Psicoanalisi contro n. 1 – La psicosi e la psicoanalisi

novembre , 1978

Psicoanalisi Contro ha deciso di intervenire all’interno dell’istituzione manicomiale per una serie di ragioni. Alcune sono chiare, politicamente giustificabili e sufficienti, altre sono ambigue, oscure e contraddittorie.
Le motivazioni più scomode da dichiarare sono quelle che derivano dal nostro delirio di onnipotenza e dal nostro bisogno di affermare che, tutto sommato, non siamo «matti»; tanto è vero che ci permettiamo persino il lusso di entrare in un manicomio, dal di fuori, con le nostre gambe, spontaneamente, non trascinati là dall’ululato di una sirena dopo una chiamata al 113, e, per di più, siamo anche quelli che, tutto sommato, stanno dalla parte dei terapeuti.
Il nostro delirio di onnipotenza si è espresso proprio nel buttarci con incoscienza ed entusiasmo dentro e contro una mastodontica struttura come il S. Maria della Pietà: manicomio provinciale, che si regge su di un giro di miliardi, guidato da baroni astuti e scaltri, da psichiatri potenti, da suore ed infermieri potentissimi; brulicante di operatori più o meno volontari e politicizzati ed infestato da benefattori e benefattrici alla ricerca della folcloristica commozione sul matto.
Sotto tutto questo interessi politici molto grossi e spesso incomprensibili.
Nonostante ciò, appunto, Psicoanalisi Contro ha l’ardire di confrontarsi con questo bestione semiparalitico e apparentemente immortale.
Il problema delle istituzioni totalizzanti non si è presentato soltanto quando abbiamo avuto la possibilità di «infiltrarci» nel S. Maria della Pietà: avevamo già discussò a lungo questo problema, elaborando analisi politiche spesso anche pertinenti. Molti di noi, inoltre, per ragioni di studio o di lavoro, si erano già trovati a frequentare l’istituzione manicomiale; ma fino ad allora il problema era stato soprattutto personale e dopo tutto le responsabilità più grosse venivano delegate agli altri. L’ospedale veniva vissuto come un’entità quasi astratta, con i contorni poco definiti ed ognuno di noi incontrava persone diverse e si trovava ad affrontare problemi personali che cercava di risolvere come meglio poteva, gestendo anche la propria angoscia.
Il problema teorico delle psicosi ci ha perciò interessato fin dall’inizio del nostro lavoro e si è immediatamente saldato con il problema politico dell’istituzione. Per questo abbiamo accettato di «operare» dentro, pur senza saper bene che cosa fare; avendo soltanto il preciso intento di rimanere coerenti con alcuni atteggiamenti ideologici che avevamo accettato già prima e fuori del manicomio.

A questo punto il problema teorico e il problema politico si ricongiungono. La psicosi nell’istituzione è, di fatto, un’altra cosa che la psicosi all’esterno.
La psicoanalisi tradizionale, che già vacilla nell’affrontare il rapporto con lo psicotico nell’ovattato studio di uno psicoanalista, si trova assolutamente disorientata e spaurita di fronte alle aggressioni farmacologiche degli psichiatri, all’esistenza paradossale dei ricoverati, all’irritazione e alla frustrazione che questi inducono in chi si avvicina a loro.
Ancora adesso ci chiediamo se non sia meglio teorizzare sulla psicosi astrattamente, cercando di chiarirne il significato, e contemporaneamente agire anche prima di aver risolto tutti i nostri dubbi teorici; agire quindi anche senza sapere prima tutto il come e il perché. E ovvio che a questo punto ci siamo trovati di fronte alla nostra ansia di destrutturazione.
Di fatto, questo nostro discorso è quanto mai problematico, ambiguo, contraddittorio. Non solo, nei confronti della psicosi nell’ospedale psichiatrico non abbiamo le soluzioni in tasca, ma non abbiamo neppure le tasche. Eppure noi ci ostiniamo tentando di dare un significato alle ore passate in manicomio in compagnia di quelli che vengono chiamati i «matti».
