Psicoanalisi contro n. 1 – Intorno al sogno (2^parte)

novembre , 1978

L’altro desiderio che balza evidente è quello di distruggere gli altri componenti del gruppo per rimanere solo con me. A campanello associa un ricordo infantile: da piccolo, non ricorda quando, si sbagliava sempre, chiamando un gruppetto di persone riunite campanello anziché capannello. Il campanello è quindi il capannello, cioè il gruppo che lui tenta di schiacciare o di castrare. A questo punto il ragazzo rivela di essere particolarmente geloso nei confronti di un membro del gruppo, perché teme che abbia rapporti erotici con me. Poi, attraverso un lungo passaggio di immagini, associa al cesello un gioiello indossato da una ragazza del gruppo.
Tutte le interpretazioni dei componenti del gruppo misero in evidenza, correttamente, il desiderio di seduzione nei miei confronti e di castrazione e distruzione, nei confronti del gruppo. Però, il compiacimento con cui tutti descrissero l’esibizionismo del sognatore e il suo desiderio distruttivo, misero in evidenza l’aggressività che già da tempo il gruppo sentiva per lui ed ognuno intepretò come timore del sognatore per un mio gesto aggressivo ciò che in realtà non era altro che il desiderio di ognuno che io compissi realmente quel gesto contro il ragazzo. Uno gli disse: «Tu hai paura di strapparti il vestito perché hai paura che ti punisca scacciandoti». Un altro: «Tu vuoi farci star zitti; noi siamo campane che parliamo, perché hai paura che Sandro ci dia ragione». Un altro ancora: «Tu vuoi mangiare un fregio di metallo e allora lo fai diventare un elemento commestibile perché hai paura che Sandro ti dica che non capisci niente né di cibo né di antiquariato. Vuoi mangiare del metallo e indossi, lacerandolo, un vestito antico». Espongo ancora due esempi di meccanismi proiettivi; un componente del gruppo disse: «Vuoi prendere in bocca (le tenaglie) il cazzo di Sandro (battacchio )». Un altro dimostrò molta aggressività nei miei confronti, descrivendo, ormai rivolto a me, lo scempio che senza dubbio era stato fatto del vestito antico che certamente simboleggiava la mia persona (più anziano di tutti, amante del seicento, etc.).
Un piccolissimo lavoro di analisi rivelò immediatamente sia il desiderio del primo (da due giorni stava pensando ai miei genitali), che la reale aggressività del secondo che si vendicava di un mio attacco della sera precedente.
Questo sogno produsse una ricchissima messe di proiezioni che i componenti stessi del gruppo videro presentarsi di fronte a loro quasi spontaneamente e con grandissimo stupore.
Come abbiamo visto, nei sogni si affollano i desideri, sui sogni altrui noi proiettiamo i nostri. Abbiamo anche detto che il sogno parla una pluralità di lingue, spesso anche contemporaneamente. Ma queste sono caratteristiche proprie soltanto del sogno?
Forse che la veglia non conosce i desideri? O parla una lingua unidirezionale?
Il concetto di vita è un concetto vuoto. In sé non vuole dire niente. Non intendo certo dare qui una definizione della vita; io, abitualmente, cerco di definire un concetto non tanto sforzandomi di dire ciò che è; ma piuttosto ciò che ha. L’essenza è indecifrabile, forse non esiste. Questi sono discorsi vecchi di secoli. Pascal diceva che definire alcuni concetti fondamentali, ad esempio quello di tempo, è una perdita di tempo. Io penso che sia una perdita di tempo definire qualsiasi concetto, perché non credo esistano concetti fondamentali.
Non è più difficile definire il concetto di spazio di quanto non lo sia definire il concetto di gamba, di soffritto, o di pulsione. Le definizioni sono sempre ambigue e assai più che imprecise; sono sempre inesatte. Di conseguenza, dire ciò che una cosa è, risulta essere per me un’impresa al di sopra delle mie forze. Preferisco tentare di dire ciò che una cosa ha; ben sapendo che, anche così, ho soltanto aggirato il problema. L’avere mi sembra una cosa più amichevole che non l’essere. L’avere è ciò che io voglio che sia (maledizione, questo verbo essere è ritornato); ma, ripeto, l’avere è ciò che io voglio che una cosa sia. L’essere di una cosa, puro e semplice, che non vuol dire niente, non è contrapponibile neppure al nulla. La cosa «c’è» e il nulla non è né un suo attributo né un suo contenitore. Potrei dire che la cosa che c’è se ne frega del nulla. Il «c’è», per me, vuoi dire molto poco. Comunque, la cosa che «c’è» ha qualcosa di più della cosa che «soltanto» esiste e la «presenza» della cosa è un avere qualcosa di più del puro «c’è».
La presenza è la possibilità del dialogo, anche se la cosa non vuole dialogare. La cosa «ha» perciò la presenza e non «è» presente. Dire che la cosa presente ha la possibilità del dialogo e basta è, forse, scorretto. Penso sia meglio dire che la cosa che ha la presenza ha la possibilità di relazionarsi a me. Il dialogo interviene solo con alcune presenze, anche se io non sono capace di dire con quali.
Possibilità di relazioni e possibilità di dialogo sono possesso di una cosa che ha la presenza: dialogo, presenza, relazione, essere, avere sono parole. Io credo nel valore delle parole; ma credo anche nella caratteristica di desiderio propria di ogni parola. Ogni parola è sempre anche desiderio. Ogni parola dà alla presenza la sua possibilità di avere: avere ciò che ha, avere ciò che vuole e avere ciò che io voglio che abbia. La parola non è mai aggiunta alla cosa; la parola è ben di più dell’attributo di una cosa. La parola non è neppure il velo che nasconde una cosa, la parola non è neppure la cosa stessa. La parola è il desiderio della cosa e l’attesa della risposta. La parola è soprattutto esperienza della cosa. La parola si rivolge alla cosa e aspetta la risposta. Non esistono parole unidirezionali, perché non esistono soggetti che parlano di oggetti. La parola ha l’esperienza; ma l’esperienza non è soltanto parola. L’esperienza è l’espressione, che è pur sempre un dare alle cose perché abbiano e un aspettarci qualcosa dalle cose per avere a nostra volta.

L’esperienza ha sempre una sua espressione. L’espressione ha sempre un’esperienza. Il possesso dell’esperienza-espressione si realizza in quello che noi possiamo chiamare vita. La vita quindi non «è»; la vita «ha» la propria esperienza, che è un realizzarsi attraverso un’espressione che sperimenta se stessa esprimendosi e si esprime esperienzialmente. L’espressione non è soltanto il vivere. L’espressione esprime tutta la possibilità della vita-esperienza e l’esperienza realizza tutta la possibilità della vita-espressione. Ho detto che l’espressione non è il semplice dire; cioè non è il semplice parlare. L’espressione è il voler essere, cioè l’avere, il possedersi, il possedere, il comunicare.
