Psicoanalisi contro n. 1 – Osservazioni frammentarie e psicoanalitiche su di una composizione musicale

novembre , 1978

A me piace la cucina francese, anche i vini francesi, naturalmente, però in Italia si producono ottimi vini: basti pensare ai vini piemontesi, toscani, veneti.
Come è banale dire che dopo aver mangiato, con la testa annebbiata, ti piace buttarti in terra, sul tappeto, davanti al camino. Il sibilo di un ramo secco mi ricorda Dante Alighieri; anche le mie orecchie sibilano; mi debbo nobilitare: voglio scrivere un quartetto, ma non il solito quartetto: primo violino, secondo violino, viola e violoncello. Il secondo violino sarà sostituito da un flauto. Dritto o traverso? Flauto dritto, cazzo dritto: ha la sonorità un po’ nasale e petulante non adatta per questo quartetto. Mi rotea in testa un tema di Pachelbel, o forse è Buxtehude. Flauto dritto, cazzo dritto.
Mozart preferiva il clarinetto al flauto. Io sono innamorato di Mozart; io sono sempre stato innamorato di Mozart. Flauto traverso, flauto normale, non esistono flauti normali; per un musicista non esistono flauti normali.
Non solo sono ubriaco, ma ho anche fatto la più stupida delle associazioni: flauto = cazzo. Mi debbo nobilitare e scrivere un bellissimo quartetto: violino, flauto, viola e violoncello… se ci mettessi il pianoforte, invece della viola?… o farlo diventare un quintetto.
Ho voglia di scrivere un quartetto; mi è venuta voglia di fare pipì; un po’ barcollando… il bagno è silenzioso, fresco… l’orina nella tazza; quasi tutta dentro, evapora un po’, un profumo acre.
Io non sono troppo abituato a scrivere non su commissione, proprio come i musicanti antichi; l’ultimo musicante antico, il mio amore: Volfango Amedeo. I musicanti antichi scrivevano su commissione; anche a me piacerebbe scrivere sempre su commissione; però è anche bello, qualche volta, scrivere soltanto perché ti va di scrivere. Mi lavo i denti: lo spazzolino è come se fosse una flauto, o un cazzo Che associazioni stupide e banali per uno psicoanalista compositore!
Sol- mi, una terza minore discendente… mi rotea in testa un tema di Pachelbel o di Buxtehude. Non so se prima mi è venuto in mente questo mucchietto di note o prima l’idea di scrivere un quartetto. Mucchietto di note confuso, impreciso e smozzicato: è evidente soltanto quell’intervallo di terza discendente. Nella mente mi si costruisce un tema che è una successione di intervalli di terza, maggiori e minori, poi una quarta, un tema dilatato, sgranato. Le note sono distanziate, come se avessero paura di toccarsi: do – re, no: do – mi, di nuovo un intervallo di terza.