La psicoanalisi freudiana ha assunto fin dalle sue prime formulazioni un atteggiamento rinunciatario nei confronti delle così dette psicosi; probabilmente ciò deriva anche dal fatto che Sigmund Freud abbia operato soprattutto al di fuori degli ospedali psichiatrici e con persone che, tutto sommato, accettavano liberamente di sottoporsi al suo intervento, costrettevi soprattutto dal loro personale stato di disagio psichico. Non è casuale che l’unica forma psicotica che Freud ha esposto con esauriente ampiezza sia quella del Presidente Schreber, personaggio che Freud conobbe soltanto attraverso le sue memorie, quindi senza alcun contatto diretto.
A parte queste considerazioni sulla biografia freudiana e sulle sue personali resistenze ad affrontare la psicosi, la psicoanalisi ha giustificato teoricamente e con argomentazioni non del tutto deliranti il suo rifiuto di intervenire in proposito.
Le argomentazioni che giustificano questo rifiuto ad agire possono essere sintetizzate in due punti: il primo riguarda la situazione attuale dello psicotico, il secondo la genesi delle psicosi.

Lo psicotico perde buona parte del contatto con la realtà per un massiccio disinvestimento libidico oggettuale, che rende praticamente impossibile l’instaurarsi del «transfert» e, quindi, rende impossibile il lavoro analitico; lavoro basato soprattutto su di un processo di presa di coscienza da parte di qualcuno che, in fondo, percepisce la realtà in modo sufficientemente simile a quello del terapeuta, rendendo così possibile la lotta contro i fantasmi che nel terapeuta si incarnano via, via, evidenziandoli e riconoscendoli per poi riuscire a vincerli. Lo psicotico, invece, chiuso nel suo delirio, disinteressato al mondo esterno, mette in atto una lotta silenziosa contro i suoi fantasmi che rimangono solo suoi e che egli si rifiuta di comunicare. Perciò Kohut può dire: «La stima dell’influenza esercitata dalla personalità del terapeuta acquista un’importanza particolare nella valutazione dei risultati terapeutici della psicoterapia delle psicosi e dei cosiddetti stati «limite» (Stern, 1938). Non si può dubitare dell’apporto fornito a certi straordinari successi terapeutici, ottenuti con adulti o bambini profondamente disturbati, dal fervore quasi religioso del terapeuta o dal suo sentimento profondo di santità spirituale (vedi ad esempio, Schwing, 1940, p. 16). L’influenza esercitata può emanare direttamente dal terapeuta carismatico, o può essere trasmessa attraverso la mediazione del gruppo terapeutico di cui egli è il leader (…). In ultima analisi si tratta in questi casi di una cura attraverso l’amore — anche se è un amore profondamente narcisistico! — che si avvicina all’atteggiamento combattuto da Freud quando dovette confrontarsi con gli ultimi esperimenti terapeutici di Ferenczi (…). Certamente nessuno dovrebbe criticare dei successi terapeutici, ottenuti con disturbi pressoché intrattabili, per il fatto che sono stati realizzati grazie all’influenza diretta o indiretta della personalità del terapeuta. Quello che è discutibile invece sono le razionalizzazioni secondarie che tentano di dare rispettabilità scientifica ai procedimenti adoperati. Il problema di sapere se una forma di terapia sia sostanzialmente scientifica, o se dipenda dall’ispirazione del terapeuta (…) dev’essere risolto rispondendo ai seguenti quesiti:
1) Esiste una comprensione teorica sistematica dei processi implicati nella terapia? 2) Il metodo del trattamento può essere comunicato ad altri, può cioè essere imparato (e in ultima analisi messo in pratica) senza la presenza del suo creatore? 3) Il punto più importante: Il metodo del trattamento rimane efficace dopo la morte del suo creatore? E’ specialmente quest’ultimo evento che purtroppo sembra rivelare troppo spesso che la metodologia terapeutica non era scientifica, e che il successo dipendeva dalla presenza concreta di un singolo individuo particolarmente dotato» (H. Kohut, Narcisismo e analisi del sé, Boringhieri, Torino, 1976)

A proposito della genesi delle psicosi la psicoanalisi afferma che essa si radica nelle epoche preedipiche. L’Edipo ha per Freud una capacità unificante della personalità ed ha inoltre la proprietà di porre saldamente in contatto l’Io del bambino con l’Io degli altri; cioè gli permette di impossessarsi della realtà.
