Psicoanalisi contro n. 1 – Alla ricerca di una teoria

novembre , 1978

Ci si trova nel mondo, non si sa perché, non si sa come mai. La realtà, o quella che noi riteniamo tale, è lì, di fronte a noi, con tutte le sue contraddizioni, le sue ingiustizie, le sue bellezze, in una parola: con tutta la sua concretezza.
Non serve a niente dire: «Ognuno ha la propria realtà, le varie realtà sono incomunicabili, l’uomo è prigioniero delle proprie sensazioni e dei propri pensieri». Esistono tante realtà quanti sono gli individui, intervenire dall’esterno su queste realtà è impossibile o, peggio ancora, è una violenza inutile contro la realtà altrui.
Follia e normalità sono parole che servono non si sa bene a chi; basta cambiare punto di osservazione e ciò che prima era follia diventa realtà, e viceversa. Si può fare il medesimo discorso anche a proposito di giustizia ed ingiustizia, di bello e brutto, di buono e cattivo, etc.
Se violenza è male, se intervenire è sempre violenza, intervenire è sempre male. Questo semplice sillogismo ha una certa forza; dipende, come tutti i sillogismi, da una affermazione dogmatica, ingiustificata: il bene e il male esistono e la violenza è un male. È questo, quindi, un sillogismo non coerente con le asserzioni sulla relatività di tutti i concetti e di tutti i valori.
Se non si può dire con certezza, come io credo, che cosa siano follia normalita, giustizia ed ingiustizia, bello e brutto; non si può neanche dire cosa sia il bene e cosa sia il male. Ed allora la violenza diventa un concetto senza un colorito di valore, rimane violenza e basta: forza che impone, che frantuma, distrugge o ricostruisce.
Distruggere non è più violento che costruire; perciò, secondo me, intervenire sulla realtà è sì una violenza, di fatto, ma non è possibile determinare, aprioristicamente, se sia meglio intervenire che non intervenire.
Io, da parte mia, mi sento inserito in una realtà, illusoria e soggettiva quanto si vuole, che mi condiziona, mi determina, mi fa soffrire o mi fa godere. I miei desideri sono questa realtà, ma anche le frustrazioni dei miei desideri sono questa realtà, perciò, io, per quel che mi riguarda, decido di intervenire.
È una decisione soggettiva ed egoistica, forse non è neanche una decisione, però non appena tento di strutturare il campo delle mie percezioni, intervenendo su di me e sul reale, mi trovo, senza volerlo forse, a manipolare quella che credevo essere la mia realtà, ma che invece scopro essere anche la realtà degli altri. Sartre dice: «È la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli» (Cfr. L’Essere e il nulla). Probabilmente è vero: non è più violento il condottiero dell’ubriacone; tutti e due “intervengono” in qualche modo, modificano e coinvolgono gli altri.

A questo punto, mi sono accorto di aver introdotto un nuovo concetto: quello che intervenire o non intervenire non cambia molto. Con il fatto stesso di esistere, respirare, parlare, scopare, cacare, si interviene sulla realtà, o su quella che noi crediamo essere la realtà.
Si può però decidere di intervenire, decidere di non intervenire, anche se la decisione non è una vera decisione perché la scelta è, forse, impossibile. Rimane il fatto che alcuni credono di intervenire ed alcuni altri no.
Io, un giorno, ho creduto di intervenire. Mi sono trovato coinvolto con altri che avevano la mia stessa convinzione, mi sono scontrato con altri ancora, che erano convinti di dover intervenire in modo diverso dal nostro.
Io oggi credo di intervenire. Ho scelto la scelta impossibile e mi sforzo di modificare, me stesso, miei amici, la mia stanza, la società. Un giorno ho scelto la psicoanalisi come scelta-non scelta, ora uso la psicoanalisi come scelta-non scelta di intervento. Altri come me, io con altri. Al tutto è stato dato il nome di Psicoanalisi Contro. La psicoanalisi ha modificato la mia realtà, ora, insieme ad altri, la voglio usare come strumento per intervenire. Non credo che la psicoanalisi sia l’unico strumento possibile, forse non è neanche il migliore. Certamente, nell’inconscio permangono fantasie di onnipotenza; quasi tutte le persone che hanno iniziato ad osservare sé e gli altri con l’aiuto della psicoanalisi (non ha importanza secondo quale scuola) si sono trovate, ad un certo punto, coinvolte in un delirio di onnipotenza che si esprime in una forma maniacale di interpretazione totale: «Con la psicoanalisi si può interpretare tutto, con l’interpretazione tutto diventa chiaro e quindi controllabile e modificabile».
