Psicoanalisi contro n. 1 – Intorno al sogno (1^parte)

novembre , 1978

Non intendo affrontare il problema del sogno in modo sistematico e organico. Non intendo neppure esporre le principali teorie sul sogno che si sono avvicendate nella storia della nostra cultura. Vorrei solo fare alcune considerazioni, stimolato dal mio giornaliero lavoro sui sogni altrui e anche sui miei.
Il sogno ha affascinato gli uomini da sempre per la sua presenza inquietante e misteriosa. Non esistono persone che non sognino, non esistono persone che non siano state turbate almeno, una volta nella vita, da un sogno. Nell’arco della giornata ognuno di noi vive, ricordandola o no, l’esperienza di parecchi sogni. Nell’antichità gli interpreti dei sogni erano persone specializzate e circondate da considerazione e rispetto. Parallelamente alla concezione che vede nel sogno qualche cosa di misterioso e di soprannaturale, si è venuta sviluppando quella che considera i sogni costruzioni strampalate della mente che nel momento del rilassamento si lascia sfuggire brandelli di pensiero e di immagini senza nesso e organizzazione; ingenui e confusi aborti della sua attività vigile.
Gli studi sulla fisiologia del sonno e dei sogni non hanno ampliato molto le conoscenze sul primo e sui secondi. Forse è stato abbastanza importante, ma talvolta penso possa valere come semplice curiosità, aver scoperto le due fasi del sonno: il sonno profondo e il sonno paradossale; divisione in base alla quale si distingue una fase del sonno senza sogni da un’altra fase (detta «rem» = rapid eyes mouvement) in cui i sogni si presentano. La natura misteriosa, bizzarra, poetica del sogno non si è ancora lasciata imprigionare dagli schemi fisiologici.
Il lavoro di analisi della psiche usa il sogno come suo materiale privilegiato: non importa a quale scuola appartenga lo psicologo che vi mette mano. A molti psicoanalisti, forse a tutti, penso sia venuto in un momento della loro vita professionale, il sospetto di star lavorando su qualcosa di incosistente o, ancor peggio, di star giocando con bolle di sapone.
I terapeuti, in genere, hanno la presunzione, che serve anche a dare sicurezza, di intervenire con strumenti concreti su qualcosa di concreto: analisi di laboratorio, corpi da palpare, sintomi fisici apparentemente oggettivi. Il paziente racconta le sue sensazioni fisiche ed espone la storia del loro sviluppo; il terapeuta, sempre sospettoso, osserva, ausculta, affonda le sue dita nei tessuti, sente la vita degli organi interni e poi affida quel corpo a strumenti meccanici che registrano la situazione dell’organismo e posseggono una sensibilità maggiore di quella dei sensi umani, anche se esercitati da lunghi anni di esperienza. Questo accade nel rapporto terapeutico che si propone la «cura» del corpo. Quando si affronta la «cura» della psiche è ovvio per chiunque che i sintomi siano meno precisi, le descrizioni più ambigue. Con poco successo la psicologia sperimentale tenta di fornire allo psicoterapeuta dati e parametri completi e non equivocabili.

La sensazione di lavorare su qualcosa di inconsistente, usando parametri equivoci, raggiunge il massimo grado quando si mettono le armi su di un sogno. Il racconto del sogno è spesso frammentario ed oscuro, il linguaggio verbale non riesce a riprodurre moltissime delle sensazioni oniriche. Il terapeuta si rende ben conto di queste difficoltà, non solo perché gliele comunica il paziente con frasi del tipo: « … sì, ma non è cosi… » « … è questo, ma non è proprio questo… » «non riesco più a dirlo, non perché non ricordi, ma perché mi mancano le parole»; ma anche perché ha vissuto direttamente l’esperienza coi propri sogni. Quando al mattino mi sveglio il mio sogno mi appare come una nebbia di sensazioni e di immagini, che ondeggia e svapora lentamente; le figure del sogno sono sovrapposte, le sensazioni attorcigliate le une alle altre. Quando mi racconto un sogno ho l’impressione di raccontarmi, quasi, un altro sogno.
Le parole sono come recipienti troppo piccoli: molto materiale trabocca e va perduto. Qualche volta perciò lo psicoanalista alla fine di una giornata trascorsa in buona parte a rovistare tra i variopinti stracci dei sogni ha talvolta l’angoscioso sospetto, che subito reprime, di non essere uno scienziato. A questo punto, per rassicurare qualche estimatore della psicoanalisi, ma soprattutto per rassicurare me stesso, potrei avventuararmi in una lunga disquisizione filosofico-politica con la quale aggredisco e tento di distruggere la figura stereotipa dello scienziato tradizionale, dimostrando come le sue certezze si basino su ipotesi precarie e confuse e le sue analisi di laboratorio siano troppo spesso imprecise e contraddittorie.
Ma questa è una strada che, al momento, non ho voglia di percorrere; mi viene solo di dire che, abbandonando un po’ di presunzione e qualche segno di identificazione infantile, lo psicoanalista può vivere in prima persona lo sforzo di incarnare la figura dello scienziato nuovo, problematico, auto-ironico, un po’ bluffatore e questo lo deve anche, in parte, al fatto che lavora con i sogni.
Il sogno ha essenzialmente la funzione di realizzare un desiderio. È un’affermazione questa che è diventata classica non solo della saggezza popolare, ma anche degli scienziati del sogno. Parallelamente alle argomentazioni che venivano portate per sostenere questa tesi sono
stati però fatti anche molti tentativi per contestare al sogno questa sua caratteristica.

Tutte le lingue occidentali usano la parola sogno per indicare anche qualcosa di meraviglioso e di desiderabile; ciò vuol dire che nella tradizione popolare è profondamente radicata la convinzione che nel sogno si manifestino desideri e si cerchi di realizzarli almeno fantasmaticamente. Il sogno è spesso contrapposto alla realtà, quindi una cosa di sogno è considerata spesso una cosa irrealizzabile, un desiderio assurdo; però non per questo il sogno perde la sua caratteristica di realizzazione fantastica di un desiderio, anzi esso esprime un desiderio quanto mai profondo, intimo, inconfessabile; come se uno dicesse a se stesso: «almeno in sogno… », e di tutto ciò la saggezza popolare è protondamente convinta. Però la tradizione popolare ha messo anche in atto una massiccia resistenza nei confronti di questa consapevolezza; perciò si è preferito immediatamente affiancare all’asserzione che nei sogni si manifestino i desideri quella che interpreta il sogno come l’inserzione nel quotidiano del soprannaturale e del metafisico. Ecco che i sogni furono visti, e sono visti tuttora, come messaggi premonitori: nel sogno entra la divinità per comunicare con gli uomini, per guidarli, ammonirli e minacciarli. Ecco che nei sogni entrano i demoni e le forze malefiche per turbare, angosciare e sviare. Ecco che nei sogni entrano le figure dei morti per consigliare guidare o fare richieste ai vivi.
Ovviamente su questa congerie di messaggi contrastanti e contraddittori è allignato subito un ricco commercio: alcune persone ricavano potere e denaro interpretando i sogni. Se il sogno acquisisce un carattere sacro, sacre saranno considerate anche le persone che ne comprendono i geroglifici. Il sogno perde la dimensione del temporale del quotidiano; il passato, il presente e il futuro si fondono e anche per questo il sogno guarda oltre la rigida struttura temporale della veglia. Non credo che aver attribuito al sogno anche quest’altra natura sia dovuto solo alla resistenza popolare nei confronti del sogno visto come realizzatore di desideri.