Lo psicotico è colui che, disturbato nei suoi primissimi anni di vita, è riuscito a raggiungere una soltanto apparente e frammentaria unità dell’Io ed ha un labile contatto con il mondo esterno. È una persona che non è mai diventata «persona», ma è rimasta un cumulo di pulsioni parziali senza un preciso orientamento unificatore.
Oggi la psicoanalisi (anche la più «ortodossa») non è più così drastica nei confronti delle psicosi, infatti, sia pur con molte diffidenze e cautele, molti psicoanalisti affrontano terapeuticamente il problema. Così dice la Zetzel (Psichiatria Psicoanalitica, 1973): «Man mano che continuavano le indagini di Freud, egli gradualmente estrapolava gli stadi ormai a lui famigliari del primo sviluppo sessuale. Le scoperte relative al contenuto, cioè di materiale indicativo di diversi livelli di sviluppo pulsionale, furono messe in relazione da lui e da altri pionieri della psicoanalisi con diversi tipi di disturbi psicologici. Sono stati fatti quindi parecchi tentativi di classificare la malattia mentale nei termini della teoria psicoanalitica delle pulsioni. Nell’insieme questi sforzi non sono stati del tutto soddisfacenti».
E prosegue: «Se si riflette un poco non è difficile capirne il perché. Man mano che i diversi livelli di sviluppo pulsionale vengono sperimentati da tutti gli individui che stanno maturando, non è sorprendente che i sintomi o i tratti di carattere che riflettono i diversi livelli di tale sviluppo possano essere riscontrati in una ampia varietà di situazioni cliniche. Le scoperte della psicoanalisi inoltre sono state ottenute principalmente attraverso l’uso della tecnica psicoanalitica. Con il passare del tempo è diventato sempre più chiaro che questa tecnica non può essere usata senza significative modificazioni nel trattamento di gravi disturbi del carattere, di casi limite e di malattie psicotiche. La conoscenza psicoanalitica delle nevrosi, compresi in esse i meno gravi disturbi nevrotici del carattere, è molto più ampia della conoscenza avuta fino a oggi sulla genesi e sulla natura di disturbi più gravi. Inoltre le aumentate conoscenze derivate da osservazioni sia analitiche sia obbiettive indica l’estrema importanza del periodo preverbale per la futura salute mentale. Siamo così giunti a riconoscere che i pazienti su cui ci piacerebbe sapere di più sono coloro che di regola sono capaci di dirci di meno. Può darsi che dobbiamo accettare una situazione paradossale. È la psicoanalisi che ci ha aiutato a diventare consci dell’estrema importanza dei primi mesi e anni di vita. Ma è proprio in questo periodo che può darsi che la psicoanalisi debba accettare le limitazioni del proprio metodo d’indagine, e cioè la tecnica psicoanalitica, e rivolgersi ad altri metodi d’indagine per trovare risposte migliori».
La psicoanalisi ortodossa quindi ritiene di non avere strumenti adeguati per affrontare le psicosi. In realtà si è fatto notare da più parti come i primi casi di isteria affrontati da Freud non fossero così lontani dalla psicosi e si possano considerare come situazioni pre-psicotiche o casi limite. Il problema della psicosi è sempre presente nel pensiero freudiano. In ogni caso, Freud ritiene che la psicoanalisi serva, operativamente, assai bene per comprendere la genesi e il significato della psicosi, sebbene non abbia poi gli strumenti adeguati per affrontarla.