Coloro che giocano con l’inconscio sanno di avere a che fare con qualcosa di pericoloso e spesso si difendono irrigidendosi in un atteggiamento stereotipo di potere. Indubbiamente la psicoanalisi è ed ha un potere; è utile averne la consapevolezza prima di volerla usare. Una delle tante presunzioni della psicoanalisi, o meglio, dell’atteggiamento psicoanalitico, è quella di intervenire sulla realtà senza condizionarla. L’intervento della psicoanalisi si chiama «presa di coscienza»; gli «inventori» della psicoanalisi hanno affiancato al concetto di presa di coscienza quelli di neutralità e oggettività della scienza. Neutralità ed oggettività «sui generis» quelle della psicoanalisi, che fanno acqua da tutte le parti, zoppicano e scricchiolano. Freud, più di tutti, era consapevole di ciò; ma tanti psicoanalisti continuano a comportarsi come se la presa di coscienza fosse frutto di interpretazioni illuminanti, che mettono in luce una realtà oggettiva, dopo aver distrutto e superato le difese e le resistenze. Atteggiamento abbastanza ingenuo, criticabile, criticabilissimo; ma che ha in sé una enorme potenzialità rivoluzionaria.

Da che mondo è mondo, la terapia, come la religione, ha usato il mistero come elemento dell’intervento: io, terapeuta, manipolo; le mie mani si muovono svelte, tu, paziente, non sai cosa fanno e non sai perché lo fanno; io, terapeuta, ho il mio linguaggio per parlare con gli altri terapeuti; tu, paziente, devi stare buono, obbediente; solo così otterrai la guarigione.
La psicoanalisi ha tentato di superare tutto questo: si interviene sull’uomo non soltanto attraverso il mistero, i condizionamenti gestiti dal terapeuta; ma il paziente, attraverso la presa di coscienza, diventa comprensibile a se stesso: «Quanto più so di me, tanto più sono guarito». Io ritengo che questo sia l’unico modo valido di agire terapeuticamente.
Purtroppo la psicoanalisi «ortodossa» ha imboccato una via che è, secondo me, sbagliata: quella che porta ad affermare che la presa di coscienza coincida con il disvelamento della verità. Così il terapeuta diviene il depositario delle interpretazioni esatte; la società e l’inconscio hanno strutture portanti che si possono mettere in luce grazie ad una tecnica precisa che le rende autoevidenti: ecco il famoso mito delle interpretazioni esatte che distruggono il sintomo e fanno cadere il velo della cattiva coscienza.
Tutto questo è falso ed è vero allo stesso tempo: falso perché lo strumento del terapeuta, che dovrebbe portare a galla e mettere in luce la verità, è uno strumento che si è forgiato proprio sulla verità che voleva andare a scoprire: prima c’è la verità, poi lo strumento per scoprirla; d’altra parte certi strumenti scopriranno sempre e soltanto certe verità, proprio come certe verità sono tali perché sono state scoperte con l’impiego di determinati strumenti.

Il paziente e il terapeuta nel loro lavoro trovano una realtà che non dipende soltanto dai loro desideri consapevoli; durante l’analisi, balzano all’improvviso di fronte a tutti e due desideri e ricordi fino allora ignorati o nascosti ed ora se li trovano davanti , ci devono fare i conti, se ne devono appropriare.
La presa di coscienza, secondo me, è l’unica forma corretta di terapia, purché non si scambi la presa di coscienza per la verità. La presa di coscienza è una consapevolezza ambigua e confusa che come forma ha la verità, ma, come contenuto, i nostri desideri, o anche: come forma i nostri desideri e come contenuto l’ignoto.