La lingua della parola tende all’infinito, pur lasciando fuori di sé un infinito: tutte le altre forme di espressione che si coagulano tutte in un’esperienza. L’espressione – esperienza non si rivolge mai soltanto al passato, al presente o al futuro, cioè al tempo così come noi lo concepiamo, ingenuamente o metafisicamente (metafisiche sono anche a mio parere tutte le definizioni di tempo date dalla scienza). Il tempo è già il frutto di una espressione-esperienza, come lo spazio, come il soffitto, come le pulsioni… Allora consegue che l’espressione-esperienza sta prima soltanto perché io voglio che stia prima (anche se spero che si capisca che cosa voglio intendere con questo mio «volere». L’espressione-esperienza è ciò che io ho come uomo insieme con altri uomini. Avrei potuto chiamarla realtà; ma sarebbe stato un concetto opaco che, proprio come il concetto di essere, sarebbe stato totalmente inutile. L’espressione-esperienza ha bisogno anche del concetto di tempo, senza però doverne diventare prigioniera. L’espressione- esperienza non è altro che il complesso dei desideri.
Vivendo noi in qualche modo ci esprimiamo, non vogliamo soltanto comunicare qualcosa di noi ad un altro o a noi stessi. La nostra espressione è sempre orientata nel tentativo di soddisfare un bisogno e di realizzare un desiderio. La pura espressività è un mito ingenuo dell’art-déco; ha un significato estetico per chi già sa che cosa sia l’art-déco; ma in effetti è un’espressione che tende all’inganno, cioè che desidera ingannare.
Lì per lì mi viene da dire che esprimersi per esprimersi equivale al silenzio; ma poi mi accorgo di quanto sia ingenua questa mia affermazione. È meglio dire che esprimersi per esprimersi è impossibile. L’espressione sorge da un bisogno e da una pulsione, vive di queste e si esaurisce quando queste si esauriscono. Ecco un nuovo bisogno, ecco una nuova espressione. Quando dico che l’espressione è espressione di un bisogno, non voglio dire neppure che essa sia la comunicazione ad altri che io ho un bisogno. L’affermazione è assai più radicale: il bisogno è contemporaneamente anche espressione; cioè, non è soltanto il bisogno dell’espressione, ma ne è anche l’espressione stessa.

Il bisogno diviene bisogno nell’atto che si esprime come espressione; il desiderio che vive nel bisogno, o forse coincide col bisogno, si realizza nell’espressione. L’espressione, quindi non è comunicazione nel senso di informazione; è comunicazione nel senso di «mettere in comune». L’esperienza, dal canto suo, si realizza nel tendere ad appagare il desiderio. L’esperienza non è soltanto imparare, non è soltanto guardarsi indietro; non è neanche, come dicono i pragmatisti, guardare avanti. La dimensione dell’esperienza non è neanche il futuro dunque, e per concludere la triade, con buona pace degli ossessivi, dico che non è neanche il presente.
L’esperienza è la pulsione che sorge, che cerca uno sbocco al suo desiderio; ma già nell’atto in cui sorge desidera essere pulsione e contemporaneamente anche qualcosa di diverso dalla semplice pulsione, perché è anche realizzazione di desiderio. La dimensione dell’esperienza è forse l’attesa vissuta nell’istante, ricca di ciò che ho avuto, che ho e voglio ancora, che non ho avuto, che non ho e che non voglio, che ho avuto-non avuto, che ho-non ho, che avrò-non avrò. Questi sono anche, e soprattutto, giochi di parole che per di più sono goffamente e miseramente ricaduti nella trinità temporale…
Non sono mai riuscito a capire se il gioco di parole è il livello più basso e squallido dell’espressione oppure serve, baroccamente, a qualche cosa. Certo è che serve a non sputtanarsi troppo. Ogni pensiero, anche il più profondo, ha sempre un piede nella banalità.
Ogni frammento di vita è un’espressione-esperienza: guida l’automobile, sa guidare la macchina, gli piace guidare la macchina, deve arrivare in qualche luogo, vuole arrivarci perché così aveva pensato, è bello arrivare. Quand’era bambino la notte prima di un viaggio, anche se breve, non riusciva a prendere sonno. Si parte quando si è arrivati alla decisione di partire. Talvolta per arrivare, talaltra per partire. Non è bello guidare al crepuscolo; sono belle le ombre verdi e nere. La schiena calda contro il sedile, al posto di guida, le mani attorno al volante, sente il vibrare dell’automobile dalla schiena ai genitali. È piacevole manovrare i comandi; quello si sposta troppo a sinistra. L’aria dal finestrino abbassato ferisce la guancia sinistra, ferisce ma fa piacere. Quell’uomo piscia sul bordo della strada; un leggero prurito ai genitali. Quel cretino si sposta troppo a sinistra. Speriamo di trovarli ancora svegli. Sono stupidi quelli che usano il clacson a quattro note; quello è uno stupido, quel suono però fa piacere. Anche un rutto fa piacere. Volta la testa e dice al suo vicino: «Quel cretino guida in mezzo alla strada» Gli occhi del suo vicino sono belli. Fa piacere sentire la stoffa della camicia sulla pelle della schiena e la stoffa che si stacca con un crepitio leggero dallo schienale.
L’odore della sua camera da letto in campagna, l’odore del suo vicino, gli piace, non gli piace. È brutto guidare al crepuscolo. I calzoni sul ginocchio, il suo ginocchio… Ecco: in un frammento di vita, al volante di un’auto, per un momento; tutto è perché è tutto un moto di tensioni e di desiderio; di desideri e di movimenti, di pensieri; gli uni sfumano negli altri. Non è più importante arrivare di quanto sia importante godere nell’istante dell’odore del vicino. È piacevole la rabbia scaricata sul «cretino» che guida in mezzo alla strada; gli parli con un colpo di clacson. L’uomo che piscia sa che sei passato alle sue spalle, piscia anche per te. Il brivido ai tuoi genitali è anche per quello zampillo che hai creduto di intravedere. Muovere un ginocchio. Infilarsi nella strada, scivolarvi, vedere e sentire gli alberi; essi sono presenti, non sono soltanto, ti mandano la loro austerità verdastra. Penetrare nel crepuscolo, ti piace andare avanti in quel momento. Qualcosa lo sai, molto non lo sai. Tutto ciò che hai avuto è stato comunicato, non solo è stato comunicato; ma anche manipolato.
Ho detto che comunicare non è soltanto informare, ma è mettere in comune. Dire per ricevere una risposta, dire non soltanto con la parola. Comunicare però non è soltanto mettere in comune, è anche manipolare.