Penso che le caratteristiche formali del sogno che lo fanno essere un elemento misterioso ed inquietante abbiano fatto sorgere nell’uomo sia il desiderio di protezione dall’ignoto sia quello di utilizzarlo a scopi pratici di immediata utilità come la previsione del futuro. L’uomo ha sempre cercato protezione dall’ignoto: l’ignoto, l’indecifrabile lo turbano: è meglio una conoscenza errata di un messaggio indecifrabile. L’uomo ha sempre cercato anche di utilizzare tutto ciò che viene a trovarsi fra le sue mani o gli si para di fronte: il sogno, con la sua interpretabilità elastica, è un utile elemento da usare come un faro che rischiari un pochino in avanti, verso l’ignoto, la strada della vita: «Se il futuro ci parla nei sogni, non è poi così impenetrabile, oscuro». Questa razionalizzazione del sogno serve quindi a capovolgerne la natura: da misterioso, impreciso, inquietante, il sogno diviene protettivo. Questa razionalizzazione ha però, secondo me, soprattutto la funzione di negare, o meglio di difendere, gli uomini da ciò che la tradizione aveva intuito: cioè che i sogni manifestano dei desideri. Il sogno come desiderio è estremamente scomodo perché nonostante la simbolizzazione e la deformazione (anche questi, caratteri che servono a difenderci dalla consapevolezza del desiderio), ci fa intuire dentro di noi la presenza di pensieri e voglie, assolutamente rifiutati dalla ragione, che ci repellono e ci disturbano. Questo discorso vale non solo per il singolo, ma anche per la collettività: come si potrebbe tollerare nelle buone madri il desiderio di torturare o di concupire incestuosamente i figli? Nelle caste spose il desiderio di infilare la lingua nella vagina di un’attrice famosa? Come potrebbe la collettività tollerare che il sogno dell’eroe contenga un insulto alla bandiera o in quello del servo si celi il desiderio di decapitare il buon padrone? E’ preferibile leggere i sogni come oscuri messaggi dell’al di là o utili premonizioni per il futuro. Meglio consultare il vecchio saggio che dopo aver ascoltato il nostro sogno ci metterà in guardia contro un nemico bruno oppure ci suggerirà i numeri da giocare al lotto.
Nel lavoro onirico i desideri sono manipolati, mescolati, cammuffati, resi abbastanza innocui; ma quello che il lavoro onirico non riesce a fare ecco che lo fa l’interpretazione razionalizzatrice e pratica della cultura quotidiana.

Prima ho detto che l’essere umano è spaventato dall’ignoto e dall’indecifrabile, adesso affermo che ancor più paura gli fanno i propri desideri, che sorgono da un oscuro abisso di pulsioni indistricabili: abisso nel quale penso nessuno di noi abbia il coraggio di immergersi fino in fondo.
La nuova scienza dei sogni: la «psicoanalisi» ha iniziato affermando in modo perentorio che i sogni, oltre ad avere una funzione protettiva del sonno, sono una realizzazione di desideri per lo più inconsci e infantili. Affermazione decisa e precisa, rimasta assoluta però solo per qualche anno. Poi la ricerca sul sogno incominciò ad affollarsi di altre esigenze. Ricominciarono soprattutto le considerazioni sui sogni profetici. La corrente più positiva, o positivistica, della psicologia dinamica ha interpretato i sogni cosiddetti premonitori come manifestazioni a livello onirico di propositi della psiche, già presenti a livello inconscio, che in seguito spingeranno a compiere una determinata azione, anticipata quindi nel sogno. Ancora si disse che certi disturbi dell’organismo i quali cominciano con leggére sensazioni di dolore in qualche parte del corpo vengono anticipati con l’inserzione di queste sensazioni sgradevoli, per lo più amplificate, nella trama dei sogni. Ecco che quindi si può dire che i sogni talvolta prevedono l’insorgere di qualche malattia organica.
Se nel primo caso la previsione non contraddice l’affermazione di base che il sogno sia la realizzazione di desideri; perché, tutto sommato, pur attraverso lo stravolgimento del lavoro onirico, il sogno anticipatore potrebbe in questo caso soddisfare il bisogno di compiere una certa azione, sia pure a livello allucinatorio; nel secondo caso sembrerebbe invece contraddire l’affermazione di base, poiché fa vivere al sognatore una sensazione sgradevole che lo mette in allarme, facendogli presentire un pericolo per la sua integrità fisica. Con una osservazione più attenta si potrebbe però dire a questo proposito che neppure in questo caso il sogno sfugge al principio di esprimere un desiderio: infatti o la sensazione sgradevole viene incorporata per realizzare il desiderio di continuare a dormire, oppure viene stravolta nel tentativo di essere negata, oppure ancora si potrebbe osservare nel sognatore un inconsapevole ma reale desiderio (per qualche scopo inconfessato) di ammalarsi.

