando vado a Parigi. C’è confusione, c’è qualcosa che si rompe; io sono lì con in mano un flaconcino di liquido, che mi fa venire in mente un flaconcino di antibiotico; la parola antibiotico mi richiama la parola ammiotico. Dico che c’è troppa violenza e che bisogna recuperare il piccolo gesto come l’equivalenza della rivoluzione, perché c’è troppa violenza; per esempio: a Genova Pré quel ragazzo che mi ha offerto una pistola a tamburo col numero di matricola cancellato».
Andare alla ricerca dei desideri nascosti e simbolizzati nel sogno è difficile non soltanto perché questi sono molto cammuffati o perché talvolta è difficile e imbarazzante comunicarli, è difficile anche perché molte volte sembra fin troppo facile e l’interprete si sente imbarazzato nel dipanare un lavoro onirico per far affiorare un desiderio di cui il sognatore è completamente consapevole e che non si riesce quindi a capire perché debba essere stato travestito nel sogno.

Ciò che balza evidente nel sogno che ho appena raccontato è il desiderio omosessuale del sognatore nei confronti del ragazzo che a Genova Pré gli offre la pistola, cioè il suo membro. Il sognatore era da tempo assolutamente consapevole delle sue pulsioni omosessuali, quindi non si riesce a capire perché, nel sogno, anziché vedere il ragazzo di Genova offrirgli nudo il suo pene in erezione abbia dovuto costruirsi una scenetta utile per nascondere i desideri erotici di una monachella o di un fascistello da palestra. Certo era più facile stupire e turbare i pazienti con interpretazioni scollacciate durante la Belle Epoque!
Oggi spesso i sogni sembrano molto più pudichi dell’immaginazione cosciente: altro che servire per realizzare un desiderio inconfessato e inconfessabile! Spesso svolgono l’inutile lavoro di nascondere, non si sa a chi, desideri, pensieri e pulsioni chiaramente presenti al sognatore durante la veglia. Si potrebbe dire, a questo punto, a difesa del lavoro del povero sogno, che questi pensieri e questi desideri sono cammuffati perché, in fondo in fondo, non sono stati pienamente accettati; ma questa è una difesa molto ingenua perché non spiega lo stesso il perché del lavoro; il sognatore è infatti quasi sempre consapevole anche delle resistenze inconsce che gli impediscono di accettare la realtà di certe pulsioni e quindi il sogno sembra diventare una superflua commediola che voglia nascondere ciò che non si può nascondere. Si potrebbe ancora aggiungere che i cammuffamenti dei desideri già consapevoli possono stare a dimostrare che il rifiuto nei loro confronti è molto più profondo di quanto l’individuo voglia confessare a se stesso. Questa spiegazione talvolta può funzionare, ma mi pare rozza e claudicante.
Per ritornare al sogno, di cui stavamo parlando, si potrebbe dire che esso riproduce una sensazione gradevole vissuta nella realtà: alla mia domanda se realmente egli si era trovato a Genova e se gli fosse stata offerta da un ragazzo una pistola il sognatore mi rispose affermativamente e, senza fatica, mi disse che già allora aveva sentito quell’offerta come una proposta sessuale. Allora il sogno era soltanto la riproduzione di un gioco erotico vissuto chissà quando? Povero sogno, non servi più a niente, non nascondi più niente!
Per fortuna, il sogno è ben più ricco, le immagini, le sensazioni si affollano: perché la pistola ha il numero cancellato? Ecco che, con un pochino di resistenza al sognatore viene in mente l’associazione: numero cancellato uguale N.N., cioè figlio di nessuno. Mettiamo da parte quest’osservazione. E’ importante la parola violenza; quale tipo di violenza? La nascita è una violenza, l’inculata è una violenza.

Andiamo avanti: liquido ammiotico e rottura uguale a «rottura delle acque» (ritorno alla nascita). A questo punto il sognatore è meno tranquillo; sente che si dipanano situazioni meno controllate e controllabili. Poi: nella provetta c’è un antibiotico cioè qualcosa contro la vita. Fondamentalente per tutto il sogno è la parola «piccolo». Nelle parole: «piccolo gesto» ritorna una assonanza, cioè gesto uguale e gestazione. Ecco che affiora un altro desiderio: vivere un rapporto omosessuale è purtroppo sterile; recuperare perciò una gestazione, un piccolo gesto, questo è rivoluzionario: io, maschio, voglio partorire essendo stato fecondato da un maschio e vorrei essere stato partorito solo da un maschio.
Andiamo avanti: N.N…. a questo punto, per discrezione, debbo fermarmi; ovviamente, l’analisi di questo sogno continua. Io la presento con tutti gli elementi, anche in modo abbastanza frammentario, per far vedere quante cose ci siano in un piccolo sogno; e quanto i cammuffamenti e le stratificazioni siano molteplici, gli uni in funzione delle altre. Desideri infantili e desideri del presente; il tutto retto da desideri che non verranno mai alla luce perché appena accennati, o troppo nascosti, o troppo lontani. Io penso che l’analisi di un sogno, forse, dovrebbe estendersi per mesi e mesi; ma per inesperienza degli analisti e per pigrizia una grandissima quantità di materiale utile viene sprecata. Io, però, non credo che il lavoro onirico sia soltanto teso a cammuffare desideri scomodi, anche se, indubbiamente, questa è una delle sue caratteristiche fondamentali. Io credo che il sogno riproduca in modo più vivido una situazione continua, propria del modo di essere dell’uomo: cioè la quasi infinita e onnidirezionale struttura dei linguaggi.
L’essere umano è un cumulo di linguaggi; ogni movimento psicofisico è una forma di linguaggio più o meno embrionale. L’uomo è una relazione e un insieme di relazioni con il sé e con gli altri; egli tende quindi alla comunicazione continua con sé e con gli altri: linguaggio = comunicazione = contatto. Lo scambio osmotico è continuo tra umori interni, sensazioni e pensieri del singolo con se stesso e con gli altri. Reagire all’ambiente non vuol dire soltanto muoversi, avvicinandosi o allontanandosi da…; per l’uomo, almeno secondo me, vuol anche sempre dire cedere e acquistare qualcosa: cioè comunicare.
La nostra cultura ha privilegiato la comunicazione verbale (o meglio: si sforza di privilegiarla). Fiumi di carta sono impiegati, e talvolta sprecati, per analizzare la struttura del linguaggio verbale come se questo fosse «il linguaggio». Parallelamente altri contrappongono al linguaggio verbale il linguaggio corporeo, come se fosse sostanzialmente diverso o addirittura antitetico.