Il desiderio è sempre anche un progetto; ma nel progetto non sono soltanto implicite la tensione e l’attesa. Il progetto è l’opposto della previsione. Io affermo con assoluta convinzione che non esiste la previsione. Per l’essere umano è impossibile prevedere. Quando dico «prevedere» non intendo dire: «sapere ciò che accadrà», intendo dire «fare previsioni». Sono sicuro che nessun uomo fa previsioni; neppure i meteorologi. La previsione, come ho già detto, è sempre un progetto e il progetto non è altro che il desiderio di controllare-modificare il campo della realtà o dell’esperienza. Il progetto non si riferisce soltanto a ciò che non è ancora per realizzare in futuro ciò che noi desideriamo; intendere il progetto in questo senso vuol dire applicare senza discernimento alcune categorie proprie degli operatori economici. Il progetto si riferisce anche a ciò che è, tentando di farlo essere ciò che il progetto vuole che sia. Il progetto, infine, riguarda anche il passato. Qualcuno ha detto che la sola cosa impossibile anche a Dio è quella di far sì che non sia ciò che è stato. Può darsi che a Dio non sia impossibile; ma all’uomo sì. Continuamente l’uomo progetta anche il proprio passato. Il campo di presenza entro il quale si trova la presenza dell’uomo è continuamente manipolato per realizzare un desiderio-controllo. Un desiderio che non tende al controllo, e quindi alla manipolazione, non è un desiderio. L’uomo si muove ristrutturando continuamente il campo intorno a sé, non soltanto per modificare ciò che non è ancora, per avere fra un po’ una situazione più soddisfacente; ma anche per strutturare sempre e ancora l’ambiente spazio-tempo in cui si muove; egli sposta non soltanto gli oggetti, ma anche i valori e vede mutarsi le percezioni. Per questo i filosofi di tutti i tempi hanno potuto dire che l’uomo vive in un mondo di illusioni. L’uomo conosce soltanto i fenomeni, il noumeno è un concetto limite.
Quest’ultima affermazione kantiana, proprio perché non ha nessun senso, è innocua e quindi la si può lasciare nella sua beata inconcludenza. È però una delle frasi più importanti che la filosofia occidentale abbia pronunciato. La cosa in sé non si può dire né che sia né che non sia. Si può solo dire che l’uomo non conosce la cosa in sé, quindi il suo concetto è il limite della conoscenza umana. Molto più grossolani sono quei filosofi che parlano semplicemente di «mondo delle illusioni», dicendo che tutta la realtà è un’illusione. Dicono: la verità non esiste; e lo dicono con il compiacimento dei nonni che spaventano i bambini parlando loro dell’uomo nero. Che paura hanno i bambini! E che paura hanno gli uomini quando leggono su un testo massiccio, in un volume rilegato, che tutto è falso! Il primo pensiero che viene foro in mente è: «Mamma mia, questa bistecca che sto mangiando, forse, non è una bistecca, ma il sogno di una bistecca ed io sto sognando di mangiare una bistecca; o forse, potrebbe anche darsi che questa bistecca non sia una bistecca e io non stia mangiando una bistecca… ». L’unico consiglio da dare, a questo punto, è quello di non leggere mentre si sta mangiando, oltre a quello di non fumare, naturalmente. Il campo di presenza dell’uomo è, come abbiamo detto, il campo della espressione-esperienza. Pensieri e desideri, tutto ciò che l’uomo ha e tutto ciò che non ha (e ciò che ha, se lo ha adesso lo ha avuto anche prima, almeno per un po’) sono continuamente sottoposti al progetto. Se il campo è una totalità, modificarne una parte significa ristrutturare tutto il campo.
Come ho già detto, essere è troppo poco per essere veramente.

Per essere bisogna anche avere, avere soprattutto una presenza, una presenta che si esprime: cioè che comunica. Se l’uomo tenta di modificare che ha avuto può darsi che sia un riappropriarsi, un avere riferito a ciò che è stato; ma che non è stato realmente, perché non è stato avuto. Ecco perché il meccanismo della previsione è impossibile: come l’uomo prevede contemporaneamente interviene e il campo è quindi scosso, ridimensionato, adattato. L’uomo ha allora qualcosa di diverso, spererebbe qualcosa di meglio; ma l’insoddisfazione è la sua più profonda soddisfazione: allora il desiderio ricomincia ad agire, l’uomo ricomincia a sentire la propria vitale instabilità e riprende a progettare.
Guida ancora l’automobile; deve rettificare l’andatura, muove i piedi prova piacere a premere i pedali, ruota leggermente il volante. Con una mano si allontana una ciocca di capelli che gli infastidisce l’occhio sinistro. Accelera per un sorpasso. Un camioncino di bibite; ha sete, immagina tanta aranciata frizzante. Sente le cosce sotto i pantaloni, contrae il ventre, gli viene un rutto, si sente più sgonfio. Muove la mano sinistra per grattarsi un orecchio. Guarda il suo vicino, gli sembra triste, non si decide a chiedergli se è vero. Gli prude l’inguine, immagina di togliersi i pantaloni, sistema meglio le natiche, premendo la schiena contro lo schienale: va meglio. Muove leggermente la mano sinistra perché sente un leggero formicolio al pollice. Gli dà fastidio una grinza sul calzone. Avrebbe voglia di mordere una guancia al suo vicino; sorride, si mordicchia il labbro superiore. Gli sembra che sia tardi, accelera. Speriamo che a casa li aspettino svegli. Ha fame. Accelera ancora. Guarda il vicino che gli sorride, è contento, risponde al suo sorriso. Quello che pisciava in strada visto di dietro, sembrava Giorgio; è sicuro di aver visto lo zampillo di orina. Si accorge di non aver mai odiato Giorgio. Non solo non lo odia più; ma è certo di non averlo mai odiato; d’altra parte gli era sempre rimasto il dubbio. Suo cugino, quando orinava aveva uno zampillo come quello di Giorgio. La finestra sul terrazzo sarà aperta. Rivolto al suo vicino: «Hai fame?». «Sì, ma mi piace andare in macchina».
Tutto questo continuo progettare, rendere illusorio il mondo dell’esistente, tiene molto lontana da me una concezione solipsistica e pure sono lontano dallo scetticismo gnoseologico. La prassi si realizza in una presenza e la presenza si reifica in una prassi. Certo ormai le distinzioni tra materialismo e idealismo, conoscenza oggettiva e conoscenza soggettiva, non sono soltanto vecchie; ma sono anche strumentalmente inutili. Quei vecchi strumenti di orientamento sono oggi abbastanza inefficaci. Spirito e materia, vero e falso, hanno acquistato nuove dimensioni. Io sono la mia presenza che si esprime, si smarrisce e si ritrova continuamente. Le pulsioni dell’uomo non «spingono l’uomo verso»: «sono» l’uomo. I desideri non «spingono l’uomo verso»: «sono» l’uomo.
La contrapposizione tra stato di veglia e stato di sonno è stata evidenziata, nella nostra cultura, non soltato dalla fisiologia, ma anche dall’arte figurativa dalla poesia e dalla filosofia. In piccolissima parte a causa della esteriore somiglianza fra le due positure, si e spesso paragonato il sonno alla morte: «Guardalo! Sembra che dorma». Si dice di quasi tutti i morti. Ho detto in piccolissima parte per la positura, poiché penso che si sia usata questa somiglianza per negare una volta di più la morte come tale. Non mi interessa tanto mette in evidenza quanto per il senso comune il sonno venga considerato somiglianza alla morte, quanto come per tutti la morte assomigli al sonno.
