Psicoanalisi contro n. 1 – Il disagio mentale. Problema che riguarda anche gli “altri”

novembre , 1978

Il problema della salute mentale è un problema collettivo e politico; le cause della cosiddetta malattia mentale sono anche da ricercarsi nella struttura sociale in cui esse sorgono. Solo alcuni psichiatri deliranti possono ancora dire che la follia sia un problema esclusivamente organico di disfunzione del sistema nervoso. Ci possono essere e spesso ci sono componenti organiche neurologiche, ma il nucleo del problema consiste sempre nelle dinamiche interpersonali, si tratta perciò sempre di un problema soprattutto sociale e politico.
Dire che la follia è un problema sociale e politico non significa però dimenticare che è un problema che riguarda sempre gli individui e non delle entità astratte, che è un problema psichiatrico e perciò anche tecnico. I politici con tutto il loro bagaglio di follia inconsapevole non sono in grado di parlare della follia e, in genere, quando lo fanno non ottengono altri risultati che quello di propagare una situazione di disagio e di inconsapevolezza estremamente pericolose. Un problema «tecnico», non risolvibile cioè con formulette demagogiche.
Il timore di non farcela più psichicamente, l’ansia intensa, sono esperienze che riguardano ognuno di noi. Nessuno è esente dall’esperienza della follia. Ognuno di noi si è sentito, in qualche momento della sua vita, isolato, stanco e confuso; non ha più capito il proprio comportamento ed ha sentito lontani ed estranei gli altri, ha desiderato di non continuare più, di gettare la spugna, di ritirarsi, di rinunciare alla lotta e alla comunicazione. Oppure ha desiderato aggredire, gridare, fare qualcosa di strano. Ognuno conosce l’angoscia radicata e dolorosa che sta dietro a tutto questo. Non esiste una linea di demarcazione netta tra il sano e il malato di mente.
È assurdo e ridicolo dire che i matti sono gli «altri», mentre noi siamo i sani e i normali, che sanno capire e compatire.
Un’esperienza certamente difficile da gestire è quella del rapporto con la follia di chi, compagno o parente, dopo una vita di lavoro e di interessi comuni, manifesta la sua incapacità di continuare attraverso un comportamento improvvisamente incomprensibile. Tutti a quel punto decidono che è «matto» e la scienza gli appiccica il cartellino «schizofrenico» oppure «paranoico» e così via. Noi stessi rimaniamo disorientati, perché diventa veramente molto difficile continuare ad avere un rapporto con quella persona che ora è diventata così incomprensibile e così strana; non sappiamo che cosa fare e sentiamo sorgere in noi tutta l’antica, primitiva paura della follia. Allora desideriamo fuggire, desideriamo rinchiuderlo, speriamo che un «tecnico» esperto se ne prenda cura, agisca su quella mente sconvolta con medicine, facendo qualcosa, fino a rimettere l’equilibrio dove c’è squilibrio. Si fugge dal matto, lo si teme: «adesso sembra tranquillo, ma… ». È questa una paura inconsistente; il pericolo è molto più remoto di quello che corriamo per strada ogni giorno. In realtà, vogliamo allontanare, con la persona, la nostra stessa paura di questo oscuro male.

Fortunatamente non accade sempre così: a volte ci sono persone che, per ragioni affettive, morali o politiche, si pongono il problema di voler continuare a gestire il loro rapporto con i «matti», pur non considerandosi i tecnici della malattia, né volendo sostituirsi ad essi. Ma spesso non si sa proprio che fare. Una stupida letteratura, che vorrebbe essere di sinistra, ha blaterato ai quattro venti che lo psicotico è solo un debole che è stato frustrato e violentato, il frutto di emarginazione ed avrebbe bisogno solo di comprensione. Il che è vero, ma semplicistico, e genera spesso confusione.
Accade infatti che molte persone si avvicinino allo psicotico con affetto, talvolta pietistico, ma, spesso, sinceramente e politicamente consapevole, e spesso si sentano frustrati perché non solo non si vede la follia regredire, ma addirittura si vede il proprio sforzo disprezzato e rifiutato con ostinata e incomprensibile cattiveria.
Il fatto è che il problema è ben più profondo: non basta la carità, cristiana o marxista, non basta la buona volontà, anche se può essere il primo passo. I famigliari di uno psicotico spesso rivolgono una domanda che imbarazza: «Come ci dobbiamo comportare?» Si aspettano una «ricetta»; si aspettano dallo psicoanalista, che conosce i «profondi meandri» dell’animo umano, una serie di regolette a cui attenersi, sul tipo: «Quando dice così, voi rispondete così; quando reagisce in quel modo voi comportatevi in quest’altro modo». È un desiderio legittimo, però può nascondere la volontà di non capire.