Tutti sono andati a dormire, passo la mano sul caminetto di pietra: qui c’è inciso 1715. Il tema lo espone il flauto, non è tonale, beh lo si può far diventare con due note del violoncello; preferisco che non sia tonale. Sono molto diffidente nei confronti della musica atonale che si esprime attraverso i nostri dodici suoni, inventati per un altro linguaggio; forse la musica atonale è un bluff. Il tema lo espone il flauto, da solo. Mi dispiace, Volfango
Amedeo, a me piace molto il flauto; lo sento, nella mente, scivolare sugli intervalli di terza, e poi la quarta e poi fermarsi su di un mi bemolle. Ecco, a questo punto il violino; due note lunghe, tenute, della viola e del violoncello. Come è piacevole immaginare nella mente le due note della viola e del violoncello: sol, si bemolle. Il violino, all’inizio, potrei usarlo un po’ come se fosse un grillo; qualche volta il violino deve imparare a non cantare troppo; un grillo: note smozzicate, vagamente aspre e poi un pizzicato… no, come un grillo. Nella mente mi si disegnano accordi che impongono un tono: do minore.
Voglio ancora fuggire dal tono; a fatica, nella mia mente, i quattro strumenti si spostano un pochino, di quel tanto che basti per fare sparire il do minore. Mi avvicino al pianoforte e mi stupisco dell’avorio liscio; prima le mani erano contro la pietra del camino, aspra. Ecco il suono rotondo del pianoforte; mi sorprende perché è concreto, non è soltanto più nella mia mente, del resto nella mia mente sentivo il flauto, il violino, la viola e il violoncello…
Il suono rotondo del pianoforte è concreto, un po’ mi sveglia, penso che sia molto tardi, non debbo suonare forte. Le dita cercano, mi fermo a pensare: immagino una strada, degli alberi; il flauto continua, imperterrito. Mi piacerebbe un po’ di contrappunto col violino, appena un po’, ma deve smettere di fare il grillo, allora; va bene, piuttosto la viola. Mi si ripresenta un tono: il do maggiore; gli strumenti si spostano di quel tanto per farlo sparire. Tutti e quattro gli strumenti suonano alla distanza di una terza… di una terza… lo stesso disegno a distanza di una terza. Un quartetto… quattro, e un intervallo di terza; a me piacciono moltissimo i quartetti, queste quattro voci danno alla composizione un impianto solido, una architettura precisa, ricca, di cui, però, si possono vedere tutte le nervature; l’orecchio riesce a seguire ogni nota, con precisione, con esattezza. Il quartetto ti dà in mano un’infinità di combinazioni, ma ti impedisce sempre di diventare confuso o confusionario, opaco o sbrodolato; il quartetto ti invita ad essere contrappuntistico un po’ arcaico e, nello stesso tempo, ti dà la possibilità di innumerevoli combinazioni sonore, armonie lontane, dissonanti, ambigue, se vuoi, o precise; il quartetto è una costruzione che si poggia su quattro pilastri, solida. L’intervallo di terza è estremamente piacevole, come il suo rivolto, quello di sesta, è dolce e discorsivo, aperto a tante possibilità, ti sembra meno rigido della quarta, meno dissonante della seconda, meno definitivo della quinta, meno ansiogeno della settima, meno dogmatico dell’ottava: è un intervallo morbido, un piccolo salto, una consonanza delicata.
Mi ha sempre messo un po’ a disagio l’intervallo di terza, perché l’ho sempre sentito così sensuale; ho sempre avuto paura ad usare l’intervallo di terza e un’istintiva attrazione. Mi ritorna in mente la strada, e gli alberi, so benissimo che strada sia e quali alberi. Tutto adesso si deve movimentare, il mio discorso farsi serrato: un po’ di nebbia, note che scivolano, frullano, e poi si impone il flauto… un cazzo duro, dritto, dorato… mi dà fastidio questa associazione, eppure… è lì davanti a me, morbido e allegro, un cazzo dritto, bello come l’emblema di un dio… Una delle cose più stupide che abbia detto Freud è che gli organi genitali siano brutti. Era da un po’ che sapevo che il numero tre è il simbolo di mia madre perché con tutti i lavori analitici era venuto fuori; immediatamente al numero tre, tuttora, associo mia madre, sebbene il tre, per la simbologia «classica» stia ad indicare l’organo maschile… Chissà che non c’entri anche questo. Le dita scivolano sui tasti, costruiscono frammenti di melodia: accordi… poi mi fermo a pensare: sol mi, mi sol… che cosa mi ricorda? Adesso mi verrebbe da dire che pensavo ad una strada con degli alberi, ma non è vero, o forse mi dà fastidio perché sarebbe troppo «classico». A nessuno piace essere troppo da manuale: è come essere troppo banali; diciamo che non ho visto né la strada né gli alberi, però le dita
facevano: sol mi, mi sol, sol ecco che viene fuori tutta una frase con le parole: « O pecorina il tuo bianco vello ti toserò, ma senza farti male; il mio piccino vuole un bel mantello, ti ricompenserò con pane e sale. E gira e va la ruota, tu sei il fiore della vita mia e tutto il mondo tu potrai girare, ma un’altra mamma non potrai trovare ». Tutta di seguito, di filato, questa piccola melodia, rivestita da questi pochi versi, la voce di mia madre che la canta; e poi la voce di mia madre che mi racconta che me la cantava; lei mi dice che è la prima canzone che mi ha cantato, forse non è vero, però ho l’impressione che sia una melodia che è in me da sempre, mi sembra anche di sentire la voce di mia madre giovane, una voce un po’ tremolante, da soprano leggero che bamboleggia. Mia madre è sempre stata molto intonata. Sol mi, questa canzonetta popolare, italiana, credo, italiana senz’altro, di cui non conosco l’origine, ha la melodia costruita per lo più sull’intervallo di terza: incomincia con quest’intervallo di terza minore, ostinato, discendente, è una melodia malinconica, semplice, che io non trovo brutta; mi commuove e mi fa malinconia… la terza… Quando ero piccolo, ricordo, mi faceva estremamente tristezza, quasi fino alle lacrime, pensare o sentire la seconda strofa: «E gira e va la ruota, tu sei il fiore della vita mia e tutto il mondo potrai girare, ma un’altra mamma non potrai trovare».

