Alwin Nikolais è senza dubbio un furbacchione: approfittando del fatto che, per lo più, la critica, il pubblico e gli stessi danzatori non ascoltano la musica di accompagnamento nel balletto, finge di essere anche un compositore e firma oltre alle coreografie anche la base sonora dei suoi spettacoli, pur non avendo nessuna nozione (lo speriamo per lui) della composizione musicale. Così ci guadagna anche i diritti d’autore che andrebbero al musicista. L’oscenità delle sue colonne sonore raggiungerebbe il delirio se non fosse superata dalla loro monotonia: orrendi suoni elettronici si sovrappongono ad arpeggi o melodiuzze, sempre stonate ed artificiali, in una ripetitività ossessiva.
Anche le coreografie di questo applauditissimo balletto andato in scena al Teatro Olimpico non sono un gran che. Allievo della Graham e della Holm, ha preferito rivendicare come ascendente quest’ultima insieme ad un astrattismo di derivazione pittorica. Il risultato è un grande assommarsi di luci che complicano i fondalini dipinti davanti ai quali i suoi ballerini si muovono in un moltiplicarsi di disegni che sembrano movimento, ma non lo sono. Il movimento vero e proprio è piuttosto schematico, si evolve in simmetrie e caleidoscopie, c’è un compiacimento che è tutto mimico ed un moralismo di fondo: automi, insetti, astronauti, pupazzi e marionette, spesso legati ai fili con un’aggiunta quindi ancora una volta di un’impressione dinamica che poco ha da spartire con la danza. Anche le evoluzioni cronologiche sono minime. Da «Tensile Involvement» del 1953, a «Tempie» del 1974, fino a «Mechanical Organ» del 1980 e «Liturgies» del 1983 le ispirazioni restano le stesse e caso mai si inaridiscono se è vero che solo nella prima coreografia la dinamica grafica non esaurisce un progetto che spinge uomini e donne ad esprimere una danza che cerca ritmi, slanci e accattivanti momenti di ingenua sensualità, non ancora ridotta alla caricaturalità erotico-mistica di Liturgies.
Ballet Eddy Toussaint de Montreal
I l balletto di Eddy Toussaint di Montreal è presente al Teatro Romano con due programmi. le musiche del primo di essi sono particolarmente impegnative, visto che i loro autori sono Bach, Albinoni e Mozart. Mettere delle etichette ad una scuola di danza (Toussaint ha anche una sua scuola vera e propria e ci tiene ad essere riconosciuto come maestro) è sempre difficile e un po’ inutile e se definiamo la sua una danza classico-moderna lo facciamo sapendo che significa poco; allora aggiungiamo che sotto il solido impianto classico si vede una ricerca di moduli personali e l’influsso della moderna cultura della danza.
Cantates è una coreografia del 1978 e, come tutte le altre in programma è firmata dallo stesso Toussaint, cittadino canadese di origine haitiana. Sulle musiche della cantata bachiana si sviluppa un’azione dapprima corale, di un gruppo di nove danzatori, che Sylvain Labelle ha pensato di vestire con un superfluo, ampio e lunghissimo perizoma bianco. Dopo una serie di passaggi molto elaborati, arricchiti da una gestualità ingenuamente religiosa, nasce un episodio solistico danzato da Mario Thibodeau con grande temperamento, tecnica molto precisa e bel dinamismo acrobatico. La coreografia si conclude, coralmente, dopo aver mantenuto un andamento ritmico di grande precisione, attento al discorso musicale, cui i movimenti e i gesti, se pure talvolta convenzionali, facevano continuo riferimento.
One simple moment del 1979 è un passo a due di alta scuola, come merita la bravura di Anik Bissonnette e Louis Robitaille, capaci dei passaggi più delicati e aerei, ma anche di esprimere appassionata sensualità, con la fusione dei movimenti dei corpi intrecciati. Calligrafismo prezioso e sensibilità interpretativa sostengono continuamente un discorso che si sviluppa in figure spesso significative, sempre interne ad una cifra stilistica riconoscibile come linguaggio danzato. Una sentimentale e lenta musica di Albinoni costituiva la trama su cui i due hanno costruito i loro preziosi disegni.