Uno studente di medicina che aveva una grossa paura di affrontare un esame di anatomia racconta il seguente sogno, fatto qualche notte prima dell’esame:
«Mi sentivo un grande peso sullo stomaco; avevo mangiato e bevuto troppo (in sogno, non nella realtà). Io ero nudo con il ventre gonfio e dolente; dovevo andare all’esame, ma ero molto affaticato e non riuscivo a trovare i vestiti. Mi premo la pancia con le mani e incomincio a vomitare una gran quantità di cibo quasi non masticato, a cui sono frammisti brandelli del mio testo di anatomia. Il materiale che mi esce dalla bocca è in quantità spropositata, mi circonda e mi impedisce i movimenti, paralizzandomi». In effetti, la sera precedente il giorno dell’esame, lo studente, dopo aver studiato troppo (indigestione di anatomia), aveva cercato di rilassarsi andando in cucina, svuotando il frigorifero, mangiando e bevendo moltissimo con voracità e senza criterio. Nella notte aveva avuto un gran mal di pancia e il mattino seguente stava ancora male ed aveva una scusa sufficientemente valida per non affrontare l’esame.
Come appare abbastanza evidente, questo, più che un sogno premonitore, è un sogno «suggeritore», in cui viene realizzato il desiderio di non doversi presentare all’esame per cause di forza maggiore. Inoltre lo studente, pur giurando di esserselo ricordato solo in quel momento, confessa a me e a se stesso che il mattino seguente il sogno, guardandosi il ventre nudo e liscio aveva pensato: «Certo che una bella indigestione potrebbe anche essere utile… ».
Le correnti meno positiviste e più metafisicheggianti della psicologia dinamica hanno avvicinato sempre più il sogno alla profezia in senso stretto Queste scuole parlano di stravolgimento della dimensione spazio-temporale, Per cui nel sogno il futuro non è più così futuro, come il passato non è più così passato; per cui, nel sogno, il poi può diventare: adesso.
Prima, adesso e poi, si realizzerebbero nei sogni in una dimensione tutta particolare in cui le categorie del quotidiano e della veglia sono superate. Non voglio affrontare qui il problema della presenza della parapsicologia o del magico nella psicoanalisi; voglio soltanto dire che anche così interpretati i sogni non perdono certo la loro caratteristica di esprimere un desiderio. Ci si potrebbe porre il problema: «Ma quando il fatto che viene previsto nel sogno non è per nulla nei desideri del sognatore?».
La mia esperienza non ha mai trovato sogni di questo genere. Debbo però dire che sono abbastanza consapevole che l’esperienza di ogni scienziato o studioso è costituita più da elementi affini a ciò che egli si propone di trovare e assai meno da elementi che egli non ha voglia di cercare. Nonostante ciò, ripeto che non ho mai trovato sogni che non realizzino un desiderio di chi li sogna. Può darsi che cercare altri elementi nei sogni, oltre al desiderio, sia un atteggiamento scientificamente corretto, valido e proficuo (la ricerca non si deve mai fermare, le possibilità devono essere tutte vagliate e su ogni argomento le ipotesi di lavoro possono essere infinite), però io sono abbastanza convinto che nell’atteggiamento di coloro che resistono all’ipotesi del sogno-desiderio vi siano anche resistenze e fuga.
Fuga da che cosa? Fuga dalla paura che i desideri fanno. Anche i ricercatori, soprattutto se terapeuti, hanno paura dei desideri altrui, ma soprattutto dei propri. Il desiderio troppo spesso è una presenza scomoda, scottante, di cui ci si vorrebbe liberare perché ci umilia. Per di più, il sogno è una realtà psichica in cui i parametri esterni che distinguono il bene dal male vengono aboliti.

Fatevi raccontare, nel reparto di un ospedale, il sogno che lo psichiatra ha fatto nella notte, e poi fatevene raccontare uno da un ricoverato, per esempio, da uno schizofrenico: troverete sì delle differenze personali tra un sogno e l’altro, differenze di fisionomia, io direi anche di poesia; però vi sarà assai difficile dire quale è il sogno della persona sana di mente che vive fuori dall’istituzione e fa il medico e quale è invece il sogno di uno schizofrenico, ricoverato in ospedale, dove subisce le terapie che gli somministra proprio quel medico. Certo, nei due sogni si presenteranno desideri diversi, nascondenti angosce diverse, ma i desideri del terapeuta non sono più confessabili e meno bizzarri di quelli del «malato». I desideri di entrambi sorgono da bisogni oscuri, inconfessabili, assurdi, che sconvolgono.
La psicoanalisi ha avuto il grande merito di distruggere le barriere rigide tra sano e malato di mente. Ha fatto vedere come i comportamenti umani, di qualunque natura essi siano, sorgono da meccanismi primordiali e inconsci, presenti in ogni essere umano. La storia di ognuno si differenzierà da quella dell’altro: per qualcuno sarà una storia più organica e felice, per qualcun altro disorganica e angosciata. Alcuni riusciranno a controllare, almeno in parte, sé e gli altri, altre persone saranno invece travolte e diverranno inutili vittime e inutili carnefici.
Il sogno, visto come espressione di desideri non disturba solo il ricercatore esperto che specula e costruisce teorie; disturba anche il terapeuta principiante, sommerso da tutte le insicurezze di chi incomincia il lavoro di terapeuta e il disturbo diventa addirittura un disastro se il terapeuta è timido.
Quando il sognatore racconta un sogno in cui appaiono chiare per il terapeuta, ma oscure per il narratore, pulsioni molto rimosse, il terapeuta alle prime armi (e non soltanto) spesso si sente a disagio: non sa se dire o non dire, se svelare o non svelare. Prende il fiato facendo fare le libere associazioni; tira un sospiro di sollievo quando queste fluiscono ricche e ampie a prova dell’interpretazione intuita; allora il terapeuta pensa tra sé e sé: «Meno male, queste cose che avrei fatto fatica dirgli se le è chiarite da solo; le associazioni sono così chiare e lampanti… tutto è venuto a galla spontaneamente… ».

A questo punto, con desolata costernazione, si accorge che il sognatore non ha minimamente colto l’intepretazione implicita, non l’ha neppure intuita; l’azione del terapeuta e lo svolgersi della seduta lo hanno bensì messo un po’ a disagio perché, certo, qualcosa ha subodorato, ma egli sta facendo di tutto per sfuggire. Allora il terapeuta timido e alle prime armi cerca di convincersi che questa è un’interpretazione che non è ancora il momento di dare; non per nulla gli hanno insegnato che le interpretazioni date al momento sbagliato o cadono nel vuoto o bloccano il progredire del lavoro analitico.
Sotto a tutto questo c’è, però, la paura che ha il terapeuta di dispiacere al suo paziente, di offenderlo, di veder sfumare così quella fiduciosa dipendenza e incondizionata anamtrazione che tanto lo gratificavano. Il giovane terapeuta a questo punto imbocca una scappatoia che egli non crede possa essere dannosa, ma che è pericolosa se diviene un comportamento abituale: anziché interpretare il sogno buttando in faccia al povero sognatore una realtà inconscia rifiutata e scomoda, usa gli elementi del sogno per ribadire una situazione che ha le radici nel presente.
Dal sogno sembrano perciò non tanto prorompere realizzazioni di desideri inconsci quanto sottolineature di alcune caratteristiche importanti per la vita del paziente. Gli si dice: «Ecco, signore, lei è così preoccupato per la salute di sua moglie che teme sempre le possa succedere una disgrazia»; oppure:  «Lei signora ha troppe preoccupazioni per il suo lavoro e queste entrano anche nei suoi sogni»; oppure ancora: «Lei teme di non riuscire a fare l’amore e quindi anche in sogno…».
Pietose menzogne che vedranno però fiorire sul volto del paziente un sorriso di beatitudine e di riconoscenza, magari velato da una tristezza di circostanza: «Oh, come ha ragione… proprio così… come ha puntualizzato bene la mia situazione… ». Se il lavoro di analisi non si arresta a questo punto, ma con lenta cautela prosegue, tutto questo non è molto pericoloso, anzi, talvolta può addirittura essere utile. Non è detto che il terapeuta debba sado-masochisticamente buttarsi a ferire né ad essere ferito.