Io penso che il sogno riproduca il momento più intricato dei linguaggi pure se, per le stesse ragioni culturali, anche nel sogno viene privilegiata la manipolazione della parola; affermazione, questa ultima, di cui non sono per nulla certo. Io ritengo che la stratificazione delle immagini, delle sensazioni, delle parole, che rende il sogno talvolta così incomprensibile, non sia altro che il nostro abituale modo di comunicare senza però che ci sia possibile fare ciò che facciamo durante la veglia, quando dirigiamo il faro dell’attenzione ora su una, ora sull’altra delle strutture linguistiche privilegiando bensì quella verbale, ma vivendo paralleIainente anche altri tipi di comunicazione. Il parallelismo, o meglio la simultaneità di più linguaggi stravolgono le strutture spazio-ternporali nel sogno e danno anche al linguaggio verbale una polidireziorralità insospettata che lo schematismo rigido che ci governa, durante la veglia ci fa per lo più sfuggire…
Ho già accennato alla inadeguatezza del linguaggio verbale per esprimere il sogno e ho anche detto che, spesso, quando si racconta un sogno si ha l’impressione di raccontare un altro sogno e si ha l’impressione di distruggere il sogno così come è stato vissuto e di esporne soltanto una larva sbiadita. Le parole lasciano fuori una grande quantità di sensazioni, emozioni ed immagini. Richiamandomi anche, in parte, a ciò che ho detto prima, credo di poter affermare che le cause di questa sgradevole sensazione sono tre:
1) La reale inadeguatezza di ogni linguaggio. Il linguaggio, come ho già detto, è la manifestazione di noi all’altro; l’altro però può anche coincidere, in questo caso, con noi stessi; il linguaggio cioè è sempre uno strumento di relazione che esprime anche relazioni di relazioni. Il linguaggio tende all’infinito: costruisce relazioni che si relazionano a loro volta e anche queste relazioni di relazioni si organizzano in relazioni e così via. Proprio questa catteristica di tendere all’infinito (che rappresenta quindi il suo limite inteso in senso matematico) dà al linguaggio le sue possibilità-impossibilità di esprimere tutto (non mi riferisco qui al solo linguaggio verbale, ma ad ogni tipo di linguaggio, di cui supponiamo l’esistenza o che neppure riusciamo ad immaginare). Ogni struttura linguistica, inoltre, insieme con il proprio limite a cui tende, si relaziona con le strutture linguistiche di altro tipo. Il complesso di tutte le strutture linguistiche tende a sua volta ad un limite.
A questo punto, vorrei inserire un esempio traendolo dal linguaggio musicale, sperando di essere abbastanza semplice e chiaro da essere compreso anche da chi non lo conosce che approssimativamente. Il linguaggio musicale «classico» dell’occidente si compone di 12 segnali fondamentali: i 12 semitoni che, messi in ordine partendo dal suono più grave per giungere a quello più acuto, formano la cosiddetta scala cromatica (non affronto qui il problema di come e perché si sia giunti alla scala temperata). Da questi si trae la serie di 7 suoni che serve a formare le varie scale tonali.

Combinando, sia successivamente nel tempo che contemporaneamente, i vari suoni tratti dalle scale tonali, secondo regole linguistiche precise, con questi 12 segnali fondamentali si è venuto costruendo il discorso della musica occidentale tradizionale. Con 12 suoni fondamentali le combinazioni di accordi che possiamo ottenere sono numerose (parecchie non usabili secondo le regole dell’armonia classica), ma non infinite (*). Come ho però già detto, la combinazione di suoni non avviene soltanto per sovrapposizione (ciò che semplicemente si chiama accordo), ma anche per successione nel tempo, con singoli suoni di durata variabile (ciò che comunemente viene detta melodia). Perciò la dilatabilità di un periodo (melodia) e di un discorso musicale (successione di melodie) è di fatto infinita; così pure la possibilità di iterazione di un accordo è, di fatto, infinita (quando qui dico infinito, non voglio dire innumerevole, ma realmente e matematicamente infinito). Ogni linguaggio è inoltre caratterizzato sempre anche dall’espressività emozionale. L’espressività emozionale, in musica, è data dall’intensità del suono e dalla libera e arbitraria dinamizzazione delle macchie sonore, a sua volta matematicamente e infinitamente variabile.
Ovviamente ci sono barriere pratiche che arrestano ad un certo punto questo tendere al limite delle possibilità dell’espressione linguistica. Questa barriera è data dal gusto, dallo stile, dalla sopportabilità psichica per il compositore e per l’ascoltatore; da una durata necessariamente limitata nel tempo e così via.
Il linguaggio musicale occidentale, così pieno di regole, apparentemente imprigionato in uno schema limitato, tende, di fatto, all’infinito. Per di più, il linguaggio musicale, basato sui 12 suoni non è che uno dei possibili linguaggi della musica.

I suoni sono vibrazioni la cui frequenza è esprimibile con numeri, quindi possono essere infiniti e infinita può essere quindi anche la loro combinazione. Infiniti perciò possono essere i linguaggi musicali e infinite le relazioni tra di loro. Sarebbe assurdo ritenere il linguaggio musicale chiuso e incapace di relazione con gli altri linguaggi: tattile, visivo, verbale, ecc.
Come si vede facilmente quindi, un solo linguaggio tende, già di per sé, ad una infinita possibilità di espressione e di espressioni, per relazioni interne e per relazioni di relazioni ed anche tende al limite nel rapporto con gli altri linguaggi, costruendo rapporto di rapporti.
Il tentativo di fare il punto di una situazione psichica conscia e inconscia comporta sempre un enorme margine irriducibile. È anche questo senso di irriducibilità che dà al linguaggio psicoanalitico la sua caratteristica di linguaggio idoneo ad esprimere un pensiero scientifico moderno, anti-ottocentesco e antidògmatico.
2) La seconda ragione della sensazione di inadeguatezza è strettamente legata alla natura del linguaggio verbale. Il linguaggio verbale, oltre alla impossibilità di dire tutto ciò che vorrebbe, possiede anche la straordinaria possibilità di dire più di quanto si desidererebbe. Le parole sono equivoche, le frasi sono equivocabili; talvolta, nostro malgrado, parole e frasi aggrediscono, feriscono, illuminano: cioè fanno prendere coscienza. Le frasi di parole sono molto spesso lo strumento della nostra chiarezza e ciò malgrado che molto filosofi da strapazzo del Novecento e alcuni cineasti ingenui abbiano voluto giocare con le affermazioni splendidamente profonde dei sofisti, riducendole a formulette goffe il cui unico significato vorrebbe essere quello di mettere in luce la difficoltà degli uomini a capirsi. Attraverso le frasi ognuno di noi si avvicina alla comprensione di se stesso. Le frasi dicono spesso cose scomode; non solo imprigionano emozioni molto ricche, sfrondandole e riducendole, ma talvolta ci inchiodano con chiarezza inequivocabile, alla quale soltanto la nostra cattiva coscienza ci permette di ribellarci. Allora si tira fuori l’aridità del lingiingio verbale, si dice che le parole sono oscure, ambigue e riduttive; questo è anche vero, però troppo spesso queste argomentazioni vengono usate come meccanismi di difesa contro la presa di coscienza. Da cui una malintesa esaltazione delle teorie che fanno riferimento alla comunicazione corporea.
Perché parlo di malinteso? Perché si tratta troppo spesso di una ottusa fuga dal lavoro intellettuale e verbale della presa di coscienza. Bamboleggiando con toccamenti, sguardi ridicoli, sculettamenti e mugolii, coloro che non hanno il coraggio di comunicare con sé e con gli altri per mezzo delle parole non credano di poter comunicare toccandosi gli alluci al suono di un sitar indiano.

Queste ingenue teorie, per lo più orecchianti la “weltanschauung” dell’oriente, riducono quelle lontane culture millenarie profonde e sottili al gioco epidermico di ciarlatani e damerini annoiati, alla ricerca di nuove e facili sensazioni. Io penso che la comunicazione corporea, insieme con la comunicazione verbale e alle comunicazioni pre-verbali siano per la nostra cultura estremamente importanti, tutte dobbiamo coglierle e di tutte dobbiamo appropriarci. Però guai se comunicazione verbale e comunicazione non verbale vengono usate indipendentemente o, peggio, vengono contrapposte, soprattutto usando le seconde come fuga dalla chiarificazione che le parole sanno portare. Spesso le parole servono a far luce su un desiderio, ci costringono ad ammettere che lo proviamo e ci obbligano a metterlo in discussione e non semplicemente a farcelo vivere in modo più o meno inconsapevole. Non bisogna soltanto parlare di carezze e di schiaffi; bisogna anche avere il coraggio di darseli; però, spesso, dire anche a noi stessi la parola carezza o schiaffo ci costringe a mettere in discussione il gesto corrispondente, ci aiuta ad appropriarcene in pieno.
Quante volte lunghi giorni di vita o pesanti situazioni emotive, vissuti o rifiutati nello stesso tempo, ci calano addosso con tutto il loro peso e il loro significato dopo una frase pensata o udita. Non so se la consapevolezza possa fare a meno della parola; però credo che senza la parola la consapevolezza (e di conseguenza la vita) non possa essere completa. E’ giustissimo lottare per liberarci dalla schiavitù di una cultura che ha privilegiato la parola; però bisogna anche lottare per liberare la parola dalla paura di esser troppo chiara. Tutti i linguaggi (verbali e non) tendono all’espressività infinita, nel loro insieme essi formano l’uomo e gli uomini.