L’analisi del presidente Schreber, da molti (anche ortodossi) criticata, è sì l’analisi della genesi di un disturbo ed è piena di osservazioni interessanti sulla ricchezza della fantasia umana; però, di fatto, vuole essere una terapia impossibile. In fondo, Schreber è un foglio di carta, o meglio: è un sogno di Freud! Freud stesso ha compreso, del resto, e questo è un assunto teorico, non soltanto una concessione, come le manifestazioni nevrotiche e quelle psicotiche non abbiano una differenza sostanziale: le seconde non sorgono da una corruzione morale e genetica, così come le prime non sono comportamenti così diversi dai comportamenti e dai disturbi più consueti della vita quotidiana. Per questo gli esseri umani non si possono distinguere in: normali, nevrotici e psicotici. Il discorso è, per Freud, se mai, un discorso quantitativo.
Queste osservazioni possono sembrare ovvie, anzi, logore. Tutti ormai dicono che la pazzia è in ognuno di noi, che non c’è differenza tra il sano ed il matto e così via. Queste affermazioni sono pericolose in bocca a coloro che le usano per disfarsi del problema del disagio mentale con un’allegra superficialità che non serve a nessuno; esse hanno però un significato fondamentale per chi voglia affrontare questo problema operando in campo psicologico e psichiatrico, cercando di capire qualche cosa delle situazioni esistenziali altrui e delle dinamiche inconsce e non. Ci si accorge allora di come i parametri interpretativi imparati sui libri si frantumino al contatto con la realtà delle persone.
E’ vero che ci sono individui che rifiutano il contatto e il dialogo, che alcuni di essi sono immersi in un delirio persecutorio, altri chiusi nelle loro difese narcisistiche, altri fissati in meccanismi rituali ossessivi, altri sono terapeuti che fanno dell’interpretazione la più brutale arma per allontanare il contatto col paziente e con tutti. Noi non vogliamo negare l’esistenza di situazioni di destrutturazione massiccia in cui è difficile intervenire a causa del disorientamento del paziente e del terapeuta; però vogliamo affermare che le diagnosi sono uno strumento più dannoso che utile perché imprigionano paziente e terapeuta entro schemi in cui è difficile muoversi con scioltezza.
Certamente esistono delle costanti di comportamento che si possono, per convenienza operativa, classificare; ma il tutto è estremamente precario, fluido e ambiguo.

I trattati di psichiatria affermano che l’oligofrenico deriva la sua insufficienza mentale anche da una insufficiente mielinizzazione del sistema nervoso centrale, però, quando si osserva la storia di una di queste persone si trovano spesso situazioni di emarginazione, di brutalità subite, di abbandono assai precoce e così via. Allora ci si chiede quale sia l’importanza reale dei lipidi, delle proteine, delle neurocheratine. «Lesione del nevrasse» va bene, ma quante altre lesioni? Oppure non vogliamo considerare psicotico l’oligofrenico, ma solo uno stupido? E diciamo che psicotica è quella signora che crede le abbiano infilato degli elettrodi nel cervello per captare i suoi pensieri. Anche questa però è una risposta ad una situazione. E non sempre lo psicotico è la vittima, talvolta è il carnefice che usa il suo delirio per schiacciare, opprimere, castrare. Comunque bisogna sempre analizzare una situazione, un’esistenza, una realtà sociale. In tutto questo le dinamiche inconsce danno la tonalità, l’armonizzazione di base. Per la formazione della personalità, quindi anche della personalità psicotica, ha un ruolo importantissimo, secondo la psicoanalisi, il tirannico complesso di Edipo. Abbiamo detto tirannico perché è un polo accentratore, un punto focale attorno al quale e nel quale confluiscono, si risolvono e si dissolvono, buona parte delle dinamiche che nella storia della persona contribuiscono a darle una unità e una organizzazione. Anche se Freud non ci ha lasciato una esposizione organica e completa del complesso di Edipo, questo si è venuto lentamente costituendo come concetto fondamentale, concetto base, della psicoanalisi, sia per come è intuito nella autoanalisi dello stesso Freud che per come si presenta in buona parte delle esposizioni teoriche e cliniche.

Già nel 1897, in una lettera del 15 ottobre a Fliess, Freud scriveva:
«Si comprende l’interesse palpitante che suscita l’Edipo Re (…) il mito greco si rifà a una costrizione che ognuno riconosce per averne sentita personalmente la presenza.»