Io personalmente preferisco prendere un’altra strada. Quando posso prendo un elemento del sogno non troppo scomodo e lo interpreto correttamente. Il paziente, per lo più, a questo punto è pronto a seguirmi. Spesso però lascio cadere il sogno, cerco di parlare d’altro, poi, anche a distanza di qualche seduta, lo riprendo, riprendo anche le associazioni che erano state fatte, e comunico quello che vorrei dire sotto forma di domanda. Nel venticinque per cento dei casi la persona che lavora con me ha l’impressione di essere arrivata da sola all’interpretazione scomoda (ed in parte è così). Nel resto dei casi il lavoro cade, apparentemente, nel nulla. Solo apparentemente, infatti quelle domande, proprio perché non erano soltanto domande, lavorano. A distanza ecco venire fuori la risposta; proprio perché non era solo una risposta, ma era anche una presa di coscienza.
A questo proposito, vorrei sottolineare l’importanza che hanno le domande nella terapia analitica. Domande che non sono soltanto rivolte al paziente, ma che sono anche rivolte al terapeuta a se stesso.
Soprattutto all’inizio della terapia, io comunico soltanto attraverso domande e sottolineature. Intendiamoci: mi riferisco non alle domande iniziali, che sono reali domande per sapere, ma alle domande-messaggio ambigue e simpatiche; argomento questo che ritengo estremamente importante dal punto di vista tecnico e teorico, ma che affronterò e amplierò altrove.
Un ragazzo mi racconta questo sogno:
«Ero in un bar le cui caratteristiche erano a metà strada fra il bar di mio padre (le osterie in cui mi portava nell’infanzia) e un bar francese, come quelli che ora sono abituato a frequentare quando vado a Parigi. C’è confusione, c’è qualcosa che si rompe; io sono lì con in mano un flaconcino di liquido, che mi fa venire in mente un flaconcino di antibiotico; la parola antibiotico mi richiama la parola ammiotico. Dico che c’è troppa violenza e che bisogna recuperare il piccolo gesto come l’equivalenza della rivoluzione, perché c’è troppa violenza; per esempio: a Genova Pré quel ragazzo che mi ha offerto una pistola a tamburo col numero di matricola cancellato».
Andare alla ricerca dei desideri nascosti e simbolizzati nel sogno è difficile non soltanto perché questi sono molto cammuffati o perché talvolta è difficile e imbarazzante comunicarli, è difficile anche perché molte volte sembra fin troppo facile e l’interprete si sente imbarazzato nel dipanare un lavoro onirico per far affiorare un desiderio di cui il sognatore è completamente consapevole e che non si riesce quindi a capire perché debba essere stato travestito nel sogno.

Ciò che balza evidente nel sogno che ho appena raccontato è il desiderio omosessuale del sognatore nei confronti del ragazzo che a Genova Pré gli offre la pistola, cioè il suo membro. Il sognatore era da tempo assolutamente consapevole delle sue pulsioni omosessuali, quindi non si riesce a capire perché, nel sogno, anziché vedere il ragazzo di Genova offrirgli nudo il suo pene in erezione abbia dovuto costruirsi una scenetta utile per nascondere i desideri erotici di una monachella o di un fascistello da palestra. Certo era più facile stupire e turbare i pazienti con interpretazioni scollacciate durante la Belle Epoque!
Oggi spesso i sogni sembrano molto più pudichi dell’immaginazione cosciente: altro che servire per realizzare un desiderio inconfessato e inconfessabile! Spesso svolgono l’inutile lavoro di nascondere, non si sa a chi, desideri, pensieri e pulsioni chiaramente presenti al sognatore durante la veglia. Si potrebbe dire, a questo punto, a difesa del lavoro del povero sogno, che questi pensieri e questi desideri sono cammuffati perché, in fondo in fondo, non sono stati pienamente accettati; ma questa è una difesa molto ingenua perché non spiega lo stesso il perché del lavoro; il sognatore è infatti quasi sempre consapevole anche delle resistenze inconsce che gli impediscono di accettare la realtà di certe pulsioni e quindi il sogno sembra diventare una superflua commediola che voglia nascondere ciò che non si può nascondere. Si potrebbe ancora aggiungere che i cammuffamenti dei desideri già consapevoli possono stare a dimostrare che il rifiuto nei loro confronti è molto più profondo di quanto l’individuo voglia confessare a se stesso. Questa spiegazione talvolta può funzionare, ma mi pare rozza e claudicante.
Per ritornare al sogno, di cui stavamo parlando, si potrebbe dire che esso riproduce una sensazione gradevole vissuta nella realtà: alla mia domanda se realmente egli si era trovato a Genova e se gli fosse stata offerta da un ragazzo una pistola il sognatore mi rispose affermativamente e, senza fatica, mi disse che già allora aveva sentito quell’offerta come una proposta sessuale. Allora il sogno era soltanto la riproduzione di un gioco erotico vissuto chissà quando? Povero sogno, non servi più a niente, non nascondi più niente!
Per fortuna, il sogno è ben più ricco, le immagini, le sensazioni si affollano: perché la pistola ha il numero cancellato? Ecco che, con un pochino di resistenza al sognatore viene in mente l’associazione: numero cancellato uguale N.N., cioè figlio di nessuno. Mettiamo da parte quest’osservazione. E’ importante la parola violenza; quale tipo di violenza? La nascita è una violenza, l’inculata è una violenza.