Ecco perché la matassa aggrovigliata dei sogni, fatta di parole rese immagini, parole stravolte, sensazioni visive, tattili, ecc.; resiste spesso a trasformarsi in un frase piana e chiara: perché allora, con la sua precisione, ferirebbe chi sogna e lo costringerebbe a rendersi conto dei propri desideri, a vederli di fronte a sé, sfrondati di sensazioni che le parole non sanno esprimere, ma arricchiti di una precisione pungente e chiarificatrice.
3) La terza ragione è data dal fatto che il sogno è costituito in modo che si direbbe le formule verbali ne costiruiscano una parte importantissima, difficilmente è però riducibile alla successione lineare e unidirezionale del linguaggio parlato. Il sogno si esprime in un modo assai più simile all’espressione musicale in cui le formule linguistiche non solo si succedono nel tempo, ma si presentano anche sovrapposte.

Io credo profondamente vera l’affermazione che ritiene il sogno costituito, in buona parte, di formule verbali, con le quali il sogno gioca e che sbriciola e muta in immagini e in altre sensazioni. Talvolta il sogno prende le parole, le sovrappone, le attorciglia, ne lascia brandelli sotto forma di espressioni verbali che lentamente si trasformano in altri tipi di sensazioni: come Dafne si trasformò in lauro.
Come ho già detto, questo intrico è estremamente difficile da sciogliere e la parola risulta così molto inadeguata.
Ho detto che le formule verbali costituiscono, se pure stravolte, una parte importante del materiale onirico; è però estremamente difficile riconoscerle, reperirle, districarle dalla marea di sensazioni di altro tipo (sensazioni a loro volta riducibili, almeno in parte, a parole). Il lavoro onirico usa parole, frasi, periodi, assai più di quanto non sembri a chi sogna. Non credo che esista un sogno nella cui trama non siano contenute una o più espressioni verbali. Sono talvolta parole isolate, più spesso modi di dire consueti, o frasi sentite adesso o nel passato e che hanno colpito in modo particolare.
E’ importante non dimenticare, quando si fa un lavoro interpretativo sui sogni, di cercare di sciogliere gli intrichi di parole, sulle parole e con le parole. Una giovane mamma mi racconta: «Ho sognato di trovarmi in una palestra; assistevo ad una serie di rapporti sessuali, eterosessuali ed omosessuali, di coppia e in gruppo. Io ero ferma, abbastanza tranquilla, e guardavo incuriosita. Ora che sto raccontando il sogno mi rendo conto che in ognuna delle scene erotiche cui assistevo era coinvolta una ragazza che mi assomigliava. Nel sogno ho assistito, poi, a una scena molto strana, estremamente difficile da esprimere con le parole: la ragazza presente in tutte le scene (notare la resistenza a ripetere l’espressione più rapida e semplice: «La ragazza che mi assomigliava»), faceva l’amore in un cesto; non si vedevano altre persone, non mi pareva che si stesse masturbando, non riesco ad esprimere bene che cosa facesse e in che cosa consistesse in pratica questo fare l’amore in un cesto; ricordo un grande cesto di vimini, la ragazza nuda… non so dire meglio».
A questo punto la narratrice fa una pausa, rimane un po’ in silenzio, poi soggiunge: «A proposito, vorrei aggiungere che la scena, dell’amore nel cesto, me l’ero dimenticata. Prima di uscire di casa per venire qui ho ripassato mentalmente il sogno per raccontarlo senza ricordarmela, poi, salendo in macchina e prendendo in braccio il bambino (il figlioletto ha un anno circa), mi è tornato in mente quest’ultimo pezzo».
Fu anche troppo semplice trasformare l’immagine della sognatrice che fa l’amore in un cesto nella frase: «Io compio un incesto». Le altre forme di sessualità erano state appena un po’ allontanate dalla consapevolezza facendo agire in essi una ragazza somigliante, ma non coincidente, con la sognatrice; però la pulsione più scomoda e imbarazzante ha avuto bisogno di nascondersi maggiormente per riuscire a scaricarsi e lo ha fatto giocando sull’espressione verbale: nel cesto= in cesto = incesto.
Talvolta i giochi sulle parole possono essere assai più complicati: un ragazzo in un sogno unì due parole che provenivano da due filoni tra loro lontani del discorso onirico, facendoli coincidere in un punto, formando così una terza espressione che aveva a sua volta un significato emotivo (sessual-aggressivo) per tutti e due i filoni di pensiero; l’espressione-risultato fu: «Raffica» di mitra. I due pensieri confluiti a formare la parola «raffica» derivavano rispettivamente uno dai pensieri su di un amico di nome «Raffaele», l’altro da una serie di pensieri sull’organo femminile, comunemente detto, alla buona, «fica». S’intende che a questo risultato giungemmo dopo un attento e lungo lavoro di analisi del sogno.
Il sogno è quindi un concentrato di pensieri e di sensazioni. Questo è il modo che ha il sogno di parlare. Non credo che il camuffamento dei pensieri onirici sia dovuto soltanto al tentativo di nascondere al sognatore i suoi pensieri inconsci. I molteplici linguaggi e le varie formule espressive, tutti tendenti all’infinito, non si presentano nel sogno successivamente: prima un bel discorso verbale, poi una serie di sensazioni visive, poi le sensazioni corporee, prima le espressioni piacevoli, poi quelle spiacevoli… e così via. Ogni nucleo del sogno è polidirezionale. Noi siamo abituati a chiamare troppo spesso la polidirezionalità col nome di contraddittorietà; diciamo pure allora che i pensieri dei sogni sono anche contraddittori. Nei sogni, A può essere anche contemporaneamente non-A: il terzo escluso non è escluso per niente. Io preferisco la polidirezionalità.
Dopo tanti anni di lavoro sui sogni è una banalità giungere ad affermare che essi non sono assurdi, eppure questa è un’affermazione che è indispensabile fare a questo punto del discorso; magari di fretta e con un po’ di vergogna, con la consapevolezza di dire una verità scontata, stra-ripetuta; ma è utile ribadirla. I sogni non sono più assurdi o meno assurdi della veglia, tendono ad esprimere con poliedrica ricchezza la poliedricità della nostra esperienza. Non è tanto il discorso della relatività del rapporto spazio-temporale che riesce a costruire una nuova visione del mondo, quanto la consapevolezza della contemporaneità, o meglio, della compresenzialità di forme linguistiche ed espressive diverse.