La morte è chiamata «il sonno eterno». Non si capisce proprio perché il morto dovrebbe dormire se non lo si spiega con un ulteriore gioco fantastico che permette all’uomo di dire a se stesso: «Se chi dorme non è morto; ma chi è morto dorme ecco allora che chi e morto non è morto». La paura della morte viene così in parte esorcizzata con un inconsapevole, ma efficace, meccanismo sillogistico. Il modo di essere della morte diviene così uno dei tanti modi di continuare a vivere. In realtà la morte è quanto di più diverso dal sonno si possa immaginare. O, forse, la morte non è diversa né simile al sonno: la morte non è, e basta.
Il sonno, comunque, è una situazione quanto mai vitale: la contrapposizione veglia sonno è assurda come la contrapposizione vita-morte che come abbiamo visto è negata dalla psiche umana non appena si pone. La veglia è il contrario del sonno, la vita è il contrario della morte; ma la morte non è il contrario della vita, che è un modo di dormire, è un modo di essere, è un modo di avere. Che poi la morte accada è un altro discorso.
Il sonno è un momento quanto mai ricco di vita. Certo, le tensioni si spostano, tutto sembra rallentare, il fisico sembra rallentare il suo ritmo vitale e anche questo è, in parte, vero; ma è quanto mai scorretto pensare al sonno come a una situazione dell’organismo e della psiche unitaria e monolitica.
Il sonno come la veglia, e forse ancor più della veglia, vive situazioni psichiche diversissime. La soglia della percettività (al contrario di quello che dicono i manualetti scolastici che parlano del sonno) non è per nulla alzata: la percettività si sposta.

Già gli studiosi classici del sonno avevano osservato che le percezioni interne degli stimoli organici sono addirittura dilatate: stimoli e piccole sensazioni, movimenti degli organi che in stato di veglia sarebbero assolutamente impercepibili, vengono dilatati e colti con estrema precisione, anche se talvolta trasformati in sogno. Alcune esperienze mie personali mi portano ad affermare che anche stimoli provenienti dell’esterno vengono captati con estrema precisione durante il sonno. È pur vero che la soglia sensoriale si è alzata; ma certi stimoli, soprattutto se possono avere eco psichica per il dormiente, vedono la soglia percettiva addirittura abbassarsi nei loro confronti durante il sonno. È persin troppo noto l’esempio della capacità delle madri addormentate di cogliere anche i più impercettibili rumori prodotti dal figlioletto. Ritengo, ad esempio, che la sensibilità telepatica sia molto più sviluppata durante il sonno che nella veglia. Sarà interessante in altra sede e in altro momento esporre con precisione i risultati di ricerche da me fatte sui modi di essere nel mondo e di reagire tipici del dormiente. Qui basti dire che la vita psico-fisica del dormiente è ricca e varia, piena di momenti estremamente dinamici e, a volte, drammatici; ben lontana da ogni inerzia e impermeabilità agli stimoli.
L’arte e la filosofia, soprattutto, hanno amato la contrapposizione tra sogno e realtà. Cartesio ha usato l’affinità tra le sensazioni del sogno con quelle della veglia per avvalorare la sua sfiducia nella conoscenza sensibile; ma per potersi svegliare ha dovuto tirare in ballo il Dio della scolastica e della prova ontologica. Nella stessa epoca, Calderon de la Barca si tuffa in una deliziosa difesa della fantasia, sostenendo che «la vita è sogno».
Per molti, il momento del sogno è il momento della pura assurdità, da contrapporre alla veglia dominata dalla coscienza e dalla realtà. Io penso che, in effetti, il linguaggio dei sogni e il linguaggio della veglia non siano dissimili; anzi, sono assolutamente identici. Vi è sempre una pluralità di lingue che si stratificano per permettere all’uomo-desiderio di esprimersi. Potremmo con simpatica bizzarria barocca far l’occhiolino a Calderon e dire che non «la vita è sogno», ma bensì «il sogno è vita». Cioè: in effetti non si sogna mai, ma si vive sempre. Lì per lì sembrerebbe che con ciò io abbia detto esattamente la stessa cosa che ha detto lo spagnolo o che dicono i deliranti sostenitori a oltranza della vita come fantasia. Invece, io non penso così; penso che il sogno abbia diritto alla sua concretezza di momento della vita e dell’esperienza. Pulsioni, desideri, lingue che si sovrappongono sono una realtà tanto della veglia quanto del sogno. Talvolta la «realtà» è più fantastica del sogno e il sogno è più concreto e ricco di esperienza di certe fantasie della veglia. Per poterci muovere e dirigere da svegli abbiamo bisogno, forse ancor più che nel sogno, di amalgamare le stratificazioni delle nostre percezioni, dei nostri desideri e dei linguaggi diversi che sono presenti in ogni nostro gesto. Se ci fermiamo ad osservare anche un solo istante del nostro modo di essere al mondo da svegli ci accorgiamo che possiamo interpretarlo con gli stessi meccanismi con cui interpretiamo un sogno. Ogni parola che l’uomo dice porta con sé anche l’immaginazione fantastica; una pluralità di suoni, movimenti, odori, che hanno un significato diverso e nello stesso tempo omogeneo. Già i teorici classici del sogno avevano parlato di sogni ad occhi aperti come momenti squisitamente onirici; avevano parlato anche delle immagini ipnagogiche (cioè di quei sogni a cavallo tra la veglia e il sonno): non è una novità che il sogno è presente nella veglia come la veglia è presente nel sogno. Gli stessi strumenti che servono per interpretare gli uni servono anche per gli altri; questo perché i meccanismi che costruiscono i sogni costruiscono anche la veglia, e viceversa.
Un lapsus, un atto mancato, mettono in atto un meccanismo di lavoro inconscio simile a quello che produce il sogno. Analisi di questi piccoli disturbi del comportamento sono state fatte con attenzione nella letteratura psicoanalitica. Non solo; ogni espressione, anche la più adeguata è frutto dello stesso lavorio psichico.
Non voglio dire solo che ogni azione e comportamento umano hanno motivazioni inconsce, questa sarebbe una ovvia banalità inserita in un discorso psicoanalitico; ma affermo che ogni gesto ed espressione si compongono di una serie di elementi: sono il risultato anche di una deformazione mirante ad esprimere molto di più di quanto il gesto apparente non voglia; ogni espressione ha spesso in sé anche il proprio contrario, condensa altre espressioni. Molti significati sono spostati nei confronti dell’apparente centro dell’espressione, dell’apparente motivazione.
È impossibile portare alle labbra un bicchiere di vino soltanto per realizzare il desiderio di bere il vino; può succedere qualche, volta che questo non sia neppure il desiderio principale. Chi porta la mano che regge il bicchiere alla bocca costruisce una immagine significante, plurintenzionale. Colui che compie questo gesto mentre si esprime è contemporaneamente spettatore del gesto e come spettatore lo modifica, perché ha altre esigenze come spettatore, diverse dalle sue esigenze di attore.