Innanzi tutto, a tutte le persone che, in famiglia, sul lavoro, nel quartiere, nel gruppo si trovano a dover affrontare il problema della follia di uno di loro, debbo dire che il comportamento psicotico è sempre anche (dico anche perché, a volte, ci possono essere implicanze neurologiche importanti) un comportamento che è una risposta, una richiesta, un messaggio. Una risposta ad una situazione, una richiesta di aiuto, un messaggio diretto ad ottenere modifiche di un certo comportamento. È da rifiutarsi comunque la regola stupida e squallida imposta dalla tradizione popolare e dalla psichiatria deteriore, secondo la quale il matto ha sempre ragione. Al contrario, con il «matto» bisogna sforzarsi di entrare in comunicazione, bisogna sforzarsi di capire il suo messaggio, bisogna sforzarsi di cogliere il senso di quella risposta; ma non necessariamente per accettarla, talvolta per contestarla, per rifiutarla, perché non sempre è un’esigenza accettabile. Bisogna però sempre sforzarsi di capire e capire non significa sempre approvare.
Il sintomo della malattia mentale non riguarda mai solo l’individuo, ma riguarda sempre anche il gruppo e tutto il gruppo deve sentirsi coinvolto e chiedersi perché. L’analisi deve essere fatta su due piani: un’analisi tecnica, psicologica, meglio se psicoanalitica, fatta da un esperto, per andare alla ricerca dell’origine infantile, delle cause prime, delle prime esperienze che, accumulandosi, hanno condizionato la personalità dell’individuo; fino a giungere alle cause immediate, che hanno il loro peso e, quindi, non vanno sottovalutate addossando tutte le responsabilità ai traumi e alle situazioni infantili. Contemporaneamente bisogna rendere chiaro a tutti coloro che sono partecipi della vita dello psicotico, quanto il disturbo mentale sia frutto di una inter-azione reciproca che, quasi sempre, li riguarda più da vicino di quanto pensino. La famiglia ha il dovere di chiedersi perché uno dei suoi componenti sta vivendo l’esperienza psicotica. Non si tratta solo di amore e di sofferenza, non basta che tutti dicano: «Noi siamo pronti a fare tutto». Quando poi si rifiutano di voler ricercare cosa — nel loro comportamento — ha contribuito all’esplosione della psicosi. Se anche un solo individuo al mondo diventasse matto, tutta la società avrebbe il dovere di chiedersene il perché, e dovrebbe sentirsi chiamata in causa. Ciò vale, a maggior ragione, quando questa esperienza riguarda qualcuno che vive con noi da molto tempo o da sempre.
Non sempre la cosiddetta «terapia famigliare» è utile; il più delle volte, si tratta di un’ennesima aggressione, perpetrata con l’aiuto di un tecnico, alla persona che soffre. In particolare, ciò vale per quelle forme di terapia della famiglia che non hanno un’impostazione psicoanalitica. Si tratta, in questi casi, di una violenza che viene dall’esterno ad insegnare elementari o catechistici precetti per mutare il comportamento di una famiglia. Questo tipo di intervento è spesso più dannoso che utile ed è sempre, e soprattutto politicamente, inaccettabile.
È importante che i membri di un gruppo si chiedano, prima di tutto, il perché del problema mentale scoppiato tra di loro, e se pure hanno bisogno dell’aiuto di un tecnico, non accettino di delegare completamente ai tecnici la soluzione dei problemi connessi alla malattia mentale.
Il solo metodo di intervento che risulti corretto nei confronti di ogni problema terapeutico, è quello che ne ricerca la soluzione attraverso la presa di coscienza.