È probabile che in un atomo di sogno, come nella monade leibniziana, si riassuma tutto l’universo psichico ed esperisenziale di una persona. Certo, l’interprete del sogno non deve andare alla ricerca di una aristotelica non contraddittorietà e di una chiarezza lineare. Il sogno non è assurdo: è ricco; certo, la sua ricchezza non può essere tutta compresa ed analizzata. Operativamente lo scienziato che si occupa del sogno deve abbandonare ogni atteggiamento di onnipotenza, rinunciare alla pretesa di spiegare tutto con dimostrazioni non equivoche, prove chiare e idee distinte.
Un’ipotesi di interpretazione di un sogno è anche sempre solo un’ipotesi; se serve a raggiungere gli scopi terapeutici e di chiarificazione che ci eravamo prefissi, possiamo dire con tranquillità scientifica che era un’interpretazione corretta. Il sogno sfugge più che mai ad una riduzione lineare. I meccanismi di causa ed effetto probabilmente esistono anche nei sogni; ma il meccanismo causale è molto lontano dal riduttivismo del pensiero raziocinante del metodo cartesiano.
Abbiamo detto fino ad ora che il sogno è un complesso di espressioni polidirezionale; ma abbiamo anche detto che queste espressioni esprimono bisogni e quindi desideri. Spesso sono desideri in conflitto, ecco perché si presentano in modo così bizzarro. La risultante dell’energia pulsionale desiderante non è un’unica forza, ma a sua volta si irradia e si dirama. I desideri di un sogno non sono mai riducibili ad un unico desiderio; non sono mai neppure riducibili ad un desiderio dominante.
Per comodità terapeutica, talvolta, l’analista sceglie uno dei desideri e una delle energie pulsionali che stanno dietro e vi punta sopra la sua attenzione. Se il terapeuta è consapevole di operare una scelta dimostra allora di non essere un ingenuo, ma se crede di esaurire l’interpretazione portando alla luce un’unica pulsione ed un unico desiderio commette un’ingenuità imperdonabile. Per fortuna, se quest’ultimo caso si verifica, è il sognatore spesso che, insoddisfatto di un risultato troppo riduttivo, prosegue il lavoro interpretativo; sta al terapeuta avere il buon senso di seguirlo. A proposito dei desideri onirici, si può dire ciò che si è detto dei pensieri onirici (che, dopotutto, sono la stessa cosa): non esiste una contradditorietà reale di desideri e di pulsioni, ma una polidirezionalità. Certo, talvolta in un sogno si presenta un desiderio e anche il suo contrario: si può sognare di voler raggiungere una meta e contemporaneamente inserire nel sogno un elemento che dimostra che si vorrebbe anche non raggiungerla mai. Un maestro di vita, un saggio tradizionale e austero, direbbe in questo caso al sognatore: «Ragazzo mio deciditi: o vuoi o non vuoi; un uomo di carattere deve essere tutto di un pezzo, deve volere una cosa e cercare di realizzarla nei limiti del possibile». Il sogno invece risponde: «Perché devo decidermi, rinunciando a una parte del desiderio? Purtroppo sarò costretto a decidere, ma ci sono ragioni per cui vorrei raggiungere quella meta e altre per cui non vorrei. Il desiderio desidera e basta».

Qualche volta, i sogni di angoscia sono frutto, appunto, della compresenza di pulsioni opposte. Purtroppo l’inconscio non è esente dalle caratteristiche della coscienza in generale: la contradditorietà è vissuta come assurdità. L’assurdo, come l’ignoto, disturba e l’angoscia è il segnale di un tentativo di difesa. L’assurdo è talmente rifiutato, anche dall’inconscio, che gli si preferisce l’angoscia. L’inconscio, come la coscienza, è educato, da moltissimo tempo, a reagire con angoscia di fronte all’incomprensibile. L’assurdo è il grado massimo dell’incomprensibilità e viene espresso essenzialmente dalla contradditorietà. Per me è molto facile fare un discorso apologetico dell’assurdo, difendere l’assurdo, qui, ora, mi sembra nobile; ma probabilmente questa apologia non è altro, anche per me, che una difesa dall’assurdo. Spero che, da qualche parte nella mia psiche, ci sia anche un po’ di consapevolezza di questa difesa; ma non ne sono per niente sicuro. Le stratificazioni degli elementi del sogno sono quindi innumerevoli: al di sotto stanno le pulsioni contrastanti che si esprimono in desideri contraddittori. Questi desideri cercano di farsi percepire attraverso pensieri diversi che si diramano in tutte le direzioni. L’espressione di questi pensieri sceglie una gran quantità di linguaggi, forse neppure tutte note a chi sogna. Già di per sé questa stratificazione darebbe al sogno una fisionomia complessa, articolata, difficile da decifrare. Per di più la compresenzialità dei desideri di segno opposto inserisce il bisogno di pensieri di angoscia. Al di sotto di tutto opera il bisogno e il desiderio fondamentale di scegliere il piacere maggiore e la sofferenza minore. E’ per questo che il sogno camuffa quelle pulsioni che disturberebbero troppo per la loro natura moralmente inaccettabile. Questo monumentale castello, pieno di segrete, stanze, corridoi, scale e torri viene costruito anche dal più piccolo sogno.
Il sogno esprime, in modo estremamente ricco e completo, la natura di una personalità. Anche chi non è abituato ad un lavoro di lettura del sogno ne sente il fascino. Quando viene raccontato un sogno coloro che ascoltano vi proiettano su, con estrema facilità, i propri desideri e i propri pensieri.
Il sogno attira su di sé pensieri spontanei più ricchi e meno difesi dei pensieri che vengono fuori stimolati da semplici domande dirette. Ogni sogno, per la sua natura elastica e caleidoscopica, comunica sempre qualcosa a tutti ed ognuno riesce a trovarsi uno stimolo alle associazioni; ad ognuno permette di liberare pensieri ed espressioni in cui i meccanismi proiettivi si presentano allo stato quasi puro. Potremmo dire che il sogno stimola sogni. Io uso molto spesso, nella psicoanalisi di gruppo, l’analisi collettiva e proiettiva di un sogno. Quando un componente del gruppo racconta un sogno da me ritenuto adatto all’interpretazione proiettiva, io invito tutti gli altri membri del gruppo a fare con me un accurato lavoro di analisi del sogno in questione, poi chiedo ad ognuno di interpretare il sogno. Invito sempre all’interpretazione spontanea, libera dal desiderio di fare bella figura davanti a me e agli altri. Cosa questa che in realtà avviene in minima parte: più o meno consapevolmente, ognuno cerca di usare le proprie conoscenze teoriche per dare un’interpretazione brillante senza scoprirsi troppo; però basta quel poco di obbedienza alla mia richiesta ed anche la leggera fretta che io metto a far sì che chi interpreta proietti, con sorprendente schiettezza, massicciamente, talvolta con una semplicità ed ingenuità che sbalordiscono.
In un gruppo un ragazzo racconta il seguente sogno: «Mi trovavo in una grande piazza antica; io dovevo vestirmi con un bellissimo costume del seicento, dovevo fare molta attenzione perché il costume non era soltanto di foggia antica, ma era realmente antico, quindi la stoffa preziosissima e ricamata si sarebbe potuta sgualcire e lacerare. Dopo essermi vestito ed avere compiuto una serie di gesti che non ricordo (mi pare di aver succhiato una colomba; ma non so cosa voglia dire quest’espressione), ho preso in mano un campanello di quelli che si usano in chiesa o anche per chiamare la servitù. Con un martello o con una pinza tentavo di schiacciarlo, o forse anche di staccare il battacchio. Mi dispiaceva però rompere un pezzo del campanello, non so bene quale, in cui c’era una bellissima incisione. Questa incisione, ad un certo punto, si trasforma in qualcosa da mangiare, io ho fame, mi sveglio». Le associazioni stimolate dai compagni del gruppo rivelano con chiarezza due desideri: il primo di essere bello e nudo di fronte a me (il terapeuta) e di piacermi psichicamente e fisicamente. La piazza antica è infatti associata al mio studio, arredato con mobili antichi, per quel che riguarda l’abito del seicento, il sognatore sa che il mio stile preferito è il barocco e ha associato il vestirsi allo spogliarsi, però rivela contemporaneamente al desiderio di spogliarsi la resistenza a farlo col timore di strappare il vestito, che solo distruggendosi (e ciò avrebbe procurato a me dispiacere) lo avrebbe messo a nudo. La colomba del sogno è associata alla colomba della pace, poi a Picasso, casso, cazzo.