Anche se il termine non sarà per il momento ripreso, il suo concetto è presente nell’Interpretazione dei sogni del 1899 e nelle Cinque conferenze sulla psicoanalisi del 1910, chiamato col nome di «complesso nucleare» e presente in modo più o meno velato nelle considerazioni teoriche di questi anni in cui la psicoanalisi si viene costruendo come sistema.
La prima volta che Freud usa il termine «complesso di Edipo» esplicitandone il significato è nell’opera «Su un tipo particolare di scelta oggettuale nell’uomo» del 1911: «Egli incomincia a desiderare la madre proprio nel senso venuto or ora a conoscere, e torna a odiare il padre come rivale che ostacola questo desiderio; egli finisce col ricadere, come siamo soliti dire, sotto il dominio del complesso edipico». D’ora in avanti l’espressione e il suo significato saranno ufficialmente non solo un elemento fondamentale della psicoanalisi, ma anche della cultura comune dei nostri giorni; il complesso di Edipo sarà presente nei romanzi e sui rotocalchi.
L’esposizione, in genere, è molto schematica e semplicistica, mentre per Freud è invece caratterizzata da un fascio di interazioni emotive quanto mai ricco e sfumato.
Non è questa la sede in cui fare un’analisi critica del significato del complesso di Edipo nel pensiero freudiano, e non è neppure la sede adatta per affrontare la storia di questo concetto nella letteratura post-freudiana.
Freud, come ben si sa, fissa il culmine del complesso edipico nella fase fallica ed in questa fase pone quindi la formazione di quelle strutture fondamentali per la personalità che da essa dipendono. Altri pensatori strettamente legati al pensiero freudiano, la Klein e Spitz, per esempio, spingono assai più indietro l’affacciarsi delle formazioni edipiche e le strutture da esse dipendenti. Comunque, per la psicoanalisi ortodossa, il mancato raggiungimento e la mancata risoluzione dell’Edipo procurano, come abbiamo più sopra già accennato, disastri irreparabili nella psiche dell’individuo.

Ovviamente un concetto così importante non poteva non essere attaccato da coloro che contestano a fondo la psicoanalisi. Deleuze e Guattari, per esempio, si ribellano al dominio dell’Edipo e ritengono che la sua importanza derivi non tanto da una sua reale presenza nella storia dell’individuo, quanto da una schematizzazione operata dalla psicoanalisi che non può che interpretare tutto con parametri capitalistico-borghesi, imprigionando quindi l’individuo negli schemi famigliari e nelle dinamiche che ne conseguono. Così essi si esprimono in un paragrafo de L’anti-Edipo intitolato «L’imperiali smo di Edipo»: «Edipo ristretto è la figura del triangolo papà-mamma-io, la costellazione famigliare in persona. Ma quando la psicoanalisi ne fa il suo dogma, non ignora l’esistenza di relazioni dette preedipiche nel bambino, esoedipiche nello psicotico, paraedipiche in altri popoli. La funzione di Edipo come dogma, o «complesso nucleare» è inseparabile da un forcing grazie al quale il teorico psicanalista si eleva alla concezione di un Edipo generalizzato. Da una parte tiene conto, per ogni soggetto dell’uno o dell’altro sesso, d’una serie intensiva di pulsioni, affetti e relazioni che uniscono la forma normale e positiva del complesso alla sua forma inversa o negativa: Edipo di serie, come Freud lo presenta in L’Io e l’Es, e che consente all’occorrenza di ricondurre le fasi preedipiche al complesso negativo.