Eppure il lavoro psicoanalitico non è lavoro sull’illusione; è lavoro sulla realtà: su di una realtà, però, che non è data per sempre. La psicoanalisi è figlia del senso di colpa; ma, poiché per fare un figlio bisogna essere in due, l’altro genitore è il desiderio di liberarsi da questo senso di colpa. Perché tutto questo sia possibile ci deve essere, prima di tutto il resto, la colpa; ma la colpa è un’invenzione del potere.
La psicoanalisi affonda le sue radici nella cultura ebraico-cristiana, per la quale il peccato originale costituisce l’essenza stessa della natura umana, così come la ritroviamo oggi. Che importanza può avere che uno sia stato innocente in un paradiso terrestre?
Abbiamo detto che all’inizio c’era il potere, che ha creato la colpa; senso di colpa e desiderio di liberarsene hanno prodotto, oltre agli esorcismi e ai confessionali, anche la psicoanalisi.
È stato detto che la neutralità del terapeuta, che non giudica le mostruosità e le perversioni che gli arrivano sul divano, libera il paziente dal senso di colpa, interpretandone oggettivamente le motivazioni inconsce. Questo, in parte, può anche essere vero; ma io ho il sospetto che sia un’illusione.
Non credo che ci si possa liberare dal senso di colpa soltanto perché si scoprono le motivazioni delle nostre azioni, grazie ad un padre buono che non ci giudica, ma spiega. Ce ne liberiamo, se mai, perché pensiamo che, tutto sommato, siamo stati costretti dall’inconscio ad agire come abbiamo agito e, quindi, ci convinciamo, non tanto della neutralità morale delle nostre azioni, ma della loro validità morale, perché sono state il frutto dell’unica scelta possibile.
Né paziente, né terapeuta possono spiegare, senza ricorrere a giudizi di valore. Nessuna spiegazione è soltanto una constatazione: guai a quel terapeuta che non accetta di discutere e di lottare con il paziente, o meglio: guai a quel paziente che non riesce a coinvolgere il terapeuta. Guai a entrambi però se non sono consapevoli anche di questo e non si sforzano di trarsene fuori. Per una psiche strutturata come la nostra, educata ad operare separazioni nette, a credere che tutto sia o bianco o nero, o vero o falso, è abbastanza difficile entrare nell’ordine di idee di una oggettività radicata in meccanismi proiettivi riprodotti all’infinito.
Il rapporto psicoanalitico si scontra immediatamente con le resistenze; resistenza non è soltanto l’ottusa opposizione alla presa di coscienza, è anche la difesa che l’individuo mette in atto contro il pericolo della propria distruzione e disintegrazione.

L’essere vivente si realizza nel rapporto con l’altro da sé; prima di questo rapporto non esistono né un lui né un altro; lui e l’altro sono il desiderio dell’uno che si dirige verso il desiderio dell’altro. Il desiderio non ha limiti. Il desiderio dell’uomo, come dice Feuerbach, è Dio stesso, quindi vorrebbe essere onnipotente. La sua onnipotenza, in effetti, non è altro che la sua irriducibilità originaria alla costrizione; l’Io è il proprio desiderio. Potranno, in seguito, intervenire strutture più o meno articolate, che la filosofia ha chiamato coscienza e memoria, anima e ragione; che per la psicoanalisi si chiamano Io ed Es o Super-Io. L’infinità del desiderio è sempre anche una frustrazione; ma il desiderio non rinuncia, si difende, supplisce con la fantasia. Se non riesce a realizzarsi, rifiuta di desiderare ciò che desidera, negando quindi una parte di se stesso, è capace, infine, di sopravvivere ad ogni modificazione che si rende necessaria.
La resistenza è un meccanismo di difesa dalla sofferenza originaria; un meccanismo che fin da subito si deve mettere in atto contro aggressioni che vengono dall’interno e dall’esterno: dall’interno il desiderio, rimosso, che spinge; dall’esterno l’ambiente, che tenta di modellare, di dirigere, di incanalare.
Desiderio, resistenze ed ambiente si intrecciano, producono nuovi equilibri che a loro volta resistono alla disintegrazione e allo squilibrio, finché nuove forze non intervengono a modificare e a condizionare.
Non sempre questi meccanismi di difesa riescono a mantenere l’equilibrio senza sofferenze. Nel meccanismo economico desiderio e sofferenze si mescolano; il desiderio del piacere talvolta è costretto a scegliere tra due sofferenze e la nostra persona attuale è il frutto di queste avventure e disavventure del desiderio.