Quel gesto è un segnale che è anche un simbolo, esprime un modo di essere che è un voler essere e anche un non voler essere. Un gesto può essere pienamente adeguato alla situazione; per esempio: il vino può benissimo arrivare alla bocca ed essere bevuto; non necessariamente il bordo del bicchiere deve urtare contro il mento e rovesciare il contenuto sul petto. Eppure anche nel primo caso ci può essere un rifiuto di bere il vino e nello stesso gesto si possono esprimere, condensate, altre tre intenzioni di cui la sorsata di vino non è che la copertura.
Si può concludere che ogni gesto è sempre anche un lapsus, un atto mancato, e quindi non può mai essere considerato adeguato allo scopo; anzi: non è mai adeguato al suo scopo più apparente o più immediato.
Ogni espressione della veglia ha perciò una pluralità di significati che si sovrappongono e si condensano, originati da una pluralità di pensieri e desideri, inconsci e consci, che tentano di esprimersi con linguaggi, spesso, diversi. Ogni singolo gesto esprime non soltanto il momento esistenziale ed esperienziale in cui si manifesta; ma presenta anche un riepilogo di pensieri e desideri molto lontani.
L’estetica espressionista ha tentato di isolare un gesto esasperandolo, cercando di caricarlo di significati molteplici ed emblematici. Per l’espressionismo, una persona, una situazione, trovano la loro migliore e pregnante manifestazione in un gesto, ritagliato dallo sfondo di altri gesti, quasi presentato su un cuscino di velluto. In piccola parte, accetto questa esaltazione del gesto; ma la trovo nello stesso tempo riduttiva. Quello che a me preme mettere in evidenza non è tanto la pregnanza dei singoli gesti espressivi, ma il loro carattere di produzione di lavoro inconscio, che mette capo ad un prodotto poli-espressivo, spesso contraddittorio. Spero che non si creda che io stia parlando del puro e semplice «acting out», cioè dell’inserzione improvvisa del rimosso, che, sopraffacendo l’espressione verbale, costringe l’individuo a compiere un atto quasi inconsapevolmente, per esprimere un proprio pensiero o ricordo inconsci. L’adeguato, preciso e consapevole gesto di un maturo chirurgo che affonda il bisturi, può comportare la risposta ad esigenze che non hanno nulla a che vedere con lo scopo terapeutico. Può tentare di comunicare anche bisogni lontani, pensieri infantili, desideri aggressivi o auto- punitivi, etc.
Se le espressioni della veglia e quelle oniriche si equivalgono, nel risultato, nelle motivazioni e negli elementi che le compongono, dove sta la differenza? La differenza esiste; anche se, come ho tentato di dire, non è facile da determinare. La differenza più grande è data dalla maggior compenetrabilità ed evidenza delle stratificazioni oniriche nei confronti di quelle della veglia. Nel sogno, i singoli elementi linguistici si affollano, si sovrappongono nel tentativo di manifestarsi e, proprio come in una lotta in cui le forze sono abbastanza equivalenti, il risultato presenta la pluralità degli elementi in modo più chiaro. I pensieri e i desideri del presente sono costretti a condividere la scena con quelli più remoti e rimossi.
Il sogno va alla ricerca di una coerenza almeno in parte diversa da quella cui noi sottoponiamo le espressioni della veglia. Le pulsioni e i linguaggi che si sovrappongono nella veglia debbono fare i conti con un’attenzione che si impone una direzionalità: si agisce anche in vista dello scopo consapevolmente prefisso e che, almeno qualche volta, deve essere realizzato. Per tornare all’immagine di prima: il bicchiere deve anche raggiungere le labbra, il vino deve anche essere bevuto.
Se nell’azione cosciente allo stato di veglia converge la somma di tutte le esigenze che la compongono; ci si accorgerà, però, spesso, che il suo fine palese non è quantitativamente e qualitativamente il più importante, anche se è quello in cui si concluderà l’azione.
Un gesto, un’espressione, tentano di realizzare desideri diversissimi. Anche qui, come nel sogno, si affollano bisogni e pulsioni che hanno bisogno di scarica. Di qui deriva, talvolta, l’ostinazione eccessiva con la quale si persegue un fine apparentemente insignificante: non è la conclusione del gesto che interessa, ma ciò che, con il pretesto di quel gesto, riusciamo ad esprimere. Ciò vale per il capriccio del bambino come per il gesto del bottegaio, per l’impresa sportiva come per la benedizione che il sacerdote impartisce. Di qui deriva anche il più di angoscia di cui vengono caricate molte piccole azioni.
Lo scopo apparente è più che lecito, i gesti per realizzarlo sono consueti e quotidiani, però, nel momento in cui il rituale si compie, l’angoscia sale; sembra eccessiva, qualche volta la coscienza ha la sensazione di una catastrofe vicina, quel povero, piccolo gesto acquista un colorito innegabilmente cupo. Questo non vale soltanto per le coazioni ossessive; ma può valere anche per ogni gesto.
I desideri rimossi che si appropriano del gesto per scaricarsi provocano quel sentimento angoscioso, in parte, per due ragioni: la prima ragione è l’inganno che noi sappiamo di star giocando a noi stessi: l’ingannare sé o gli altri provoca sempre un po’ di angoscia; la seconda ragione, più profonda, deriva dalla natura stessa del desiderio che è costretto a scaricare di soppiatto la sua componente di desiderio ignobile rifiutato dalla coscienza morale. Il genitore che aggredisce fisicamente il figlio e indugia con le mani, ancor più del  necessario, su quelle carni, dice a se stesso di punire suo malgrado e per il bene del figlio, soggiungendo con aria compunta: «Queste botte fan più male a me che a lui». Lo stesso genitore non riuscirebbe a vivere consapevolmente il piacere sadico provato sul corpo del figlio e l’eroticità del contatto epidermico; non riuscirebbe ad accettare l’idea che quella punizione vuole realizzare più un desiderio incestuoso che un principio di giustizia. Ecco allora verificarsi il conflitto interiore per il bisogno di punirsi di quel piacere illecito: l’angoscia si presenta riparatrice ed offuscamente di possibili chiarezze.
Le paure che ci assalgono durante il compimento di un’azione consueta non sono soltanto proprie dei fobici e degli ipocondriaci; nessuno è riuscito a strutturare la gerarchia delle proprie paure in modo totalmente coerente con ciò che consapevolmente sostiene. Anche la persona più spregiudicata e temeraria ha più paura di certi gesti che di altri, senza apparente giustificazione logica. Egli si affretterà a razionalizzare la gerarchia delle sue piccole paure, ci spiegherà perché ha più paura di una cosa che di un’altra; ma questa scala di valori non reggerà, o meglio: non reggeranno le giustificazioni se le sottoporremo ad una analisi ed osservazione accurate.