Andiamo avanti: liquido ammiotico e rottura uguale a «rottura delle acque» (ritorno alla nascita). A questo punto il sognatore è meno tranquillo; sente che si dipanano situazioni meno controllate e controllabili. Poi: nella provetta c’è un antibiotico cioè qualcosa contro la vita. Fondamentalente per tutto il sogno è la parola «piccolo». Nelle parole: «piccolo gesto» ritorna una assonanza, cioè gesto uguale e gestazione. Ecco che affiora un altro desiderio: vivere un rapporto omosessuale è purtroppo sterile; recuperare perciò una gestazione, un piccolo gesto, questo è rivoluzionario: io, maschio, voglio partorire essendo stato fecondato da un maschio e vorrei essere stato partorito solo da un maschio.
Andiamo avanti: N.N…. a questo punto, per discrezione, debbo fermarmi; ovviamente, l’analisi di questo sogno continua. Io la presento con tutti gli elementi, anche in modo abbastanza frammentario, per far vedere quante cose ci siano in un piccolo sogno; e quanto i cammuffamenti e le stratificazioni siano molteplici, gli uni in funzione delle altre. Desideri infantili e desideri del presente; il tutto retto da desideri che non verranno mai alla luce perché appena accennati, o troppo nascosti, o troppo lontani. Io penso che l’analisi di un sogno, forse, dovrebbe estendersi per mesi e mesi; ma per inesperienza degli analisti e per pigrizia una grandissima quantità di materiale utile viene sprecata. Io, però, non credo che il lavoro onirico sia soltanto teso a cammuffare desideri scomodi, anche se, indubbiamente, questa è una delle sue caratteristiche fondamentali. Io credo che il sogno riproduca in modo più vivido una situazione continua, propria del modo di essere dell’uomo: cioè la quasi infinita e onnidirezionale struttura dei linguaggi.
L’essere umano è un cumulo di linguaggi; ogni movimento psicofisico è una forma di linguaggio più o meno embrionale. L’uomo è una relazione e un insieme di relazioni con il sé e con gli altri; egli tende quindi alla comunicazione continua con sé e con gli altri: linguaggio = comunicazione = contatto. Lo scambio osmotico è continuo tra umori interni, sensazioni e pensieri del singolo con se stesso e con gli altri. Reagire all’ambiente non vuol dire soltanto muoversi, avvicinandosi o allontanandosi da…; per l’uomo, almeno secondo me, vuol anche sempre dire cedere e acquistare qualcosa: cioè comunicare.
La nostra cultura ha privilegiato la comunicazione verbale (o meglio: si sforza di privilegiarla). Fiumi di carta sono impiegati, e talvolta sprecati, per analizzare la struttura del linguaggio verbale come se questo fosse «il linguaggio». Parallelamente altri contrappongono al linguaggio verbale il linguaggio corporeo, come se fosse sostanzialmente diverso o addirittura antitetico.

Io penso che il sogno riproduca il momento più intricato dei linguaggi pure se, per le stesse ragioni culturali, anche nel sogno viene privilegiata la manipolazione della parola; affermazione, questa ultima, di cui non sono per nulla certo. Io ritengo che la stratificazione delle immagini, delle sensazioni, delle parole, che rende il sogno talvolta così incomprensibile, non sia altro che il nostro abituale modo di comunicare senza però che ci sia possibile fare ciò che facciamo durante la veglia, quando dirigiamo il faro dell’attenzione ora su una, ora sull’altra delle strutture linguistiche privilegiando bensì quella verbale, ma vivendo paralleIainente anche altri tipi di comunicazione. Il parallelismo, o meglio la simultaneità di più linguaggi stravolgono le strutture spazio-ternporali nel sogno e danno anche al linguaggio verbale una polidireziorralità insospettata che lo schematismo rigido che ci governa, durante la veglia ci fa per lo più sfuggire…
Ho già accennato alla inadeguatezza del linguaggio verbale per esprimere il sogno e ho anche detto che, spesso, quando si racconta un sogno si ha l’impressione di raccontare un altro sogno e si ha l’impressione di distruggere il sogno così come è stato vissuto e di esporne soltanto una larva sbiadita. Le parole lasciano fuori una grande quantità di sensazioni, emozioni ed immagini. Richiamandomi anche, in parte, a ciò che ho detto prima, credo di poter affermare che le cause di questa sgradevole sensazione sono tre:
1) La reale inadeguatezza di ogni linguaggio. Il linguaggio, come ho già detto, è la manifestazione di noi all’altro; l’altro però può anche coincidere, in questo caso, con noi stessi; il linguaggio cioè è sempre uno strumento di relazione che esprime anche relazioni di relazioni. Il linguaggio tende all’infinito: costruisce relazioni che si relazionano a loro volta e anche queste relazioni di relazioni si organizzano in relazioni e così via. Proprio questa catteristica di tendere all’infinito (che rappresenta quindi il suo limite inteso in senso matematico) dà al linguaggio le sue possibilità-impossibilità di esprimere tutto (non mi riferisco qui al solo linguaggio verbale, ma ad ogni tipo di linguaggio, di cui supponiamo l’esistenza o che neppure riusciamo ad immaginare). Ogni struttura linguistica, inoltre, insieme con il proprio limite a cui tende, si relaziona con le strutture linguistiche di altro tipo. Il complesso di tutte le strutture linguistiche tende a sua volta ad un limite.
A questo punto, vorrei inserire un esempio traendolo dal linguaggio musicale, sperando di essere abbastanza semplice e chiaro da essere compreso anche da chi non lo conosce che approssimativamente. Il linguaggio musicale «classico» dell’occidente si compone di 12 segnali fondamentali: i 12 semitoni che, messi in ordine partendo dal suono più grave per giungere a quello più acuto, formano la cosiddetta scala cromatica (non affronto qui il problema di come e perché si sia giunti alla scala temperata). Da questi si trae la serie di 7 suoni che serve a formare le varie scale tonali.

Combinando, sia successivamente nel tempo che contemporaneamente, i vari suoni tratti dalle scale tonali, secondo regole linguistiche precise, con questi 12 segnali fondamentali si è venuto costruendo il discorso della musica occidentale tradizionale. Con 12 suoni fondamentali le combinazioni di accordi che possiamo ottenere sono numerose (parecchie non usabili secondo le regole dell’armonia classica), ma non infinite (*). Come ho però già detto, la combinazione di suoni non avviene soltanto per sovrapposizione (ciò che semplicemente si chiama accordo), ma anche per successione nel tempo, con singoli suoni di durata variabile (ciò che comunemente viene detta melodia). Perciò la dilatabilità di un periodo (melodia) e di un discorso musicale (successione di melodie) è di fatto infinita; così pure la possibilità di iterazione di un accordo è, di fatto, infinita (quando qui dico infinito, non voglio dire innumerevole, ma realmente e matematicamente infinito). Ogni linguaggio è inoltre caratterizzato sempre anche dall’espressività emozionale. L’espressività emozionale, in musica, è data dall’intensità del suono e dalla libera e arbitraria dinamizzazione delle macchie sonore, a sua volta matematicamente e infinitamente variabile.
Ovviamente ci sono barriere pratiche che arrestano ad un certo punto questo tendere al limite delle possibilità dell’espressione linguistica. Questa barriera è data dal gusto, dallo stile, dalla sopportabilità psichica per il compositore e per l’ascoltatore; da una durata necessariamente limitata nel tempo e così via.
Il linguaggio musicale occidentale, così pieno di regole, apparentemente imprigionato in uno schema limitato, tende, di fatto, all’infinito. Per di più, il linguaggio musicale, basato sui 12 suoni non è che uno dei possibili linguaggi della musica.