La falsa coscienza è, spesso, l’unica forma di anestesia possibile; ecco perché la presa di coscienza incomincia con l’aggressione delle resistenze, che non sono altro che il nostro modo d’essere, il nostro equilibrio attuale, anche se spesso questo equilibrio è vissuto come squilibrio e come dolore. Affrontare le resistenze vuol dire affrontare una destrutturazione. Il lavoro analitico, non solo quello terapeutico, ma anche quello che osserva il mondo, la società con le loro dinamiche, è un lavoro che ha bisogno della destrutturazione.
Le sclerosi sociali ed individuali, antiche come il mondo e come l’individuo, resistono e si ribellano al loro scuotimento. L’ignoto è più angosciante di una sofferenza certa e conosciuta. Kierkegaard dice che l’uomo è allevato dal possibile e che: «Quando si esce dalla sua scuola e si sa meglio, di come un bambino sa le sue lettere, che non si può esigere assolutamente niente dalla vita e che lo spavento, la perdizione, la distruzione, abitano a porta a porta con ciascuno di noi, e quando si è appreso a fondo che ciascuna delle angosce che noi temiamo può piombare su di noi da un momento all’altro, siamo costretti a dare alla vita un’altra spiegazione; siamo costretti a lodare la realtà, quand’anche essa gravi su di noi con mano pesante e a ricordarci che essa è ancora e di gran lunga più facile che non il possibile» (Cfr. Il concetto dell’angoscia).
Il desiderio che sta dietro le resistenze non è, però, qualcosa di sostanziale, di puro, di vero; è anch’esso frutto di stratificazioni successive, storicamente determinate nell’evoluzione dell’individuo. Non credo che esista, neppure per un istante, il desiderio puro. Il desiderio è sempre questo o quel desiderio, frutto già di una difesa e di una resistenza. Perciò la liberazione del desiderio puro, vagheggiata da terapeuti e da politici grossolani brutali, è il massimo della cattiva coscienza e dell’inganno dello psicologismo della neo-borghesia marxista.

La destrutturazione si scontra quindi con l’angoscia derivante dalla mancanza di parametri oggettivi e chiari. Mentre l’analisi procede, la persona perde la sicurezza; spesso scompaiono i sintomi fisici, le conversioni isteriche o i rituali ossessivi, ma si insedia un disorientamento più profondo; un disagio confuso. Perciò la destrutturazione deve essere sempre accompagnata da un tentativo di nuova ristrutturazione: questo è il lavoro analitico, questo è il lavoro terapeutico.
Indubbiamente, la storia di un’analisi attraversa momenti in cui si distrugge più di quanto non si costruisca, e viceversa; ma la destrutturazione è già anche costruzione e la costruzione è il significato politico rivoluzionario dell’analisi.
La conclusione dell’analisi non coincide col momento in cui la persona ha acquisito una conoscenza chiara ed oggettiva del proprio inconscio, ma col momento in cui, dopo aver superato l’ansia della destrutturazione, conosce un po’ di più i propri desideri ed è in grado di gestirli, usando questa conoscenza per mettersi in grado di inserirsi attivamente in questa realtà per modificarla.
Non ci troveremo certo di fronte un uomo nuovo, libero dal peccato e dal senso di colpa, ma un uomo che ha un po’ meno paura di ciò che è dentro di lui, perché ha accettato molte pulsioni e molte ha tentato di viverle.
La pulsione che fa più paura è quella sessuale: lo sapeva Freud e lo sa Psicoanalisi Contro. E’ impossibile vivere la sessualità senza rituali, senza “a priori”, senza pregiudizi; ma è indispensabile rendersi conto che l’uomo, che la psicoanalisi «ortodossa» giudica sano e normale, sarebbe un nevrotico malato e pervertito, se inserito in un’altra visione del mondo.