I gesti si caricano non soltanto di angosce e di paure derivanti loro da motivazioni inconsapevoli, ma acquistano, anche, coloriti emozionali euforici ed allegri, derivanti da ragioni analoghe ed opposte. Tutte le azioni umane racchiudono stranezze di tipo onirico; sembrano meno appariscenti e più controllate; però, scisse nei loro componenti ed osservate al microscopio, risulteranno ugualmente assurde. I gesti, spesso, compiono parabole stravaganti, prima di raggiungere lo scopo, se lo raggiungono. In moltissimi gesti sono presenti elementi che addirittura li contraddicono: mentre cerchiamo di raggiungere una meta il nostro comportamento è tale da inibirci il risultato. Ecco allora le indecisioni in gesti che dovrebbero essere decisi: schiaffi che accarezzano, baci che mordono, e così via. Tutti questi singoli elementi sono scomponibili ed osservabili. Anche per questo non esistono due persone uguali e la stessa persona non riesce a compiere due volte lo stesso gesto nell’identico modo. L’essere vivente si realizza nella ricchezza della propria contraddittorietà.
Ricchezza di elementi, contraddittorietà, sono anche caratteristiche dei sogni.
Nella veglia e nel sonno, l’uomo si rivolge a se stesso e agli altri attraverso tante lingue o formule espressive. Queste formule espressive non sono altro che il continuo tentativo di realizzare il desiderio. Desiderare e vivere sono, secondo me, la stessa cosa. Il desiderio e la vita sono molto complessi, variopinti e articolati. La vita si dirama in una pluralità aggrovigliata di desideri. I desideri si scontrano, si fondono e divengono: la vita.
Il sogno, appunto, permette alla vita di rappresentare sé a se stessa con uno spettacolo il più possibile immediato ed efficace. La vita pensa se stessa nei sogni; ma quanti bisogni e quanti desideri noi troviamo nei nostri sogni! Se la vita e il desiderio si esprimono nel sogno e se il sogno rappresenta la vita in un modo più immediato e diretto che la veglia, si potrebbe dedurre che l’essere umano nella sua più schietta natura non è altro che un cumulo di desideri; vitali sì, ma, per lo più, terribili e inconfessabili. Ancor meglio, si potrebbe dire che l’essere umano è soprattutto, o forse soltanto, desiderio. Il desiderio sorge da un bisogno che è sempre il bisogno di un singolo; il desiderio risulta allora essere il desiderio di un singolo e, quindi, sempre egoismo.
A questo punto, le considerazioni si affollano, vorrebbero trovare espressione tutte in una volta; mi è abbastanza difficile dar loro una organizzazione e un ordine di precedenza. Cercherò di dipanarle nel modo più semplice che mi sarà possibile. Le considerazioni che mi si sono presentate subito e contemporaneamente alla mente sono due. La prima: che l’egoismo è un termine che esprime un atteggiamento di arida chiusura verso gli altri ed è contrapposto all’altruismo, visto come atteggiamento di apertura feconda. La seconda: che il desiderio, pur vivendo sempre nel singolo, non per questo deve coincidere con l’egoismo.

A proposito della prima considerazione, voglio dire che questa contrapposizione e di egoismo-altruismo è il frutto di una cultura e di un atteggiamento che, mentre da un lato esaltano cristianamente l’altruismo, condannano l’egoismo, dall’altro ritengono l’egoismo, da un punto di vista biologico ed economico, l’unica molla dell’essere umano.
Questa è la profonda schizofrenia della nostra cultura. La nostra società ha, inoltre, bisogno di esaltarsi esaltando l’abnegazione e la bontà, mentre, contemporaneamente, vive di un egoismo che non è soltanto ricerca del piacere; ma è soprattutto paura e rifiuto di una buona parte di piaceri, propri e altrui. La bontà e l’egoismo sono visti soprattutto come sofferenza, rinuncia e auto-castrazione. I piaceri sono visti con diffidenza: debbono essere controllati e controllabili: guai se sfuggono di mano! Si ha molta paura di confessare che si sta godendo, un po’ perché si farebbe brutta figura, un po’ perché immediatamente sorge dall’interno un’oscura paura della punizione. In realtà, non è l’egoismo, in generale, ad essere l’unica molla della vita; ma è un egoismo specifico: chiuso, rattrappito e diffidente. Questa situazione è la causa principale che conduce ed educa gli esseri umani alla cattiva coscienza; a provare in sé quell’egoismo rancido ed ottuso che ha timore del piacere e del godimento. Nello stesso tempo dagli altari, dalle cattedre e dai buoni libri piovono esortazioni alla bontà e alla abnegazione.
Posso ora passare, senza fare un salto troppo brusco, a fare alcune osservazioni sulla mia seconda considerazione. Abbiamo visto come l’egoismo sia un modo particolare di vivere il sé, ed anche un modo particolare di vivere i propri desideri. L’egoismo è, quindi, soprattutto frutto della diffidenza. Diffidenza talvolta giustificata in una società di diffidenti. Non ho nessuna intenzione di esortare ad offrirsi moralmente e psichicamente nudi ed ingenui ad una società di persone armate e sospettose: sarebbe improduttivo, poco divertente e pericoloso. La lotta e la diffidenza hanno anche un loro aspetto affascinante; divengono pericolose, e anche noiose, quando sono le uniche categorie di vita.
Secondo me, l’egoismo non coincide con il desiderio individuale: è un modo di vivere alcuni desideri. I bisogni umani, e quindi i desideri, sono, per fortuna, molto più ricchi. Non mi piace contrapporre l’egoismo all’altruismo; preferisco ricercare in me e negli altri i bisogni e i desideri tentando di non avere paura di quelli imbarazzanti.
A questo punto sono giunto ad una stretta che mi è difficile sciogliere: o dico, come un bell’eroe tardo- romantico, che bisogna esaltare ed accettare tutti i bisogni e vivere tutti i desideri, o mi contraddico, dicendo che alcuni bisogni e alcuni desideri non mi stanno bene e quindi non li accetto (si capisce però che non li voglio perché non li desidero). Io, noi, sono, siamo frutto di una situazione che ci ha preceduti. Altri prima di me, di noi, hanno vissuto e desiderato; io sono, noi siamo il risultato di questi desideri. Perciò questi desideri non solo determinano questo modo di vita, ma sono anche questa vita: la vita che c’è, o meglio: le cose che questa-vita-che-c’è ha.
Il proliferare dei bisogni continua, come pure continuano i desideri. Orientarsi in questa selva di bisogni e desideri avendo come molla e direttrice un gruppo di bisogni e di desideri può essere abbastanza stravagante. Forse è strano soltanto secondo uno dei linguaggi possibili, che però si compiace nell’esprimere questa stravaganza. Nuovamente i giochi di parole potrebbero essere moltissimi e molto fioriti, una altalena di contraddizioni, non del tutto inutile; ma che a questo punto stancherebbe.
Col mio desiderio, quindi, guido i miei desideri. Questa affermazione è ricca di possibilità, spero che esprimerla così, sotto forma di sentenza, non la impoverisca, ma che la carichi retoricamente di significati.