D’altra parte tiene conto della coesistenza in estensione dei soggetti stessi, e delle loro molteplici interazioni: Edipo di gruppo, che riunisce collaterali, discendenti e ascendenti (in tal modo la resistenza visibile dello schizofrenico alla edipizzazione, l’assenza evidente di legame edipico possono essere assorbite in una costellazione che comprende i nonni (grand parentale), sia che si stimi necessario un accumulo di tre generazioni per fare uno psicotico, sia che si scopra un meccanismo d’intervento ancor più diretto dei nonni nella psicosi, e che si formino così degli Edipi di Edipo al quadrato: la nevrosi, è papà-mamma, ma la nonnina è la psicosi). La distinzione tra immaginario e simbolico, infine, consente di enucleare una struttura edipica come sistema di posti e di funzioni che non si confondono con la figura variabile di quelli che vengono ad occuparli in una determinata formazione sociale o patologica: Edipo di struttura (3+1) che non si confonde con un triangolo ma che opera tutte le triangolazioni possibili distribuendo in un determinato campo il desiderio, il suo oggetto e la legge certo che i due modi di generalizzazione precedenti non assumono la loro portata vera e propria se non nell’interpretazione strutturale. È questa a fare dell’Edipo una sorta di simbolo cattolico universale, al di là di tutte le modalità immaginarie. Essa fa dell’Edipo un asse di riferimento tanto per le fasi preedipiche che per le varietà para- edipiche e per i fenomeni esoedipici (…).

Lo psicanalista è diventato l’attaccapanni di Edipo, il grande agente dell’antiproduzione nel desiderio. La stessa storia del capitale, e del suo mondo incantato, miracolato (anche agli inizi, diceva Marx, i primi capitalisti non potevano non avere coscienza…)».
L’attacco all’Edipo portato con l’atteggiamento e le argomentazioni che sopra abbiamo visto è abbastanza ingenuo e politicamente reazionario. È interessante osservare che il titolo del paragrafo (è ovvio che noi abbiamo scelto di citare questo paragrafo soprattutto per il suo titolo) è «L’imperialismo di Edipo» e, all’interno vi è poi un semplicistico attacco a questo imperialismo. Sarebbe come se si credesse di liberare il mondo dall’imperialismo americano affermando che l’imperialismo e gli americani non esistono, ma sono un’invenzione di Lincoln e Roosevelt. Purtroppo l’imperialismo degli americani e della famiglia esiste e non è presente soltanto come una realtà che ci opprime dall’esterno, è una realtà che ci determina e struttura dall’interno, addirittura con dinamiche che precedono la nostra nascita. Perciò l’essere umano e lo psicoanalista si trovano, loro malgrado e loro buon grado, padri, madri, nonnini e nonnine, sbucare da ogni piega dell’inconscio.
Nonostante questo, l’attacco al monolitico peso dell’Edipo può essere abbastanza utile (preso come chiave interpretativa, non come realtà). Lo schemino un po’ sempliciotto della psicoanalisi per cui l’Edipo struttura le persone e per il quale gli psicotici sono persone regredite allo stadio preedipico che non sono mai riusciti a superare completamente e salutarmente è contraddetto però dalla esperienza clinica. Sarebbe bello se lo schemino fosse vero; in tal caso la chiave interpretativa potrebbe essere usata con facilità e i comportamenti, psicotici e non, diverrebbero, almeno per quello che riguarda la loro genesi remota, comprensibili.

Purtroppo, come abbiamo detto, non è così. Nella storia degli psicotici, anche di quelli che la psichiatria psicoanalitica riterrebbe psicotici puri, si trova spessissimo un Edipo ben strutturato, superato e risolto; mentre, d’altro canto, in persone abbastanza lontane da quello che convenzionalmente è ritenuto il delirio psicotico, si può trovare quasi altrettanto spesso un Edipo che, secondo i parametri della psicoanalisi più ortodossa, non è mai stato raggiunto o superato.
Il mito di Edipo ha nella storia di ognuno configurazioni uniche e irripetibili. L’Edipo (o l’Elettra) che è in noi non ha una collocazione costante, ma sorge, sprofonda e risorge; forse tutta la vita è un’unica fase edipica: l’Edipo che sempre comincia non finisce mai. Anche questo può essere un imprigionamento: per fortuna l’uomo non è soltanto l’Edipo o l’Elettra. Forse la liberazione non avviene con l’uccisione di Laio (o di Agamennone), ma con il suicidio di Edipo (o di Elettra).