Il Requiem di Mozart ha segnato con la sua potente e drammatica presenza lo svolgersi dell’ultima coreografia, del 1985, forse stilisticamente meno lucida delle precedenti. Il dolore e il sentimento della morte hanno ispirato a Toussaint un lungo poema drammatico, dove però spesso l’ansia espressiva prevarica il bisogno di chiarezza; così il linguaggio è più composito, gli effetti vengono anche da un’espressività più esteriore. Lo provano il grande uso delle luci e il ritmo non sempre ordinato con cui le scene si succedono, la prolissità, l’affollarsi dei quadri e delle combinazioni. Louis Robitaille e Anik Bissonnette, Denis Delude, Sophie Bissonnette e Mario Thibodeau sono stati sempre all’altezza; il resto della compagnia, invece, ci pare abbia risentito, talvolta, delle complicazioni coreografiche.
Lamentiamo ancora una volta il pessimo sistema di amplificazione del Teatro Romano, che deturpa le musiche e che in Mozart ci ha fatto particolarmente soffrire.
Un tram che si chiama desiderio
Non stupisce che da Un tram che si chiama desiderio sia stato preso il pretesto per fare anche un balletto. Non perché sia materia particolarmente adatta, ma perché la persistente eco di quell’opera continua ad esercitare il suo fascino.
John Neumeier ha però costruito uno spettacolo che non aiuta ad apprezzare la danza e le sue grandi possibilità espressive. Soprattutto sua è questa responsabilità, poiché, oltre che le fiacche coreografie, ha anche curato le scene, le luci ed i costumi. Il risultato è stato quello di montare una rappresentazione teatrale in cui si tenta di mimare un dramma senza usare la parola. Si sente, infatti, moltissimo la mancanza della parola, cosa che ci conferma la mancanza della danza. La danza deve essere sempre una forma espressiva autonoma in se stessa, anche quando entra in rapporto con altre forme dell’arte.
L’esecuzione dello Stuttgarter Ballett che abbiamo visto è stata una pantomima che trovava una certa efficacia negativà solo nella volgarità di una sessualità esibita, neppure provocatoriamente e perciò un po’ ridicola. Il pasticcio arrivava al miscuglio di forme di danza sporadicamente balenanti, assolutamente eterogenee: afro, modern dance e anche pas de deux e piroette sulle punte; ma questi richiami alla danza ne evidenziavano solo l’assenza. Neumeier si arroga anche il merito di aver trovato le musiche più adatte a questo dramma americano, di lussuria, violenza e follia, proprio nelle composizioni di due musicisti russi: Prokofiev e Schnittke.
Per Asylum e Belle Reve ha scelto un’esecuzione di Vision Fugitives, eseguita dal vivo dal pianista Glenn Prince; ma questa musica risultava totalmente estranea perché si esprimeva attraverso strutture raffinate, melodie dal sapore antico, tornito ed aristocratico, che nulla hanno a che vedere con la provincia americana. La Prima sinfonia di Schnittke, diffusa in una registrazione della prima esecuzione a Gorki, nella seconda parte, non è adatta né disadatta: è semplicemente insopportabile, tanto è brutta.
Marcia Haydée saprebbe ballare e recitare, ma qui poteva solo lasciarlo intuire.
Richard Cragun esibiva il bel corpo in acrobatiche contorsioni da kamasutra.
Lisi Grether era soprattutto graziosa.
Tutti gli altri erano presenze senza ragione, se pure facevano intravedere potenziali capacità inespresse.
Les Grands Ballets Canadiens
Attesa da tanti è arrivata a Spoleto quella danza, per antonomasia, che noi amiamo assai poco.
L’amiamo poco soprattutto quando è offerta in condizioni così trascurate, quando la musica è maltrattata e umiliata da riproduzioni pessime e si aggiunge come elemento estraneo.
Non ci piacciono proprio questi balletti in play back; lo spettacolo di danza deve venire costruendosi come unità inscindibile di gesto e di musica.
È disumano pensare che chi balla debba confrontarsi con un riproduttore meccanico, che non può comunque mettersi in sin toni a con i suoi sentimenti di quel momento, con il suo modo di esprimere i contenuti della coreografia e della musica.
Manca insomma la meraviglia di un impasto che si realizza, ogni volta irripetibilmente nuovo, sensibile anche al messaggio che viene dal pubblico.
I danzatori di questi Grands Ballets Canadiens presentano due programmi diversi, a sere alterne.