Psicoanalisi contro n. 1 – Alla ricerca di una teoria

mercoledì, 1 novembre 1978

Ci si trova nel mondo, non si sa perché, non si sa come mai. La realtà, o quella che noi riteniamo tale, è lì, di fronte a noi, con tutte le sue contraddizioni, le sue ingiustizie, le sue bellezze, in una parola: con tutta la sua concretezza.
Non serve a niente dire: «Ognuno ha la propria realtà, le varie realtà sono incomunicabili, l’uomo è prigioniero delle proprie sensazioni e dei propri pensieri». Esistono tante realtà quanti sono gli individui, intervenire dall’esterno su queste realtà è impossibile o, peggio ancora, è una violenza inutile contro la realtà altrui.
Follia e normalità sono parole che servono non si sa bene a chi; basta cambiare punto di osservazione e ciò che prima era follia diventa realtà, e viceversa. Si può fare il medesimo discorso anche a proposito di giustizia ed ingiustizia, di bello e brutto, di buono e cattivo, etc.
Se violenza è male, se intervenire è sempre violenza, intervenire è sempre male. Questo semplice sillogismo ha una certa forza; dipende, come tutti i sillogismi, da una affermazione dogmatica, ingiustificata: il bene e il male esistono e la violenza è un male. È questo, quindi, un sillogismo non coerente con le asserzioni sulla relatività di tutti i concetti e di tutti i valori.
Se non si può dire con certezza, come io credo, che cosa siano follia normalita, giustizia ed ingiustizia, bello e brutto; non si può neanche dire cosa sia il bene e cosa sia il male. Ed allora la violenza diventa un concetto senza un colorito di valore, rimane violenza e basta: forza che impone, che frantuma, distrugge o ricostruisce.
Distruggere non è più violento che costruire; perciò, secondo me, intervenire sulla realtà è sì una violenza, di fatto, ma non è possibile determinare, aprioristicamente, se sia meglio intervenire che non intervenire.
Io, da parte mia, mi sento inserito in una realtà, illusoria e soggettiva quanto si vuole, che mi condiziona, mi determina, mi fa soffrire o mi fa godere. I miei desideri sono questa realtà, ma anche le frustrazioni dei miei desideri sono questa realtà, perciò, io, per quel che mi riguarda, decido di intervenire.
È una decisione soggettiva ed egoistica, forse non è neanche una decisione, però non appena tento di strutturare il campo delle mie percezioni, intervenendo su di me e sul reale, mi trovo, senza volerlo forse, a manipolare quella che credevo essere la mia realtà, ma che invece scopro essere anche la realtà degli altri. Sartre dice: «È la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli» (Cfr. L’Essere e il nulla). Probabilmente è vero: non è più violento il condottiero dell’ubriacone; tutti e due “intervengono” in qualche modo, modificano e coinvolgono gli altri.

A questo punto, mi sono accorto di aver introdotto un nuovo concetto: quello che intervenire o non intervenire non cambia molto. Con il fatto stesso di esistere, respirare, parlare, scopare, cacare, si interviene sulla realtà, o su quella che noi crediamo essere la realtà.
Si può però decidere di intervenire, decidere di non intervenire, anche se la decisione non è una vera decisione perché la scelta è, forse, impossibile. Rimane il fatto che alcuni credono di intervenire ed alcuni altri no.
Io, un giorno, ho creduto di intervenire. Mi sono trovato coinvolto con altri che avevano la mia stessa convinzione, mi sono scontrato con altri ancora, che erano convinti di dover intervenire in modo diverso dal nostro.
Io oggi credo di intervenire. Ho scelto la scelta impossibile e mi sforzo di modificare, me stesso, miei amici, la mia stanza, la società. Un giorno ho scelto la psicoanalisi come scelta-non scelta, ora uso la psicoanalisi come scelta-non scelta di intervento. Altri come me, io con altri. Al tutto è stato dato il nome di Psicoanalisi Contro. La psicoanalisi ha modificato la mia realtà, ora, insieme ad altri, la voglio usare come strumento per intervenire. Non credo che la psicoanalisi sia l’unico strumento possibile, forse non è neanche il migliore. Certamente, nell’inconscio permangono fantasie di onnipotenza; quasi tutte le persone che hanno iniziato ad osservare sé e gli altri con l’aiuto della psicoanalisi (non ha importanza secondo quale scuola) si sono trovate, ad un certo punto, coinvolte in un delirio di onnipotenza che si esprime in una forma maniacale di interpretazione totale: «Con la psicoanalisi si può interpretare tutto, con l’interpretazione tutto diventa chiaro e quindi controllabile e modificabile».
Coloro che giocano con l’inconscio sanno di avere a che fare con qualcosa di pericoloso e spesso si difendono irrigidendosi in un atteggiamento stereotipo di potere. Indubbiamente la psicoanalisi è ed ha un potere; è utile averne la consapevolezza prima di volerla usare. Una delle tante presunzioni della psicoanalisi, o meglio, dell’atteggiamento psicoanalitico, è quella di intervenire sulla realtà senza condizionarla. L’intervento della psicoanalisi si chiama «presa di coscienza»; gli «inventori» della psicoanalisi hanno affiancato al concetto di presa di coscienza quelli di neutralità e oggettività della scienza. Neutralità ed oggettività «sui generis» quelle della psicoanalisi, che fanno acqua da tutte le parti, zoppicano e scricchiolano. Freud, più di tutti, era consapevole di ciò; ma tanti psicoanalisti continuano a comportarsi come se la presa di coscienza fosse frutto di interpretazioni illuminanti, che mettono in luce una realtà oggettiva, dopo aver distrutto e superato le difese e le resistenze. Atteggiamento abbastanza ingenuo, criticabile, criticabilissimo; ma che ha in sé una enorme potenzialità rivoluzionaria.

Da che mondo è mondo, la terapia, come la religione, ha usato il mistero come elemento dell’intervento: io, terapeuta, manipolo; le mie mani si muovono svelte, tu, paziente, non sai cosa fanno e non sai perché lo fanno; io, terapeuta, ho il mio linguaggio per parlare con gli altri terapeuti; tu, paziente, devi stare buono, obbediente; solo così otterrai la guarigione.
La psicoanalisi ha tentato di superare tutto questo: si interviene sull’uomo non soltanto attraverso il mistero, i condizionamenti gestiti dal terapeuta; ma il paziente, attraverso la presa di coscienza, diventa comprensibile a se stesso: «Quanto più so di me, tanto più sono guarito». Io ritengo che questo sia l’unico modo valido di agire terapeuticamente.
Purtroppo la psicoanalisi «ortodossa» ha imboccato una via che è, secondo me, sbagliata: quella che porta ad affermare che la presa di coscienza coincida con il disvelamento della verità. Così il terapeuta diviene il depositario delle interpretazioni esatte; la società e l’inconscio hanno strutture portanti che si possono mettere in luce grazie ad una tecnica precisa che le rende autoevidenti: ecco il famoso mito delle interpretazioni esatte che distruggono il sintomo e fanno cadere il velo della cattiva coscienza.
Tutto questo è falso ed è vero allo stesso tempo: falso perché lo strumento del terapeuta, che dovrebbe portare a galla e mettere in luce la verità, è uno strumento che si è forgiato proprio sulla verità che voleva andare a scoprire: prima c’è la verità, poi lo strumento per scoprirla; d’altra parte certi strumenti scopriranno sempre e soltanto certe verità, proprio come certe verità sono tali perché sono state scoperte con l’impiego di determinati strumenti.