Faceva venire in me il senso dell’abbandono, della possibilità dell’abbandono, mi diceva che quella persona era così importante che era impossibile trovarne un’altra, insinuava anche la possibilità che se ne potesse andare, che ci fosse qualcuno che, dopo averla persa, la mamma, andasse in giro per il mondo, inutilmente, a cercarla…
Ruota… scura… un tacchino… il primo sogno che io ricordi è quello di un tacchino, con la ruota, grigiastra, che entrava, si avvicinava al mio letto e mi porgeva una lettera; su quella lettera c’era la comunicazione della morte di mia madre; io mi svegliavo urlando, e ricordo mia madre, seduta vicino a me, a consolarmi. Scena tipica…, di nuovo, tipica!
Ecco di dove viene fuori la ruota, la ruota della canzone, la ruota del tacchino che mi porta la lettera; di qui la sottile angoscia, un po’ più di una malinconia, legata a quella canzone; ma anche esprime un grosso desiderio di morte verso mia madre, tipico, unito ad un innamoramento, altrettanto tipico. Per fortuna nelle analisi le situazioni tipiche si mescolano e si rimescolano e danno luogo sempre a storie originali, uniche.
La resistenza ad usare la terza, il tre, nei miei primi giochini di musicista e compositorucolo era stata interpretata come resistenza all’incesto. Vero! Però, anche come un rifiuto del desiderio di morte verso mia madre. Credo, altrettanto vero! Di qui la sensuale malinconia di questo intervallo, che mi affascina e mi fa paura, mi disturba e mi attrae. Purtroppo non ho in mente un così bel giochino per tirar fuori il quattro da mio padre; eppure, da sempre, io ho associato il numero quattro a mio padre. Ho pensato a lungo: la stabilità, la razionalità, il mio concetto infantile della virilità, ma tutto questo sta dietro al quattro o il quattro è una sua espressione?
Le dita sulla tastiera improvvisano una fughetta a quattro voci, che poi si va a perdere lontano in dissonanze e in una «stretta» bizzarra. Non c’entra niente, ma è il quattro… la fuga… Bach, per me una figura estremamente virile. Il quattro si ricollega a mio padre molto tempo prima che io sapessi di Bach e delle fughe. Certo, quando mia madre mi cantava «o pecorina il tuo bianco vello» io non sapevo che cosa fosse una terza, ma nell’orecchio quell’intervallo si era appiccicato, era ormai stabile nel mio inconscio e quando le mie dita lo ritrovarono su di una tastiera seppi allora che era una terza, un tre; quell’intervallo era un tre. Il quattro, invece, non capisco bene di dove venga: la virilità, la stabilità, i quattro pilastri… anche questa è un’associazione molto antica; ho l’impressione che si perda chissà dove, indietro nel tempo. Il quattro… mio padre…

Ricordo un disegno: un grande foglio bianco e sopra, disegnata in rosso, la mia famiglia: mio padre, mia madre, mio fratello ed io. Mio padre ha in mano quattro enormi fiori, altissimi, come fossero papaveri, quattro papaveri; la mia famiglia è composta di quattro, mio padre è il primo… il quarto… Non so se questo disegno abbia qualcosa a che vedere, certo, è abbastanza strano: quattro enormi papaveri; ma non si spiega perché quattro fiori… il quattro già c’era… probabilmente arriva da altrove, chissà di dove. Ripensandoci, quello è uno dei disegni che ricordo meglio dei tanti che ho fatto dopo, prima di dover interrompere; per me quattro è il quadrato per me quattro è la croce: ecco dove si annida l’aggressività, luogo di supplizio, ma anche luogo onorifico.
Questo deve essere un allegretto, non un tempo molto veloce, ma ritmato e disteso allo stesso tempo; le quattro voci adesso si rincorrono, si rincorrono, si fermano su accordi lunghi, un po’ ansimanti… alcune collane di semicrome, poi sbuca il flauto, teso, morbido e dritto, enuncia perentorio il tema iniziale, con frange di note degli archi. È sicuro di sé, poi ritrova la sua dolcezza e la sua flessuosità e si allontana, piano, con gli altri; voglio che finisca così, in sordina.
A questo punto, il secondo tempo, deve essere un lento, come vuole la buona tradizione, un largo. La mia casa è tutta silenziosa, il fuoco nel caminetto non crepita più, il rumore di una motocicletta invade la stanza e si allontana. Le dita accarezzano l’avorio dei tasti, la mente immagina i suoni che non escono dal pianoforte. Ritorno indietro, al primo tempo del mio quartetto appena abbozzato, il tema con le terze, mia madre, l’amore tenero, appassionato, del piccolo Edipo; l’aggressività, il desiderio di morte, la malinconia. Lei si esprime attraverso un quartetto, o il quartetto si esprime attraverso di lei; in questo quartetto si insinua un flauto, un bel cazzo dorato, quello di mio padre, che suona il tema di mia madre, ma io me ne approprio; io quel cazzo lo onoro e lo crocifiggo e me ne approprio, e mi inserisco nel quartetto, che canta una melodia di terze: «O pecorina il tuo bianco vello, ti toserò… » che significato ha questo «ti toserò», che significato ha avuto? Il dritto flauto d’oro si inserisce nel quartetto che canta una melodia, ci sta bene e domina, possiede ed è posseduto. Che cosa ha a che vedere tutto questo con il bello? Niente e forse tutto, a me piace il primo tempo del quartetto appena abbozzato, e lo accarezzo qualche volta, lo penso e lo ripenso, mi piace; ma perché mi piace? Ma perché è bello? È un discorso che vale soltanto per me?
Eppure, sono sicuro, può comunicare le mie stesse emozioni ad altri.
Ma chi può capire che c’è un piccolo Edipo rannicchiato a sgranocchiare il proprio incesto, la propria omosessualità in un pentagramma? Eppure, forse, è bello soltanto per questo: ogni nota riveste di suono un mio desiderio.
A me piace soprattutto la cucina francese.