Inizio di una destrutturazione è soprattutto questo: volersi liberare delle sofferenze derivanti da un concetto di salute e di normalità, volersi, anzi, liberare dello stesso concetto di salute e normalità naturali. Ciò che la psicoanalisi tradizionale (ortodossa, come si dice) considera perversione costituisce, per noi di Psicoanalisi Contro i modi di vivere la sessualità e i rapporti interpersonali; non tutti questi modi sono da noi considerati, umanamente e politicamente, validi allo stesso modo. E’ vero che dobbiamo scoprire in noi la miriade dei nostri desideri sessuali e tentare di viverli tutti, ma inserendoli però in una visione del mondo che rispetti l’allegria e la dignità umana. Questa, allora, è una scelta ideologica e non scientifica? Può darsi! Ma non è possibile, a nostro avviso, altra scelta.

Il rapporto terapeutico fra due o più persone ha come caratteristica fondamentale, appunto, il rapporto. Freud lo ha chiamato «transfert», ma questo è un termine che definisce soltanto un aspetto del rapporto terapeutico e precisamente la possibilità che abbiamo di usare il terapeuta come una marionetta, o meglio, come una serie di marionette, di cui il paziente diviene il burattinaio.
Nella seduta terapeutica tradizionale il rapporto burattinaio-marionetta è capovolto. Nel teatro il burattinaio osserva e dirige la marionetta, nella seduta psicoanalitica è la marionetta che osserva il burattinaio, rimanendo nascosta.
Il terapeuta è potente, potentissimo, ma non è il burattinaio; si veste di tanti vestiti, si trasforma in tanti personaggi; è il padre, la madre, il fratello, la sorella, la vicina di casa; stranamente ognuno di questi personaggi parla sempre con la stessa voce.
Un ulteriore capovolgimento: la marionetta è più potente del burattinaio; il burattinaio adopera la marionetta per le sue rappresentazioni, ma è la marionetta che spiega al burattinaio ciò che lui sta facendo. Chi ha più potere nel rapporto terapeutico? Il terapeuta che spiega ed interpreta e che, quindi, possiede la verità, o il paziente che manipola il terapeuta, ne dipende, ma lo nega come persona reale?
Io, paziente, sono una persona reale per il mio terapeuta. Io, come terapeuta, ho il terrore di non essere una persona per il mio paziente. Del resto, se il terapeuta è persona concreta, presente e non solo una marionetta nelle mani del paziente c’è il rischio che diventi a sua volta burattinaio e che quindi manovri i fili del paziente.
È indispensabile che paziente e terapeuta scendano in platea e si incontrino come due persone in attesa dello spettacolo o, meglio ancora, entrambi devono decidersi a salire insieme sul palco e a dare inizio alla rappresentazione.
Sono scaduto in fantasie parnassiane e decadenti in cui la vita è vista come teatro e gli uomini come marionette; ma questo è, in fondo, il clima culturale fra ottocento e novecento: marionette un po’ stralunate zampettano su uno sfondo liberty, o meglio, secessionista. Freud aveva paura di questo incontro col paziente in platea o sulla scena, perciò scelse di nascondersi, affidandosi al potere della sua parola, misteriosa ed efficace come quella di Jahvé.
La psicoanalisi delle origini ha inventato un rituale per un rito impossibile che si svolge tra un dio potente, ma marionetta, ed un fedele, debole, ma burattinaio: è il rito della cattiva coscienza che chiama «transfert» un rapporto. Eppure tutte le osservazioni freudiane sulle dinamiche trasferenziali sono corrette; solo che isolano alcuni elementi del rapporto terapeutico pretendendo di renderli gli unici. Ogni terapeuta tradizionale, sforzandosi di vivere e di far vivere il transfert, come gli è stato insegnato, condiziona se stesso e i suoi pazienti; e questi sono i casi in cui abbiamo i sogni di transfert interpretati con tre oppure quattro formulette intelligenti, che lasciano per lo più, fuori la ricchezza di un sogno che esprime le fantasie su di un rapporto. Il rito della terapia tradizionale si basa, oltre che sul transfert su altri tre elementi fondamentali: il contro-transfert, il transfert negativo e il contro-transfert negativo. Quattro parametri a sostegno di un rito. Anche Psicoanalisi Contro usa questi parametri, ma li sente come sbarre di una gabbia e per noi il rapporto, anche quello terapeutico, deve essere una liberazione dalle gabbie.