Il paziente e il terapeuta nel loro lavoro trovano una realtà che non dipende soltanto dai loro desideri consapevoli; durante l’analisi, balzano all’improvviso di fronte a tutti e due desideri e ricordi fino allora ignorati o nascosti ed ora se li trovano davanti , ci devono fare i conti, se ne devono appropriare.
La presa di coscienza, secondo me, è l’unica forma corretta di terapia, purché non si scambi la presa di coscienza per la verità. La presa di coscienza è una consapevolezza ambigua e confusa che come forma ha la verità, ma, come contenuto, i nostri desideri, o anche: come forma i nostri desideri e come contenuto l’ignoto.
Eppure il lavoro psicoanalitico non è lavoro sull’illusione; è lavoro sulla realtà: su di una realtà, però, che non è data per sempre. La psicoanalisi è figlia del senso di colpa; ma, poiché per fare un figlio bisogna essere in due, l’altro genitore è il desiderio di liberarsi da questo senso di colpa. Perché tutto questo sia possibile ci deve essere, prima di tutto il resto, la colpa; ma la colpa è un’invenzione del potere.
La psicoanalisi affonda le sue radici nella cultura ebraico-cristiana, per la quale il peccato originale costituisce l’essenza stessa della natura umana, così come la ritroviamo oggi. Che importanza può avere che uno sia stato innocente in un paradiso terrestre?
Abbiamo detto che all’inizio c’era il potere, che ha creato la colpa; senso di colpa e desiderio di liberarsene hanno prodotto, oltre agli esorcismi e ai confessionali, anche la psicoanalisi.
È stato detto che la neutralità del terapeuta, che non giudica le mostruosità e le perversioni che gli arrivano sul divano, libera il paziente dal senso di colpa, interpretandone oggettivamente le motivazioni inconsce. Questo, in parte, può anche essere vero; ma io ho il sospetto che sia un’illusione.
Non credo che ci si possa liberare dal senso di colpa soltanto perché si scoprono le motivazioni delle nostre azioni, grazie ad un padre buono che non ci giudica, ma spiega. Ce ne liberiamo, se mai, perché pensiamo che, tutto sommato, siamo stati costretti dall’inconscio ad agire come abbiamo agito e, quindi, ci convinciamo, non tanto della neutralità morale delle nostre azioni, ma della loro validità morale, perché sono state il frutto dell’unica scelta possibile.
Né paziente, né terapeuta possono spiegare, senza ricorrere a giudizi di valore. Nessuna spiegazione è soltanto una constatazione: guai a quel terapeuta che non accetta di discutere e di lottare con il paziente, o meglio: guai a quel paziente che non riesce a coinvolgere il terapeuta. Guai a entrambi però se non sono consapevoli anche di questo e non si sforzano di trarsene fuori. Per una psiche strutturata come la nostra, educata ad operare separazioni nette, a credere che tutto sia o bianco o nero, o vero o falso, è abbastanza difficile entrare nell’ordine di idee di una oggettività radicata in meccanismi proiettivi riprodotti all’infinito.
Il rapporto psicoanalitico si scontra immediatamente con le resistenze; resistenza non è soltanto l’ottusa opposizione alla presa di coscienza, è anche la difesa che l’individuo mette in atto contro il pericolo della propria distruzione e disintegrazione.

L’essere vivente si realizza nel rapporto con l’altro da sé; prima di questo rapporto non esistono né un lui né un altro; lui e l’altro sono il desiderio dell’uno che si dirige verso il desiderio dell’altro. Il desiderio non ha limiti. Il desiderio dell’uomo, come dice Feuerbach, è Dio stesso, quindi vorrebbe essere onnipotente. La sua onnipotenza, in effetti, non è altro che la sua irriducibilità originaria alla costrizione; l’Io è il proprio desiderio. Potranno, in seguito, intervenire strutture più o meno articolate, che la filosofia ha chiamato coscienza e memoria, anima e ragione; che per la psicoanalisi si chiamano Io ed Es o Super-Io. L’infinità del desiderio è sempre anche una frustrazione; ma il desiderio non rinuncia, si difende, supplisce con la fantasia. Se non riesce a realizzarsi, rifiuta di desiderare ciò che desidera, negando quindi una parte di se stesso, è capace, infine, di sopravvivere ad ogni modificazione che si rende necessaria.
La resistenza è un meccanismo di difesa dalla sofferenza originaria; un meccanismo che fin da subito si deve mettere in atto contro aggressioni che vengono dall’interno e dall’esterno: dall’interno il desiderio, rimosso, che spinge; dall’esterno l’ambiente, che tenta di modellare, di dirigere, di incanalare.
Desiderio, resistenze ed ambiente si intrecciano, producono nuovi equilibri che a loro volta resistono alla disintegrazione e allo squilibrio, finché nuove forze non intervengono a modificare e a condizionare.
Non sempre questi meccanismi di difesa riescono a mantenere l’equilibrio senza sofferenze. Nel meccanismo economico desiderio e sofferenze si mescolano; il desiderio del piacere talvolta è costretto a scegliere tra due sofferenze e la nostra persona attuale è il frutto di queste avventure e disavventure del desiderio.
La falsa coscienza è, spesso, l’unica forma di anestesia possibile; ecco perché la presa di coscienza incomincia con l’aggressione delle resistenze, che non sono altro che il nostro modo d’essere, il nostro equilibrio attuale, anche se spesso questo equilibrio è vissuto come squilibrio e come dolore. Affrontare le resistenze vuol dire affrontare una destrutturazione. Il lavoro analitico, non solo quello terapeutico, ma anche quello che osserva il mondo, la società con le loro dinamiche, è un lavoro che ha bisogno della destrutturazione.
Le sclerosi sociali ed individuali, antiche come il mondo e come l’individuo, resistono e si ribellano al loro scuotimento. L’ignoto è più angosciante di una sofferenza certa e conosciuta. Kierkegaard dice che l’uomo è allevato dal possibile e che: «Quando si esce dalla sua scuola e si sa meglio, di come un bambino sa le sue lettere, che non si può esigere assolutamente niente dalla vita e che lo spavento, la perdizione, la distruzione, abitano a porta a porta con ciascuno di noi, e quando si è appreso a fondo che ciascuna delle angosce che noi temiamo può piombare su di noi da un momento all’altro, siamo costretti a dare alla vita un’altra spiegazione; siamo costretti a lodare la realtà, quand’anche essa gravi su di noi con mano pesante e a ricordarci che essa è ancora e di gran lunga più facile che non il possibile» (Cfr. Il concetto dell’angoscia).
Il desiderio che sta dietro le resistenze non è, però, qualcosa di sostanziale, di puro, di vero; è anch’esso frutto di stratificazioni successive, storicamente determinate nell’evoluzione dell’individuo. Non credo che esista, neppure per un istante, il desiderio puro. Il desiderio è sempre questo o quel desiderio, frutto già di una difesa e di una resistenza. Perciò la liberazione del desiderio puro, vagheggiata da terapeuti e da politici grossolani brutali, è il massimo della cattiva coscienza e dell’inganno dello psicologismo della neo-borghesia marxista.

La destrutturazione si scontra quindi con l’angoscia derivante dalla mancanza di parametri oggettivi e chiari. Mentre l’analisi procede, la persona perde la sicurezza; spesso scompaiono i sintomi fisici, le conversioni isteriche o i rituali ossessivi, ma si insedia un disorientamento più profondo; un disagio confuso. Perciò la destrutturazione deve essere sempre accompagnata da un tentativo di nuova ristrutturazione: questo è il lavoro analitico, questo è il lavoro terapeutico.
Indubbiamente, la storia di un’analisi attraversa momenti in cui si distrugge più di quanto non si costruisca, e viceversa; ma la destrutturazione è già anche costruzione e la costruzione è il significato politico rivoluzionario dell’analisi.
La conclusione dell’analisi non coincide col momento in cui la persona ha acquisito una conoscenza chiara ed oggettiva del proprio inconscio, ma col momento in cui, dopo aver superato l’ansia della destrutturazione, conosce un po’ di più i propri desideri ed è in grado di gestirli, usando questa conoscenza per mettersi in grado di inserirsi attivamente in questa realtà per modificarla.
Non ci troveremo certo di fronte un uomo nuovo, libero dal peccato e dal senso di colpa, ma un uomo che ha un po’ meno paura di ciò che è dentro di lui, perché ha accettato molte pulsioni e molte ha tentato di viverle.
La pulsione che fa più paura è quella sessuale: lo sapeva Freud e lo sa Psicoanalisi Contro. E’ impossibile vivere la sessualità senza rituali, senza “a priori”, senza pregiudizi; ma è indispensabile rendersi conto che l’uomo, che la psicoanalisi «ortodossa» giudica sano e normale, sarebbe un nevrotico malato e pervertito, se inserito in un’altra visione del mondo.
Inizio di una destrutturazione è soprattutto questo: volersi liberare delle sofferenze derivanti da un concetto di salute e di normalità, volersi, anzi, liberare dello stesso concetto di salute e normalità naturali. Ciò che la psicoanalisi tradizionale (ortodossa, come si dice) considera perversione costituisce, per noi di Psicoanalisi Contro i modi di vivere la sessualità e i rapporti interpersonali; non tutti questi modi sono da noi considerati, umanamente e politicamente, validi allo stesso modo. E’ vero che dobbiamo scoprire in noi la miriade dei nostri desideri sessuali e tentare di viverli tutti, ma inserendoli però in una visione del mondo che rispetti l’allegria e la dignità umana. Questa, allora, è una scelta ideologica e non scientifica? Può darsi! Ma non è possibile, a nostro avviso, altra scelta.