I suoni sono vibrazioni la cui frequenza è esprimibile con numeri, quindi possono essere infiniti e infinita può essere quindi anche la loro combinazione. Infiniti perciò possono essere i linguaggi musicali e infinite le relazioni tra di loro. Sarebbe assurdo ritenere il linguaggio musicale chiuso e incapace di relazione con gli altri linguaggi: tattile, visivo, verbale, ecc.
Come si vede facilmente quindi, un solo linguaggio tende, già di per sé, ad una infinita possibilità di espressione e di espressioni, per relazioni interne e per relazioni di relazioni ed anche tende al limite nel rapporto con gli altri linguaggi, costruendo rapporto di rapporti.
Il tentativo di fare il punto di una situazione psichica conscia e inconscia comporta sempre un enorme margine irriducibile. È anche questo senso di irriducibilità che dà al linguaggio psicoanalitico la sua caratteristica di linguaggio idoneo ad esprimere un pensiero scientifico moderno, anti-ottocentesco e antidògmatico.
2) La seconda ragione della sensazione di inadeguatezza è strettamente legata alla natura del linguaggio verbale. Il linguaggio verbale, oltre alla impossibilità di dire tutto ciò che vorrebbe, possiede anche la straordinaria possibilità di dire più di quanto si desidererebbe. Le parole sono equivoche, le frasi sono equivocabili; talvolta, nostro malgrado, parole e frasi aggrediscono, feriscono, illuminano: cioè fanno prendere coscienza. Le frasi di parole sono molto spesso lo strumento della nostra chiarezza e ciò malgrado che molto filosofi da strapazzo del Novecento e alcuni cineasti ingenui abbiano voluto giocare con le affermazioni splendidamente profonde dei sofisti, riducendole a formulette goffe il cui unico significato vorrebbe essere quello di mettere in luce la difficoltà degli uomini a capirsi. Attraverso le frasi ognuno di noi si avvicina alla comprensione di se stesso. Le frasi dicono spesso cose scomode; non solo imprigionano emozioni molto ricche, sfrondandole e riducendole, ma talvolta ci inchiodano con chiarezza inequivocabile, alla quale soltanto la nostra cattiva coscienza ci permette di ribellarci. Allora si tira fuori l’aridità del lingiingio verbale, si dice che le parole sono oscure, ambigue e riduttive; questo è anche vero, però troppo spesso queste argomentazioni vengono usate come meccanismi di difesa contro la presa di coscienza. Da cui una malintesa esaltazione delle teorie che fanno riferimento alla comunicazione corporea.
Perché parlo di malinteso? Perché si tratta troppo spesso di una ottusa fuga dal lavoro intellettuale e verbale della presa di coscienza. Bamboleggiando con toccamenti, sguardi ridicoli, sculettamenti e mugolii, coloro che non hanno il coraggio di comunicare con sé e con gli altri per mezzo delle parole non credano di poter comunicare toccandosi gli alluci al suono di un sitar indiano.

Queste ingenue teorie, per lo più orecchianti la “weltanschauung” dell’oriente, riducono quelle lontane culture millenarie profonde e sottili al gioco epidermico di ciarlatani e damerini annoiati, alla ricerca di nuove e facili sensazioni. Io penso che la comunicazione corporea, insieme con la comunicazione verbale e alle comunicazioni pre-verbali siano per la nostra cultura estremamente importanti, tutte dobbiamo coglierle e di tutte dobbiamo appropriarci. Però guai se comunicazione verbale e comunicazione non verbale vengono usate indipendentemente o, peggio, vengono contrapposte, soprattutto usando le seconde come fuga dalla chiarificazione che le parole sanno portare. Spesso le parole servono a far luce su un desiderio, ci costringono ad ammettere che lo proviamo e ci obbligano a metterlo in discussione e non semplicemente a farcelo vivere in modo più o meno inconsapevole. Non bisogna soltanto parlare di carezze e di schiaffi; bisogna anche avere il coraggio di darseli; però, spesso, dire anche a noi stessi la parola carezza o schiaffo ci costringe a mettere in discussione il gesto corrispondente, ci aiuta ad appropriarcene in pieno.
Quante volte lunghi giorni di vita o pesanti situazioni emotive, vissuti o rifiutati nello stesso tempo, ci calano addosso con tutto il loro peso e il loro significato dopo una frase pensata o udita. Non so se la consapevolezza possa fare a meno della parola; però credo che senza la parola la consapevolezza (e di conseguenza la vita) non possa essere completa. E’ giustissimo lottare per liberarci dalla schiavitù di una cultura che ha privilegiato la parola; però bisogna anche lottare per liberare la parola dalla paura di esser troppo chiara. Tutti i linguaggi (verbali e non) tendono all’espressività infinita, nel loro insieme essi formano l’uomo e gli uomini.

Ecco perché la matassa aggrovigliata dei sogni, fatta di parole rese immagini, parole stravolte, sensazioni visive, tattili, ecc.; resiste spesso a trasformarsi in un frase piana e chiara: perché allora, con la sua precisione, ferirebbe chi sogna e lo costringerebbe a rendersi conto dei propri desideri, a vederli di fronte a sé, sfrondati di sensazioni che le parole non sanno esprimere, ma arricchiti di una precisione pungente e chiarificatrice.
3) La terza ragione è data dal fatto che il sogno è costituito in modo che si direbbe le formule verbali ne costiruiscano una parte importantissima, difficilmente è però riducibile alla successione lineare e unidirezionale del linguaggio parlato. Il sogno si esprime in un modo assai più simile all’espressione musicale in cui le formule linguistiche non solo si succedono nel tempo, ma si presentano anche sovrapposte.