Queste sono argomentazioni che ci stanno portando lontano. Torniamo al discorso della psicosi e del suo rapporto con l’Edipo: noi concludiamo, basandoci su osservazioni cliniche, che il superamento dell’Edipo non ha in sé un significato particolare nei confronti della psicosi. La genesi della psicosi ritorna, secondo noi, nel buio dell’ignoto. Il fatto è che forse non è possibile operare elementari e semplici suddivisioni del comportamento umano e andare alla ricerca di una genesi in modo troppo semplicistico. Ci possono essere certamente casi in cui certe realtà infantili e positure molto precoci si prolungano in epoche successive, ma quanto gioca in tutto ciò la nostra interpretazione, data dall’esterno e incapace a cogliere tutte le evoluzioni così diverse dalle nostre? E chi ci dice che anche in queste situazioni l’Edipo non sia stato vissuto e superato? Tanto più che alcune volte l’esperienza clinica ci ha insegnato, ad una osservazione più attenta, che è stato proprio così. Il grosso problema della psicoanalisi è quello di riuscire a instaurare un rapporto con persone avvolte nella incomunicabilità del delirio. È molto importante l’affermazione di Freud secondo la quale il rifiuto o la difficoltà di comunicazione con l’altro dipendono da un ritiro della libido dall’esterno, si potrebbe dire: da una incapacità di sentire sessualmente il mondo esterno. Freud ha chiamato questo atteggiamento «nevrosi narcisistica», identificandola, all’inizio, con la psicosi (cfr. Introduzione al narcisismo, 1914); ha operato in seguito un’ulteriore distinzione usando l’espressione di nevrosi narcisistica nei confronti dei casi di melanconia distinguendola quindi da altre forme di psicosi (cfr. Nevrosi e psicosi, 1924). Non è il caso di avventurarci in una analisi del significato teorico e pratico del concetto di nevrosi narcisistica e di psicosi in Freud; importante osservare invece che per Freud in alcune situazioni particolarmente disturbate, la terapia è difficoltosa o addirittura impossibile, perché è impossibile la relazione col fuori di sé, è impossibile cioè il transfert. Termine questo così importante e abusato che ha quasi perso il suo significato tecnico per entrare ormai nel linguaggio comune.

Nella psicoanalisi, e forse è inutile ribadirlo, il concetto di transfert è uno dei pilastri: «È questo il terreno su cui deve essere riportata la vittoria (…). innegabile che il compito di domare i fenomeni di transfert è particolarmente difficile per lo psicoanalista; ma non bisogna dimenticare che sono appunto queste difficoltà che ci rendono l’inestimabile servizio di attualizzare e di manifestare i moti amorosi sepolti e dimenticati; in fin dei conti, nessuno può essere giustiziato “in absentia” o “in effigie”» (cfr. S. Freud, Dinamica della traslazione, 1912).
Questa famosissima citazione freudiana dice appunto con chi il lavoro e la lotta debbono essere intrapresi: con lo psicoanalista, vissuto contemporaneamente come fantasma di figure passate e persona reale che le incarna. Verso di lui devono dirigersi i moti amorosi; con lui, attore-personaggio-regista persona sessuale di carne ed ossa, deve iniziare il rapporto stretto e profondo senza il quale l’analisi non convince, o meglio, non acquista il suo più vero significato.
Ma è vero che con lo psicotico questo rapporto è impossibile? Di nuovo, qui noi ci riferiamo alle nostre esperienze cliniche, che poi sono anche esperienze della nostra vita: è vero che ci sono persone che fanno fatica a percepire gli altri, che non si accorgono, o non vogliono accorgersi, dei sentimenti e mutamenti altrui, che usano gli altri come semplici marionette del loro teatrino interno. Con costoro il lavoro, non solo psicoanalitico, è estremamente difficile, perché difficilmente si trasforma in un rapporto umano di relazione reciproca. Ci si sente strumentalizzati, reificati, violentati.