All’inizio della mia ribellione all’ortodossia castrata e castratrice, mi sono tuffato nei rapporti terapeutici con la mia mente, la mia cultura, il mio fisico, la mia sessualità; poi mi sono accorto che non era possibile continuare in quel modo perché rischiavo di essere insincero; adesso mi rendo conto che dal rito non si scappa: l’importante è viverlo con sufficiente ironia. L’ironia è la salvezza dal rischio dell’ottusità terapeutica; gli psicoanalisti, in genere, ne posseggono pochissima, almeno quelli che ho incontrato sulla mia strada. E’ importante che il rapporto terapeutico sia un rapporto d’amore, senza limiti prefissati, ma con poca ipocrisia.
Io, terapeuta, sono disponibile con tutto me stesso, anche con il mio corpo; però ho scoperto che disponibilità non vuol dire insincerità o violenza contro se stessi.
I terapeuti di Psicoanalisi Contro non riescono a curare se non si innamorano (ho usato provocatoriamente il termine «curare» per metterlo in contrapposizione simmetrica al «curare» della scienza terapeutica neutrale). Certo, ci si può chiedere come si riesca ancora a gestire un rapporto terapeutico che non ha limiti, e il cui rituale ha una realtà simbolica da viverci con ironia e un po’ di vergogna, e che quindi si affolla di tanti e tali elementi che non si capisce più niente. E’ vero, infatti che così i parametri da seguire diventano quasi infiniti; ma noi rispondiamo che in questo caso la psicoanalisi viene in aiuto a se stessa; essa è infatti una cosa così ambigua e allo stesso tempo così perfetta e onnicomprensiva che la si può usare nella realtà della situazione terapeutica anche quando questa è così intricata da così tante e tanto proliferanti dinamiche. Con stupore ci si accorgerà che il meccanismo del lavoro terapeutico psicoanalitico può continuare senza essere disturbato, come se niente fosse. La realtà da analizzare è più
ricca, ma questo va a vantaggio, non a scapito dell’analisi. Il rapporto di amore con il paziente non si esprime soltanto con la sessualità, ma anche con la voglia di compromettersi e soprattutto con la voglia di diventare persona reale. Il paziente diviene a sua volta maggiormente persona reale, con un più completo contatto con se stesso e la propria libido, spezzando le costrizioni dei sintomi e dell’ottusità. Paziente e terapeuta diventano entrambi persone reali con tutta la loro concretezza e fisicità. La terapia finisce quando tutto quello che il terapeuta poteva dare al paziente è stato dato.

Quasi sempre chi va da uno psicoterapeuta non vuole avere di fronte a sé un essere umano, ma qualcosa di più, o di diverso; ha bisogno di essere passivo e passivizzato, vuole la magia, la parola liberatoria e chiarificatrice. Si fanno molte fantasie sul terapeuta, sulla sua vita, sulle sue relazioni, sui suoi gusti, sui suoi organi genitali e sul suo modo di usarli. In realtà però il paziente non ha nessuna autentica curiosità; quello che vuole è parlare di sé ad un oracolo. Quando qualche paziente, meno narcisista, meno stupido e con buon senso dell’umorismo tenta di porre domande al terapeuta questi, in genere, riesce con molta più facilità di quanto non si creda a stornare la domanda, rispondendo con la frase classica, e un po’ ridicola: «Lei sta mettendo in atto delle resistenze, vuole farmi parlare di me per non parlare di sé… ». La situazione tipica della nevrosi e della psicosi di questa società è proprio questo ostinarsi a voler vivere gli altri negando loro la realtà e concretezza di persone; nel chiedere aiuto agli altri, ma rifiutando di sentirli, di percepirli, di ascoltarli. Viviamo circondati da persone che parlano troppo poco e da persone che parlano troppo, ma nessuno ascolta; silenzio o parole hanno la stessa funzione di diaframma tra sé e gli altri.
Tutto questo riappare esasperato nel rapporto terapeutico quando all’abitudinarietà dell’atteggiamento del paziente vi si aggiunge la complicità del terapeuta.
Due ci paiono essere i significati fondamentali dall’analisi: uno consiste nell’appropriazione, da parte del paziente, della propria ricchezza pulsionale e della capacità di gestirla; l’altro nella guarigione del terapeuta dal suo sentirsi ed essere sentito come fantasma. La conclusione della terapia deve essere non solo la guarigione del paziente, ma anche la guarigione del terapeuta.