Il rapporto terapeutico fra due o più persone ha come caratteristica fondamentale, appunto, il rapporto. Freud lo ha chiamato «transfert», ma questo è un termine che definisce soltanto un aspetto del rapporto terapeutico e precisamente la possibilità che abbiamo di usare il terapeuta come una marionetta, o meglio, come una serie di marionette, di cui il paziente diviene il burattinaio.
Nella seduta terapeutica tradizionale il rapporto burattinaio-marionetta è capovolto. Nel teatro il burattinaio osserva e dirige la marionetta, nella seduta psicoanalitica è la marionetta che osserva il burattinaio, rimanendo nascosta.
Il terapeuta è potente, potentissimo, ma non è il burattinaio; si veste di tanti vestiti, si trasforma in tanti personaggi; è il padre, la madre, il fratello, la sorella, la vicina di casa; stranamente ognuno di questi personaggi parla sempre con la stessa voce.
Un ulteriore capovolgimento: la marionetta è più potente del burattinaio; il burattinaio adopera la marionetta per le sue rappresentazioni, ma è la marionetta che spiega al burattinaio ciò che lui sta facendo. Chi ha più potere nel rapporto terapeutico? Il terapeuta che spiega ed interpreta e che, quindi, possiede la verità, o il paziente che manipola il terapeuta, ne dipende, ma lo nega come persona reale?
Io, paziente, sono una persona reale per il mio terapeuta. Io, come terapeuta, ho il terrore di non essere una persona per il mio paziente. Del resto, se il terapeuta è persona concreta, presente e non solo una marionetta nelle mani del paziente c’è il rischio che diventi a sua volta burattinaio e che quindi manovri i fili del paziente.
È indispensabile che paziente e terapeuta scendano in platea e si incontrino come due persone in attesa dello spettacolo o, meglio ancora, entrambi devono decidersi a salire insieme sul palco e a dare inizio alla rappresentazione.
Sono scaduto in fantasie parnassiane e decadenti in cui la vita è vista come teatro e gli uomini come marionette; ma questo è, in fondo, il clima culturale fra ottocento e novecento: marionette un po’ stralunate zampettano su uno sfondo liberty, o meglio, secessionista. Freud aveva paura di questo incontro col paziente in platea o sulla scena, perciò scelse di nascondersi, affidandosi al potere della sua parola, misteriosa ed efficace come quella di Jahvé.
La psicoanalisi delle origini ha inventato un rituale per un rito impossibile che si svolge tra un dio potente, ma marionetta, ed un fedele, debole, ma burattinaio: è il rito della cattiva coscienza che chiama «transfert» un rapporto. Eppure tutte le osservazioni freudiane sulle dinamiche trasferenziali sono corrette; solo che isolano alcuni elementi del rapporto terapeutico pretendendo di renderli gli unici. Ogni terapeuta tradizionale, sforzandosi di vivere e di far vivere il transfert, come gli è stato insegnato, condiziona se stesso e i suoi pazienti; e questi sono i casi in cui abbiamo i sogni di transfert interpretati con tre oppure quattro formulette intelligenti, che lasciano per lo più, fuori la ricchezza di un sogno che esprime le fantasie su di un rapporto. Il rito della terapia tradizionale si basa, oltre che sul transfert su altri tre elementi fondamentali: il contro-transfert, il transfert negativo e il contro-transfert negativo. Quattro parametri a sostegno di un rito. Anche Psicoanalisi Contro usa questi parametri, ma li sente come sbarre di una gabbia e per noi il rapporto, anche quello terapeutico, deve essere una liberazione dalle gabbie.

All’inizio della mia ribellione all’ortodossia castrata e castratrice, mi sono tuffato nei rapporti terapeutici con la mia mente, la mia cultura, il mio fisico, la mia sessualità; poi mi sono accorto che non era possibile continuare in quel modo perché rischiavo di essere insincero; adesso mi rendo conto che dal rito non si scappa: l’importante è viverlo con sufficiente ironia. L’ironia è la salvezza dal rischio dell’ottusità terapeutica; gli psicoanalisti, in genere, ne posseggono pochissima, almeno quelli che ho incontrato sulla mia strada. E’ importante che il rapporto terapeutico sia un rapporto d’amore, senza limiti prefissati, ma con poca ipocrisia.
Io, terapeuta, sono disponibile con tutto me stesso, anche con il mio corpo; però ho scoperto che disponibilità non vuol dire insincerità o violenza contro se stessi.
I terapeuti di Psicoanalisi Contro non riescono a curare se non si innamorano (ho usato provocatoriamente il termine «curare» per metterlo in contrapposizione simmetrica al «curare» della scienza terapeutica neutrale). Certo, ci si può chiedere come si riesca ancora a gestire un rapporto terapeutico che non ha limiti, e il cui rituale ha una realtà simbolica da viverci con ironia e un po’ di vergogna, e che quindi si affolla di tanti e tali elementi che non si capisce più niente. E’ vero, infatti che così i parametri da seguire diventano quasi infiniti; ma noi rispondiamo che in questo caso la psicoanalisi viene in aiuto a se stessa; essa è infatti una cosa così ambigua e allo stesso tempo così perfetta e onnicomprensiva che la si può usare nella realtà della situazione terapeutica anche quando questa è così intricata da così tante e tanto proliferanti dinamiche. Con stupore ci si accorgerà che il meccanismo del lavoro terapeutico psicoanalitico può continuare senza essere disturbato, come se niente fosse. La realtà da analizzare è più
ricca, ma questo va a vantaggio, non a scapito dell’analisi. Il rapporto di amore con il paziente non si esprime soltanto con la sessualità, ma anche con la voglia di compromettersi e soprattutto con la voglia di diventare persona reale. Il paziente diviene a sua volta maggiormente persona reale, con un più completo contatto con se stesso e la propria libido, spezzando le costrizioni dei sintomi e dell’ottusità. Paziente e terapeuta diventano entrambi persone reali con tutta la loro concretezza e fisicità. La terapia finisce quando tutto quello che il terapeuta poteva dare al paziente è stato dato.

Quasi sempre chi va da uno psicoterapeuta non vuole avere di fronte a sé un essere umano, ma qualcosa di più, o di diverso; ha bisogno di essere passivo e passivizzato, vuole la magia, la parola liberatoria e chiarificatrice. Si fanno molte fantasie sul terapeuta, sulla sua vita, sulle sue relazioni, sui suoi gusti, sui suoi organi genitali e sul suo modo di usarli. In realtà però il paziente non ha nessuna autentica curiosità; quello che vuole è parlare di sé ad un oracolo. Quando qualche paziente, meno narcisista, meno stupido e con buon senso dell’umorismo tenta di porre domande al terapeuta questi, in genere, riesce con molta più facilità di quanto non si creda a stornare la domanda, rispondendo con la frase classica, e un po’ ridicola: «Lei sta mettendo in atto delle resistenze, vuole farmi parlare di me per non parlare di sé… ». La situazione tipica della nevrosi e della psicosi di questa società è proprio questo ostinarsi a voler vivere gli altri negando loro la realtà e concretezza di persone; nel chiedere aiuto agli altri, ma rifiutando di sentirli, di percepirli, di ascoltarli. Viviamo circondati da persone che parlano troppo poco e da persone che parlano troppo, ma nessuno ascolta; silenzio o parole hanno la stessa funzione di diaframma tra sé e gli altri.
Tutto questo riappare esasperato nel rapporto terapeutico quando all’abitudinarietà dell’atteggiamento del paziente vi si aggiunge la complicità del terapeuta.
Due ci paiono essere i significati fondamentali dall’analisi: uno consiste nell’appropriazione, da parte del paziente, della propria ricchezza pulsionale e della capacità di gestirla; l’altro nella guarigione del terapeuta dal suo sentirsi ed essere sentito come fantasma. La conclusione della terapia deve essere non solo la guarigione del paziente, ma anche la guarigione del terapeuta.