Questo non accade però solamente con gli psicotici; la causa è il narcisismo, siamo d’accordo; ma non necessariamente lo psicotico è più narcisista dello psichiatra o dell’impiegato di banca. Noi abbiamo riscontrato transfert tenaci, profondi, sessualmente ricchi, transfert nel pieno significato psicoanalitico in molti ricoverati dell’ospedale psichiatrico. D’altro lato abbiamo riscontrato in psicoanalisti con alle spalle anni di analisi e di training, la più assoluta incapacità di sentire gli altri con calore umano e sessuale e lo stesso vale per i portieri chiacchieroni e fascisticamente «normali» in signore querule e sedicenti mamme amorevoli, donne virtuose e patriottiche e in sinistrelli barbuti monologanti in continuazione.
Anche alcuni psicotici ti guardano con occhio stralunato, si appropriano di te, ti inseriscono nel loro delirio, non fanno che mendicare qualche lira o qualche sigaretta; ma quello che non funziona è la divisione che sta a monte per cui gli psicotici o i nevrotici narcisisti non opererebbero il transfert, gli altri nevrotici e i normali sì.
E siamo ritornati a questo transfert che sembra indispensabile per darci la capacità di incominciare ad essere uomini che sanno gestire la propria persona e il rapporto con gli altri.
Certo, sarebbe bello se tutte queste schematizzazioni fossero assolutamente vere, ma ci rendiamo conto che esistono solo sui libri e poi la realtà le scompiglia e contraddice. E allora? Allora cadono altri parametri: cosa vuol dire essere psicotico? Cosa può fare lo psicoanalista che, vinte tutte le resistenze, vuole tentare di operare in un ospedale in cui la psicosi è una realtà concreta? Ma concrete e reali sono tante altre contraddizioni che con la psicosi hanno poco a che fare. Dopo aver constatato concretamente che anche con un ricoverato lungodegente si è instaurato un transfert «classicissimo» cosa faccio?

Sorge a questo punto un problema molto grosso, che fa paura: contestare i parametri, dire che non hanno la schematica chiarezza che vorrebbero avere. Non rischia tutto ciò di far passare il discorso che la psicosi abbia realmente la sua origine in una degenerazione del sistema nervoso? È sufficiente per evitare questo pericolo sostenere che la psicosi è un prodotto sociale, che lo psicotico è un ribelle, un emarginato? Noi riteniamo squallida e riduttiva, oltre che scorretta, quest’ultima interpretazione. Siamo profondamente convinti che la psicosi sia anche il risultato di una situazione sociale, però pensiamo che ogni essere umano, chiamato o no psicotico, abbia una sua storia una sua irriducibile avventura inconscia, con la quale dobbiamo confrontarci se vogliamo capire almeno un po’ la realtà psichica delle persone che incontriamo.
La psicoanalisi freudiana è riuscita a dare una interpretazione della psicosi, delle sue origini e delle sue manifestazioni basandosi esclusivamente su parametri psicologici. Nonostante alcune affermazioni organicistiche di Freud, sparse qua e là lungo la sua opera, il tentativo del 1895 di scoprire la stretta relazione tra le reazioni del sistema nervoso e le manifestazioni psichiche fu interrotto da Freud stesso e mai più ripreso, anche se mai sconfessato come tentativo. Perciò le posizioni freudiane hanno un grandissimo valore teorico e politico: anche dalla psicoanalisi delle origini la psicosi non viene interpretata come degenerazione delle cellule nervose, come frutto di una inevitabile tara ereditaria, come tuttora sostengono i trattati di psichiatria in dotazione nelle nostre facoltà di medicina.
Anche senza impegnarci in questa sede a delineare una vera e propria concezione alternativa della psicosi, noi siamo però convinti quando affermiamo che anche il delirio più dissociato e dissociante e la catatonia più profonda possono essere affrontati e compresi con criteri e parametri interpretativi di impostazione analitica, purché non si abbia timore di allargare le possibilità di comunicazione e di contatto e non si voglia avere un riduttivistico e malinteso atteggiamento scientista.
I linguaggi sono molti, la parola non è che uno di questi, l’importante è aver voglia di capire. Possiamo anche tentare di scoprire nuove tecniche, purché non pretendiamo che queste siano sempre e per sempre riproducibili e schematizzabili in diagrammi, formule e formulette.
Il problema della psicosi è più che mai un problema aperto.