Sta di fatto che non tutti i bisogni e desideri sono accettabili. Progredire esistenzialmente e politicamente vuole anche dire rifiutare alcuni bisogni e alcuni desideri, che risultano a loro volta inaccettabili a causa delle esigenze di altri bisogni e altri desideri.
È importante, però, sforzarsi di tentare la strada della realizzazione di tutti i desideri, almeno buttarci uno sguardo. L’aggettivo «tutti» è certamente esagerato, ma non voglio sostituirlo per attenuarne la forza; mi parrebbe di castrare, se pur solo in astratto, l’avventura dei desideri e della loro scoperta.
I bisogni ci sono e si esprimono attraverso i desideri. Vivere, come ho già detto, vuol dire anche avere e conoscere i bisogni, avere e conoscere i desideri.
Questo continuo ristrutturare il campo delle nostre possibilità ed esperienze, per esprimere bisogni e desideri, non è altro che la continua ed ineliminabile ricerca del piacere. Tutte le nostre espressioni-esperienze tentano di realizzarsi seguendo il principio di piacere come principale, e forse unico, modo di essere. Il piacere è un concetto così onnicomprensivo che, se non fosse espressione di qualcosa che ci sentiamo sotto la pelle con immediatezza, sarebbe quasi inesprimibile.. Ciò che viene sentito come piacere parrebbe qualcosa di originario, di primitivo, di assolutamente spontaneo; ma non è così.
Il piacere e il bisogno del piacere sono ineliminabili. Però, il piacere è sempre «questo» o «quel» piacere, in seguito ad un processo evolutivo e storico.
I condizionamenti producono i piaceri e i piaceri controllano i condizionamenti. Il piacere non è spontaneo, il piacere è. La sua ineliminabilità non ha niente a che fare con la sua spontaneità. Credo che sia assolutamente inutile tentare di determinare se siano nati prima i condizionamenti oppure i piaceri. Bisogni, desideri e piaceri sono frutto di una realtà storica. Sono il dato di un momento del divenire del vivere umano. È facile e stupido perdere tempo per dire le solite frasi intorno al relativismo e al soggettivismo del piacere.
Il piacere, come il desiderio, ha sempre fatto paura. La nostra cultura ha coniato un termine: «edonismo», per marchiare quel modo di vivere che ha il piacere come sua unica guida. Gli edonisti sono persone guardate con diffidenza e disprezzo, come se fossero persone intente solo alla ricerca del proprio piacere egoistico. Edonista coincide con egoista. Forse l’edonista è considerato un egoista che sa vivere il proprio egoismo con eleganza; ma, sotto, sotto, è giudicato arido e sterile come tutti gli egoisti. Questo secondo la nostra cultura, che ha paura del piacere, o meglio, che non vuole confessare a se stessa di esistere soltanto per il piacere. Allora preferisce chiamare molti piaceri con un altro nome, credendo con questo di sfuggire al dominio del principio di piacere. È molto importante continuare a sostenere la sacralità del piacere. Bisogna liberarlo dalla schiavitù dell’egoismo. Piacere, egoismo, distruttività, non sono equivalenti: il piacere è sacro
e come tale va rispettato.
È compito di una nuova filosofia dell’uomo chiarire questo concetto. Forse è compito dell’uomo chiarire questo concetto alla filosofia. Chi se ne frega se Hegel sogghigna di piacere?
La ricerca del piacere non è più distruttiva ed egoistica di quanto lo siano la fuga dal dolore, l’abnegazione e l’altruismo.
Nel piacere è presente tutta la ricchezza della vita.
Al tempo presente però il piacere è troppo mescolato con l’egoismo e con la distruttività: secoli di educazione all’egoismo non si possono distruggere né con la filosofia, né con la psicoanalisi; forse non si distruggeranno più. Lo sforzo di liberare il piacere deve essere una esigenza costante. Attualmente il piacere porta con sé anche contraddizioni e paure che si rivelano non soltanto nell’assurdità dei gesti della veglia; ma anche nelle fantasiose costruzioni oniriche.
Sono tornato a parlare del sogno come espressione del desiderio e, quindi, come l’ennesimo tentativo dell’esistenza umana di vivere il piacere.
Il piacere, anche nel sogno, non si può manifestare direttamente e scopertamente; anzi, molti sogni, come tutti sanno, sembrano a volte contraddire il principio dell’immediata ricerca del piacere. L’ho già detto: ogni sogno tenta vie diverse e linguaggi molteplici, cercando di far vivere i desideri. Sotto questo aspetto, si possono distinguere tre tipi di sogno: a) sogni immediati di desiderio; b) sogni di angoscia; c) sogni di esorcismo.
I sogni immediati di desiderio, pur nella loro polidirezionalità, sono quei sogni che hanno un colorito piacevole e realizzano in modo manifesto un desiderio. Una giovane donna racconta:
«In quei giorni avrei dovuto presentarmi per essere assunta in un nuovo posto di lavoro. Per me era molto importante perché, se tutto fosse andato bene, sarei riuscita a sistemarmi definitivamente anche sotto l’aspetto economico e avrei potuto andarmene di casa. Ho sognato che ero molto allegra: mi trovavo in riva al mare, su di una spiaggia molto luminosa; ero in piedi sotto un ombrellone e tentavo, con un po’ di fatica, di togliermi di dosso una giacca da uomo pesante e scura. Raccontavo a qualcuno, non so a chi, che ero così contenta perché ero stata assunta. Il lavoro era molto interessante e molto più pagato di quanto non pensassi. Mi colse un brivido di freddo, ma molto piacevole, se pure un po’ angoscioso, quando improvvisamente mi trovai senza quella giacca pesante. Tutto intorno a me era allegro ed io mi sentivo a mio agio».
La realizzazione immediata del desiderio è evidente: in quei giorni di incertezza per il nuovo lavoro la donna sogna che tutto sia già risolto secondo i suoi desideri; è stata assunta, il lavoro è interessante e ben pagato. La spiaggia le ricorda quella del paese di mare delle sue villeggiature infantili. Ricorda le sgridate del padre che non la lasciava allontanare dall’ombrellone e le limitava il sole e l’acqua, perché in quei tempi la sua salute era abbastanza delicata. Riconosce con certezza in quella giacca pesante e scura una vecchia giacca di suo padre. Trovare lavoro vuole anche dire emanciparsi dalla famiglia e dalla sudditanza al padre (la donna, non più giovanissima, sente i genitori come un peso insostenibile). Ecco il piacere un po’ angoscioso nel liberarsi di quella giacca, gesto che è anche però un denudarsi e quindi un esibirsi. Il sogno ha comunque tutto un colorito piacevole per il gradevole senso di esibizione e di liberazione che allo stato di veglia era solo una speranza.