Psicoanalisi contro n. 1 – La follia

mercoledì, 1 novembre 1978

La follia, la follia! Cosa ti aspetti di sentir dire ancora sulla follia?
Vuoi che ti dica che la follia non esiste? O vuoi sentirti ripetere che i «matti» sono i veri sani? I matti: gente che la sa lunga, che ha capito tutto, gente che ha saputo rifiutare le convenzioni borghesi, la banalità e lo squallore della vita quotidiana. – No agli equivoci, no al compromesso!
Preferisci che indossi gli abiti della scienza e ti parli della «degenerazione genetica », che ti insegni a curare questi poveri malati e con quali « medicine »? Le cellule nervose si alterano, si corrompono…
O ti farebbe piacere sentir parlare di quel po’ di follia che c’è in ciascuno di noi? – Ognuno di noi è un poco matto.
Quando ero più ignorante, più stupido e più ingenuo di adesso (quando ero studente) facevo spesso questa battuta: «Io non posso diventare matto, perché lo sono già ». Ero tanto contento, allora, di poter dire a tutti che ero «matto ». Lo faccio ancora adesso, ogni tanto, in «salotto ».
Come un pavone che fa la ruota, ostento il mio manto di follia con sprezzante sicurezza. Del resto, il mio vezzo di giovane di ieri è anche il tuo vezzo di giovane di oggi.
- Io sono un po’ matto -; detto con allegria. – Io sono matto da legare -; detto con orgoglio. Lo diciamo tutti e tanto basta a convincerci che «noi» matti non siamo. Se vuoi, possiamo buttarla sul raccapricciante: i matti in manicomio. Che sono sporchi, che sono trattati come bestie, che gli fanno l’elettroshock.

C’è Maria Vergine che aspetta di partorire il salvatore del mondo ed è nove anni che è incinta.
C’è Nerone nel cortile, nudo e immobile, con l’occhio fisso davanti a sé, la pelle nera come il carbone sul gran pancione cascante e un lungo filo di sperma che cola perenne e le suorine bianche che gli passano davanti e non si turbano; loro che si scandalizzano tanto per un nonnulla, quel grosso pene al vento non lo vedono neppure; tanto può la carità cristiana che trasforma l’acqua in vino e l’uomo in vegetale!
Qualunque cosa tu voglia sentirti dire sulla follia basterà a renderti tranquillo, a sentirti diverso da «lui», dal matto, che è comunque «quella cosa là», «quell’altro», uno che è «diverso» e che comunque non sei «tu».
Ci sono poi le fabbriche della follia: il grande fabbricone che si chiama «società» e le tante fabbriche e fabbrichette che si chiamano « manicomi» o «istituzioni psichiatriche ».
La materia prima con cui la società produce i matti è la «miseria », ma non tutti i poveri diventano matti: ci vuole anche un dosaggio di vari altri ingredienti, come debolezza, stupidità, egoismo e cattiveria.
Nella società succede però che anche i ricchi, qualche volta, diventino matti: per loro ci sono cliniche con muri ovattati, cure del sonno, bianchi psichiatri come angeli accondiscendenti e pacati, che sono pagati per stare a sentire e non importa se non capiscono. Ci sono ano che angeli speciali, che si chiamano psicoanalisti, così di lusso che riescono addirittura a guarire qualcuno, sono angeli miracolosi.
In genere, i malati ricchi sono contrassegnati dall’etichetta «privato»: cliniche private, medici privati, studi privati, problemi privati.
Il matto povero è invece caratterizzato dall’aggettivo «pubblico»: per lui ci sono pubblici ospedali, pubblica assistenza, lui stesso è un problema pubblico; i manicomi pubblici sono vere e proprie fabbriche sovvenzionate dallo Stato.
Qualcuno finisce anche in manicomio per cause psicologiche: un delirio, un’ansia troppo forte, un rifiuto prolungato oltre il sopportabile, cause psicologiche che si aggiungono, del resto, quasi sempre, all’esclusione, alla disoccupazione, ad una malattia che la vecchiaia ha reso cronica.
In ogni caso il sintomo più grave della follia è proprio il fatto di essere in manicomio: il ricoverato da dieci anni è dieci volte più matto. Per prima cosa il manicomio ti mette l’etichetta di «matto» e poi ti trasforma in un matto vero e proprio: ti trasforma nella psiche e nel corpo, materia inerte nelle mani dello psichiatra sadico e del visitatore caritatevole, che ti danno a poco a poco, la forma interiore ed esteriore più adatta a soddisfare il loro bisogno di follia.
Ma parlare di manicomio non spiega cosa è la follia: quello che per me e per te è la nostra voglia di essere diversi, di non essere rotelle che girano sempre allo stesso modo, del desiderio e non della capacità) di essere più liberi degli altri, di essere provocatori e rivoluzionari perché «lo schizofrenico è rivoluzionario». Questa follia di cui parliamo non esiste!
Ora so che non vuoi sentirti dire cosa significa essere matti. Non vuoi sentirti dire che il matto è una rotella costretta con violenza a ripetere il suo giro, ogni giorno di più. Non vuoi sentirti dire che nella follia non c’è libertà; ma c’è solo un’allucinante coazione a ripetere e sempre gli stessi schemi. Non vuoi sentire che il matto non è libero e non è rivoluzionario.
Il matto non è neanche la descrizione di un matto o la caricatura di un matto.
Il matto ha perso. Il matto ha rinunciato a libertà e rivoluzione. Il matto si ribella da solo. Il matto rifiuta la comunicazione. Il matto rifiuta il contatto. Il matto rifiuta con tanta più forza quanto più ha desiderato; quanto più a lungo il suo desiderio è stato frustrato.
Non ti voglio dire cosa sia la follia.
Non voglio sapere cosa sia la follia.
Io voglio curare la follia.
Io conosco persone vittime e carnefici di sé e degli altri.
Io vivo con loro le storie che hanno alle spalle, la storia che ho alle spalle.
I matti sono cattivi. I matti non sono buoni.
I matti sono i più deboli e i più poveri, ma non i più buoni.
Io sono psicoanalista.
Io non sono un medico buono. lo non sono neanche un buon medico.
Io non dico a uno sdraiato sul divano: Alzati e cammina.
Io non faccio miracoli e non credo ai miracoli.
Io sono un eretico.

Io sono uno psicoanalista di «Psicoanalisi Contro».
Io lavoro con gli esseri umani. Insieme andiamo alla ricerca del passato e della vita. Insieme cerchiamo la consapevolezza. Insieme cerchiamo di riannodare il contatto perduto.
Io non sono contro la psicoanalisi.
Io sono di «Psicoanalisi Contro». lo non ricostruisco normalità perdute. Io cerco la mia anormalità.
Io voglio vivere l’anormalità poetica e sessuale, politica e reale.
Noi di «Psicoanalisi Contro» entriamo nel manicomio per abbatterlo. Il Potere si abbatte anche con la musica e la riappropriazione del corpo. Il Potere del manicomio ha lavorato tanto per annullare nel corpo ogni segno della Coscienza.
Noi non abbiamo potere e abbiamo molta avversione per il Potere.
Noi sappiamo che il Potere non si abbatte con le parole. Ma sappiamo anche che il Potere ci schiaccia di parole sue. Noi crediamo che la liberazione dalla follia passi anche attraverso il recupero di linguaggi che non siano schiavi della parola. Io sono uno psicoanalista eretico: credo nel corpo, nel linguaggio del sesso. Io credo nella politicità del desiderio, vissuto e comunicato.
Un saggio cinese diceva che cambiare il soggettivo è un passo verso il cambiamento reale dell’oggettivo.
Io credo che la normalità sia il male e la follia sia il peggio.
Io credo che il diritto di essere «diverso» sia anche il diritto di essere «uguale ».
Io non sono matto.