Noi abbiamo potuto seguire il Concerto Barocco, In Paradisum e Carmina Burana.
Concerto Barocco è una coreografia di Balanchine del 1940 sul Concerto in re minore per due violini di J.S. Bach, si rifà quindi a una concezione piuttosto accademica della danza e necessita, per risaltare, di esecuzioni perfette; ma i danzatori, non certo aiutati dalla pessima riproduzione musicale che rendeva tutte le note calanti, dovevano inseguire le tracce dei propri passi affidandosi soltanto alla memoria, per cui risultavano spesso fuori tempo, dando l’impressione di eseguire movimenti scoordinati tra di loro e privi di significato. .
La coreografia di James Kudelka per il balletto In Paradisum, su musiche di Michael J. Baker è molto più recente (1983). Ingenuamente simbolista intende esprimere le vicende del paese dei morti.
Tutto un aggrovigliarsi, contorcersi, lasciarsi e ritrovarsi, che suggestiona molto le anime semplici degli spettatori; ma che, a parte qualche efficace figura d’insieme e qualche passaggio ben eseguito, si ripete troppo ed è reso confuso dallo svolazzare delle lunghe gonne scure realizzate dal costumi sta Denis Joffre; la musica di Baker ha tutti i difetti della povertà di idee e della ripetitività stucchevole.
La terza parte, Carmina Burana, si basa, oltre che sulle splendide musiche di Orff, su di una coreografia di Fernand Nault che risale al 1966, arricchita dai costumi di François Barbeau e dalle scene di Robert Prévost, di buon effetto, dà la possibilità, per l’ampiezza dello svolgimento, di esternare tutto il patrimonio acquisito dalla compagnia, che ci pare però caratterizzato da scarsa originalità, e mancanza di una tradizione solidamente fondata. Ne risentono i danzatori, che paiono indecisi tra le scelte decisamente nuove e reminiscenze accademiche; così che risultano spesso imprecisi e poco comunicativi.
Ballet Moisseiev
E’ veramente piacevole vedere un numero tanto grande di persone realizzare in perfetto accordo tra loro uno spettacolo d’eccezione, che diventa anche una festa entusiasmante per il pubblico. È impossibile infatti non farsi coinvolgere, non seguire ogni fase con un’attenzione così intensa da non accorgersi più del tempo che passa, presi di ammirazione per tutti. Quando diciamo «tutti» non intendiamo riferirci soltanto ai danzatori, ma anche a scenografi, costumisti e soprattutto ai musicisti dell’orchestra, diretti dall’ottimo Anatolj Gus, tutti quanti ben amalgamati dalla eccezionale personalità di Igor Moisseiev.
È bello vedere questo uomo di ottant’anni, vitalissimo, circondato da quei bei giovanotti e da quelle belle ragazze, arrivare alle prove, lavorare con loro; una figura ben diversa da quella del coreografo lontano e altezzoso.
In questo spettacolo tutto è danza e tutto è musica.
Danza l’orchestra, con esplosioni di brio irresistibile e momenti di struggente e insinuante malinconia. Suonano i danzatori, muovendosi con ritmica perfetta, trasformando i corpi in strumenti sonori, coi piedi che colpiscono con la precisione delle bacchette del tamburo il suolo e ora piombano insieme sul tempo forte, poi battono in controtempo, producendo ritmi arpeggianti che si spostano da una parte all’altra della scena, in vero contrappunto con le note degli strumenti; non un rumore che non sia sotto controllo.
C’è un consiglio che daremmo agli spettatori: di provare a tenere gli occhi chiusi per cinque minuti, per apprezzare in pieno il pulsare ritmico di questo insieme. Anche i gesti, ovviamente, si aggiungono e si integrano in questa armonia complessiva.
Abbiamo usato il termine armonia perché non si tratta soltanto di sincronismo esteriore di un meccanismo perfetto; ma di una creazione in cui la poesia è sempre presente, talvolta commossa, talaltra più sbarazzina o ironica.