I sogni di angoscia nascondono, come sappiamo, desideri rifiutati o conflittuali, che perciò, nel manifestarsi, procurano angoscia. La stratificazione e la condensazione onirica servono a rendere il sogno oscuro per la razionalità vigile; ma il sogno, nel momento in cui si manifesta, conosce bene i propri desideri. Una ragazza racconta:
«Mi trovo di fronte ad un grande tavolo, veramente sproporzionato; su questo tavolo c’è ma grande bacinella azzurra, io voglio vedere che cosa contiene, avvicino una sedia al tavolo, vi salgo su, e mi trovo a guardare un liquido biancastro. Ho in mano una forma di materia indefinibile, viscida e disgustosa, immergo la mano e questa cosa nel liquido. La sensazione è orribile; la “cosa” sembra via, came se fosse un polipo o un pesce. Sto malissimo e mi sveglio terrorizzata».
La sognatrice, pur sostenendo di avere nel sogno la sua età in realtà, ha vissuto oniricamente una situazione infantile: i mobili smisurati, il gesto di salire ai di una sedia per riuscire a vedere sul tavolo. Con una certa ansia ricorda di dove proviene il catino azzurro: è il catino in cui vedeva immergere il fratellino al momento del bagno. La «cosa» o pesce che ha tra le dita le ricorda un grande pesce di gomma con il fischietto, gioco preferito dal fratellino. Non è difficile far affiorare alcuni desideri rifiutati che procurano angoscia: da bambina la sognatrice ha desiderato annegare il fratellino che vedeva nell’acqua, ed ha anche desiderato toccargli i genitali, sia per strapparglieli che per masturbarlo. L’aggressività e i desideri erotici verso il fratello non hanno solo tormentato la sognatrice da bambina; ma sono uno dei suoi grossi problemi attuali. L’angoscia di fronte a questi desideri è più che comprensibile.
Il terzo tipo di sogni è quello che io ho chiamato di esorcismo. In questi sogni viene rivissuto un evento traumatico e angoscioso, spesso si tratta di sogni ricorrenti. L’evento sgradevole si presenta nuovamente alla psiche, che tenta di appropriarsene, immaginando, allucinatoriamente, di dominarlo meglio di quanto in realtà non sia accaduto. L’evento sognato è in realtà sgradevole; ma il sognatore, risognandolo se ne appropria: non ne è più vittima passiva. Il fatto stesso che è lui a riprodurre l’avvenimento, nel sogno, gli permette, in un certo senso, di controllarlo, di esorcizzarlo. Questo vale anche per qualche sogno in cui si presentano esperienze dolorose di cui si ha timore, anche se, in realtà, non sono mai accadute. Questo è più che mai un esorcismo: rappresentare l’avvenimento significa dominarlo, renderlo famigliare e quindi innocuo. Un uomo racconta:
«Dieci anni fa, circa, vissi una terribile esperienza di naufragio su di una piccola imbarcazione; quell’esperienza ritorna ancora nei sogni. È terribile ed angosciosa. Sogno gli avvenimenti come sono realmente avvenuti, anche se ho l’impressione che ogni volta vi sia qualcosa di diverso. Qualche notte fa, ad esempio, il sogno terribile è ritornato: gli elementi fondamentali erano gli stessi; però mi pare che ci fosse un nuovo elemento: il tentativo di arrampicarmi sulle spalle di un mio compagno di disavventura, per raggiungere qualcosa che si trovava in alto. Ogni volta il sogno si conclude con il mio risveglio: sono seduto ed ho il cuore in gola, accendo la luce, mi guardo intorno con un piacevolissimo senso di liberazione. Sono contento di trovarmi nella mia camera, nel mio letto, al sicuro… ».
Ho fatto l’esempio di questo sogno perché, secondo me, prova come i sogni siano spesso strettamente intrecciati alla veglia. Il gioco piacevole che viene messo in atto, in questo caso, è quello di riprovare lo spavento per godere immediatamente del risveglio e della sicurezza ritrovata. Qui viene realizzato il pensiero di molte situazioni tristi: «Come vorrei che fosse un sogno!». È persino probabile che l’uomo durante la terribile esperienza abbia proprio pensato questo ed ora realizzi il suo desiderio, sentendosi così onnipotente. Si può notare anche la presenza di un desiderio omosessuale: salire sulle spalle del compagno; che potrebbe aggiungere angoscia all’angoscia. Desideri omosessuali che potrebbero essere sorti violentemente durante l’esperienza del naufragio in cui un gruppetto di individui, tutti maschi, si trovò molto unito emotivamente e fisicamente, nello sforzo verso la salvezza.
Come balza evidente, in tutti i tre sogni che ho presentato sono presenti, oltre all’elemento caratteristico proprio di ciascun tipo di sogno, anche gli elementi degli altri due tipi. Il sogno, come il pensiero vigile, è una sintesi di pensieri. Probabilmente il sogno non si snoda mai così come viene ricordato e raccontato; al contrario, esso è molto verosimilmente una catasta di immagini, parole, suoni compresenti e polidiretti, che cerca un suo ordine fin dal suo primo ripresentarsi alla memoria. Catasta di elementi che traboccano dal sogno per confondersi e fondersi con il mucchio di immagini, gesti e parole della veglia.
La stranezza del linguaggio onirico e la sua fantasiosa ricchezza possono far pensare che il sogno sia il regno della libertà e della spontaneità. Si potrebbe credere che l’essere umano, condizionato dalla coscienza vigile e dalle convenzioni, ritorni libero nel momento in cui, sognando, i desideri si scatenano esprimendosi in innumerevoli pensieri e linguaggi. Questa convinzione è, però, quanto mai ingenua. Non esiste nell’uomo il luogo privilegiato della spontaneità; proprio come sulla terra non esiste il luogo in cui vivono uomini selvaggi, spontanei e felici. Gli illuministi hanno inventato il mito del buon selvaggio e uno sciocco pedagogismo pseudopoetico ha esaltato il sogno come il luogo in cui l’emotività si scatena felice, senza limiti e pastoie.

Il sogno è schiavo, come il sognatore, di ciò che l’essere umano è ed ha. La non spontaneità del sogno non si rivela soltanto nel camuffamento dei desideri; la sua non spontaneità comincia nel momento stesso in cui il sogno tenta di esprimersi.
Io, sognatore, parlo di ciò che so con i linguaggi che posseggo. Posso dire soltanto quello che mi hanno condizionato a dire; nel sogno non sono più aggressivo che nella veglia: lo sono solo in modo diverso. Non sono più ipocrita, non sono più sincero, non sono più buono. Forse sono, mio malgrado, un po’ più sincero. Mio malgrado, perché la trasparenza dei sogni non è voluta né dal sogno né dal sognatore. Nel sogno io proseguo le mie esperienze e il mio desiderio di esprimermi. Ho forse un leggero spostamento di prospettiva, controllo meno alcune cose; ma di più altre. Forse l’unica libertà data all’uomo è la possibilità di essere un po’ più sincero e di guardare un po’ meglio in faccia i propri desideri. Non mi interessa affrontare il problema del libero arbitrio: forse questo è il problema più inutile che abbia inventato l’uomo. Ammesso che esistano problemi inutili.