Io credo profondamente vera l’affermazione che ritiene il sogno costituito, in buona parte, di formule verbali, con le quali il sogno gioca e che sbriciola e muta in immagini e in altre sensazioni. Talvolta il sogno prende le parole, le sovrappone, le attorciglia, ne lascia brandelli sotto forma di espressioni verbali che lentamente si trasformano in altri tipi di sensazioni: come Dafne si trasformò in lauro.
Come ho già detto, questo intrico è estremamente difficile da sciogliere e la parola risulta così molto inadeguata.
Ho detto che le formule verbali costituiscono, se pure stravolte, una parte importante del materiale onirico; è però estremamente difficile riconoscerle, reperirle, districarle dalla marea di sensazioni di altro tipo (sensazioni a loro volta riducibili, almeno in parte, a parole). Il lavoro onirico usa parole, frasi, periodi, assai più di quanto non sembri a chi sogna. Non credo che esista un sogno nella cui trama non siano contenute una o più espressioni verbali. Sono talvolta parole isolate, più spesso modi di dire consueti, o frasi sentite adesso o nel passato e che hanno colpito in modo particolare.
E’ importante non dimenticare, quando si fa un lavoro interpretativo sui sogni, di cercare di sciogliere gli intrichi di parole, sulle parole e con le parole. Una giovane mamma mi racconta: «Ho sognato di trovarmi in una palestra; assistevo ad una serie di rapporti sessuali, eterosessuali ed omosessuali, di coppia e in gruppo. Io ero ferma, abbastanza tranquilla, e guardavo incuriosita. Ora che sto raccontando il sogno mi rendo conto che in ognuna delle scene erotiche cui assistevo era coinvolta una ragazza che mi assomigliava. Nel sogno ho assistito, poi, a una scena molto strana, estremamente difficile da esprimere con le parole: la ragazza presente in tutte le scene (notare la resistenza a ripetere l’espressione più rapida e semplice: «La ragazza che mi assomigliava»), faceva l’amore in un cesto; non si vedevano altre persone, non mi pareva che si stesse masturbando, non riesco ad esprimere bene che cosa facesse e in che cosa consistesse in pratica questo fare l’amore in un cesto; ricordo un grande cesto di vimini, la ragazza nuda… non so dire meglio».
A questo punto la narratrice fa una pausa, rimane un po’ in silenzio, poi soggiunge: «A proposito, vorrei aggiungere che la scena, dell’amore nel cesto, me l’ero dimenticata. Prima di uscire di casa per venire qui ho ripassato mentalmente il sogno per raccontarlo senza ricordarmela, poi, salendo in macchina e prendendo in braccio il bambino (il figlioletto ha un anno circa), mi è tornato in mente quest’ultimo pezzo».
Fu anche troppo semplice trasformare l’immagine della sognatrice che fa l’amore in un cesto nella frase: «Io compio un incesto». Le altre forme di sessualità erano state appena un po’ allontanate dalla consapevolezza facendo agire in essi una ragazza somigliante, ma non coincidente, con la sognatrice; però la pulsione più scomoda e imbarazzante ha avuto bisogno di nascondersi maggiormente per riuscire a scaricarsi e lo ha fatto giocando sull’espressione verbale: nel cesto= in cesto = incesto.
Talvolta i giochi sulle parole possono essere assai più complicati: un ragazzo in un sogno unì due parole che provenivano da due filoni tra loro lontani del discorso onirico, facendoli coincidere in un punto, formando così una terza espressione che aveva a sua volta un significato emotivo (sessual-aggressivo) per tutti e due i filoni di pensiero; l’espressione-risultato fu: «Raffica» di mitra. I due pensieri confluiti a formare la parola «raffica» derivavano rispettivamente uno dai pensieri su di un amico di nome «Raffaele», l’altro da una serie di pensieri sull’organo femminile, comunemente detto, alla buona, «fica». S’intende che a questo risultato giungemmo dopo un attento e lungo lavoro di analisi del sogno.
Il sogno è quindi un concentrato di pensieri e di sensazioni. Questo è il modo che ha il sogno di parlare. Non credo che il camuffamento dei pensieri onirici sia dovuto soltanto al tentativo di nascondere al sognatore i suoi pensieri inconsci. I molteplici linguaggi e le varie formule espressive, tutti tendenti all’infinito, non si presentano nel sogno successivamente: prima un bel discorso verbale, poi una serie di sensazioni visive, poi le sensazioni corporee, prima le espressioni piacevoli, poi quelle spiacevoli… e così via. Ogni nucleo del sogno è polidirezionale. Noi siamo abituati a chiamare troppo spesso la polidirezionalità col nome di contraddittorietà; diciamo pure allora che i pensieri dei sogni sono anche contraddittori. Nei sogni, A può essere anche contemporaneamente non-A: il terzo escluso non è escluso per niente. Io preferisco la polidirezionalità.
Dopo tanti anni di lavoro sui sogni è una banalità giungere ad affermare che essi non sono assurdi, eppure questa è un’affermazione che è indispensabile fare a questo punto del discorso; magari di fretta e con un po’ di vergogna, con la consapevolezza di dire una verità scontata, stra-ripetuta; ma è utile ribadirla. I sogni non sono più assurdi o meno assurdi della veglia, tendono ad esprimere con poliedrica ricchezza la poliedricità della nostra esperienza. Non è tanto il discorso della relatività del rapporto spazio-temporale che riesce a costruire una nuova visione del mondo, quanto la consapevolezza della contemporaneità, o meglio, della compresenzialità di forme linguistiche ed espressive diverse.

È probabile che in un atomo di sogno, come nella monade leibniziana, si riassuma tutto l’universo psichico ed esperisenziale di una persona. Certo, l’interprete del sogno non deve andare alla ricerca di una aristotelica non contraddittorietà e di una chiarezza lineare. Il sogno non è assurdo: è ricco; certo, la sua ricchezza non può essere tutta compresa ed analizzata. Operativamente lo scienziato che si occupa del sogno deve abbandonare ogni atteggiamento di onnipotenza, rinunciare alla pretesa di spiegare tutto con dimostrazioni non equivoche, prove chiare e idee distinte.
Un’ipotesi di interpretazione di un sogno è anche sempre solo un’ipotesi; se serve a raggiungere gli scopi terapeutici e di chiarificazione che ci eravamo prefissi, possiamo dire con tranquillità scientifica che era un’interpretazione corretta. Il sogno sfugge più che mai ad una riduzione lineare. I meccanismi di causa ed effetto probabilmente esistono anche nei sogni; ma il meccanismo causale è molto lontano dal riduttivismo del pensiero raziocinante del metodo cartesiano.
Abbiamo detto fino ad ora che il sogno è un complesso di espressioni polidirezionale; ma abbiamo anche detto che queste espressioni esprimono bisogni e quindi desideri. Spesso sono desideri in conflitto, ecco perché si presentano in modo così bizzarro. La risultante dell’energia pulsionale desiderante non è un’unica forza, ma a sua volta si irradia e si dirama. I desideri di un sogno non sono mai riducibili ad un unico desiderio; non sono mai neppure riducibili ad un desiderio dominante.
Per comodità terapeutica, talvolta, l’analista sceglie uno dei desideri e una delle energie pulsionali che stanno dietro e vi punta sopra la sua attenzione. Se il terapeuta è consapevole di operare una scelta dimostra allora di non essere un ingenuo, ma se crede di esaurire l’interpretazione portando alla luce un’unica pulsione ed un unico desiderio commette un’ingenuità imperdonabile. Per fortuna, se quest’ultimo caso si verifica, è il sognatore spesso che, insoddisfatto di un risultato troppo riduttivo, prosegue il lavoro interpretativo; sta al terapeuta avere il buon senso di seguirlo. A proposito dei desideri onirici, si può dire ciò che si è detto dei pensieri onirici (che, dopotutto, sono la stessa cosa): non esiste una contradditorietà reale di desideri e di pulsioni, ma una polidirezionalità. Certo, talvolta in un sogno si presenta un desiderio e anche il suo contrario: si può sognare di voler raggiungere una meta e contemporaneamente inserire nel sogno un elemento che dimostra che si vorrebbe anche non raggiungerla mai. Un maestro di vita, un saggio tradizionale e austero, direbbe in questo caso al sognatore: «Ragazzo mio deciditi: o vuoi o non vuoi; un uomo di carattere deve essere tutto di un pezzo, deve volere una cosa e cercare di realizzarla nei limiti del possibile». Il sogno invece risponde: «Perché devo decidermi, rinunciando a una parte del desiderio? Purtroppo sarò costretto a decidere, ma ci sono ragioni per cui vorrei raggiungere quella meta e altre per cui non vorrei. Il desiderio desidera e basta».

Qualche volta, i sogni di angoscia sono frutto, appunto, della compresenza di pulsioni opposte. Purtroppo l’inconscio non è esente dalle caratteristiche della coscienza in generale: la contradditorietà è vissuta come assurdità. L’assurdo, come l’ignoto, disturba e l’angoscia è il segnale di un tentativo di difesa. L’assurdo è talmente rifiutato, anche dall’inconscio, che gli si preferisce l’angoscia. L’inconscio, come la coscienza, è educato, da moltissimo tempo, a reagire con angoscia di fronte all’incomprensibile. L’assurdo è il grado massimo dell’incomprensibilità e viene espresso essenzialmente dalla contradditorietà. Per me è molto facile fare un discorso apologetico dell’assurdo, difendere l’assurdo, qui, ora, mi sembra nobile; ma probabilmente questa apologia non è altro, anche per me, che una difesa dall’assurdo. Spero che, da qualche parte nella mia psiche, ci sia anche un po’ di consapevolezza di questa difesa; ma non ne sono per niente sicuro. Le stratificazioni degli elementi del sogno sono quindi innumerevoli: al di sotto stanno le pulsioni contrastanti che si esprimono in desideri contraddittori. Questi desideri cercano di farsi percepire attraverso pensieri diversi che si diramano in tutte le direzioni. L’espressione di questi pensieri sceglie una gran quantità di linguaggi, forse neppure tutte note a chi sogna. Già di per sé questa stratificazione darebbe al sogno una fisionomia complessa, articolata, difficile da decifrare. Per di più la compresenzialità dei desideri di segno opposto inserisce il bisogno di pensieri di angoscia. Al di sotto di tutto opera il bisogno e il desiderio fondamentale di scegliere il piacere maggiore e la sofferenza minore. E’ per questo che il sogno camuffa quelle pulsioni che disturberebbero troppo per la loro natura moralmente inaccettabile. Questo monumentale castello, pieno di segrete, stanze, corridoi, scale e torri viene costruito anche dal più piccolo sogno.
Il sogno esprime, in modo estremamente ricco e completo, la natura di una personalità. Anche chi non è abituato ad un lavoro di lettura del sogno ne sente il fascino. Quando viene raccontato un sogno coloro che ascoltano vi proiettano su, con estrema facilità, i propri desideri e i propri pensieri.
Il sogno attira su di sé pensieri spontanei più ricchi e meno difesi dei pensieri che vengono fuori stimolati da semplici domande dirette. Ogni sogno, per la sua natura elastica e caleidoscopica, comunica sempre qualcosa a tutti ed ognuno riesce a trovarsi uno stimolo alle associazioni; ad ognuno permette di liberare pensieri ed espressioni in cui i meccanismi proiettivi si presentano allo stato quasi puro. Potremmo dire che il sogno stimola sogni. Io uso molto spesso, nella psicoanalisi di gruppo, l’analisi collettiva e proiettiva di un sogno. Quando un componente del gruppo racconta un sogno da me ritenuto adatto all’interpretazione proiettiva, io invito tutti gli altri membri del gruppo a fare con me un accurato lavoro di analisi del sogno in questione, poi chiedo ad ognuno di interpretare il sogno. Invito sempre all’interpretazione spontanea, libera dal desiderio di fare bella figura davanti a me e agli altri. Cosa questa che in realtà avviene in minima parte: più o meno consapevolmente, ognuno cerca di usare le proprie conoscenze teoriche per dare un’interpretazione brillante senza scoprirsi troppo; però basta quel poco di obbedienza alla mia richiesta ed anche la leggera fretta che io metto a far sì che chi interpreta proietti, con sorprendente schiettezza, massicciamente, talvolta con una semplicità ed ingenuità che sbalordiscono.
In un gruppo un ragazzo racconta il seguente sogno: «Mi trovavo in una grande piazza antica; io dovevo vestirmi con un bellissimo costume del seicento, dovevo fare molta attenzione perché il costume non era soltanto di foggia antica, ma era realmente antico, quindi la stoffa preziosissima e ricamata si sarebbe potuta sgualcire e lacerare. Dopo essermi vestito ed avere compiuto una serie di gesti che non ricordo (mi pare di aver succhiato una colomba; ma non so cosa voglia dire quest’espressione), ho preso in mano un campanello di quelli che si usano in chiesa o anche per chiamare la servitù. Con un martello o con una pinza tentavo di schiacciarlo, o forse anche di staccare il battacchio. Mi dispiaceva però rompere un pezzo del campanello, non so bene quale, in cui c’era una bellissima incisione. Questa incisione, ad un certo punto, si trasforma in qualcosa da mangiare, io ho fame, mi sveglio». Le associazioni stimolate dai compagni del gruppo rivelano con chiarezza due desideri: il primo di essere bello e nudo di fronte a me (il terapeuta) e di piacermi psichicamente e fisicamente. La piazza antica è infatti associata al mio studio, arredato con mobili antichi, per quel che riguarda l’abito del seicento, il sognatore sa che il mio stile preferito è il barocco e ha associato il vestirsi allo spogliarsi, però rivela contemporaneamente al desiderio di spogliarsi la resistenza a farlo col timore di strappare il vestito, che solo distruggendosi (e ciò avrebbe procurato a me dispiacere) lo avrebbe messo a nudo. La colomba del sogno è associata alla colomba della pace, poi a Picasso, casso, cazzo.