Lo spettacolo che abbiamo visto si divideva in due parti; la prima aveva per titolo Omaggio a Spoleto; articolata in otto quadri, rappresentava argomenti di vita popolare – eccetto l’eroica famosissima coreografia dei Partigiani -. Anche i temi musicali appartengono alla tradizione popolare russa, variamente arrangiati ed eseguiti con orchestrazione efficace, grande accuratezza timbrica e bell’impasto di fiati, archi, percussioni e bajani (specie di fisarmoniche russe). L’occhio, insieme con l’orecchio, restava appagato sempre, sia nei grandi movimenti collettivi o di piccoli gruppi, sia negli a solo virtuosistici. I caratteri erano ben delineati; le atmosfere erano per lo più bucoliche o sentimentali con connotazioni umoristiche; ma c’erano anche episodi di grande intensità lirica o drammatica e la totale assenza di scene non impediva che le luci e i colori collocassero ogni vicenda in quadri precisi, che la mimica espressiva riusciva ad esprimere nei dettagli.
La seconda parte era costituita dalla coreografia Una notte sul Montecalvo, bizzarro e complesso racconto di vita tzigana, con sabba; su musiche di Mussorgski (dai Quadri di un esposizione e da Una notte sul Montecalvo ) e temi popolari ucraini. La musica mussorgskiana era ripresa nella trascrizione fatta da Rimsky-Korsakov, appena leggermente modificata dal Maestro Gus per adattarla all’organico orchestrale ridotto.
L’ubriacone Patsiuk, catturato da due diavoli, assiste, tramortito, al sabba di streghe e demòni, e l’incubo finisce solo quando passa la sbornia. L’intento è evidentemente comico e caricaturale; i nudi sono ingenue calzemaglie e i movimenti hanno la scoperta sensualità di una fantasia infantile; forche, chiome biondissime o brune sempre lunghe, scope, code, Satana dalle grandi corna: sono gli ingredienti esteriori su cui si articola una danza ricca di spunti e di citazioni, popolari certo, ma anche boogie, rock e breaking, gustosamente ironizzati.
La musica era in accordo con la vicenda narrata, ironica, grottesca, efficace, manovrata con grande sapienza e con grande rispetto.
Rispetto per la musica è quello che sembra essere mancato ai curatori del cartellone che non citano né l’orchestra, né il suo direttore, né le fonti musicali. La musica è componente essenziale della danza e ciò dovrebbero sapere anche quei ballettologi che fanno critica su giornali e riviste, dicendo sciocchezze da sdegnare Tersicore ed Apollo.
Maratona di Danza
A noi non piace quando la danza umilia la musica. Al Teatro Romano, ogni qual volta noi siamo entrati per un po’ a dare un’occhiata alla Maratona di Danza, che dura tre sere consecutive, abbiamo sempre visto ripetersi questo fatto sgradevole. Una musica registrata, troppo forte e troppo gracchiante, suonava senza interessare nessuno, neanche i danzatori, i quali piroettavano, con varia bravura e con fare assolutamente autistico. Ma non può essere diversamente: questi brani, avulsi da un con testo teatrale e da ogni discorso organico, risultano insipidi perché fini a se stessi. La danza, per fortuna, non è quello.
Così ancora una volta una buona intenzione come quella di portare al grande pubblico la danza si svuota e il pubblico reagisce comportandosi con lo stile di quello degli stadi calcistici. Più adeguata, quindi, alla platea l’esibizione di break and boogie, anche perché la musicalità evidente e la comunicativa di quei ragazzini era senza boria e la loro bravura era grande. Bella, come scena di genere, la vista delle stelle, che allo scoperto, in finta umiltà, si preparano ad entrare in scena con grandi riscaldamenti di muscoli, in composite toelette dove gli accappatoi e le coroncine di strass si mescolano ai tutù di tulle e alla lana grezza dei calzettoni scaldamuscoli.
Eugenio Onieghin
La danza è un’espressione antica quanto l’uomo. Nel ventre materno, il bambino percepisce il pulsare del corpo della madre e l’ondeggiare dei suoi passi dei suoi movimenti. Questo è danza. Danzanti sono i gesti che i corpi compiono intrecciandosi nel rapporto sessuale: la danza ha bisogno di un corpo e di un ritmo, cioè dell’alternarsi periodico di suoni e silenzi che si confondono in un’unica realtà espressiva; ogni gesto umano tende a raccontare qualcosa, quindi anche il gesto del la danza.
La religione ha da sempre espresso i suo riti attraverso la danza, sia la religione pagana sia quella cristiana; poi la danza si è spostata sulle scene; ma è rimasta espressione di gesti significanti, una forma di espressione immediata e diretta, di tutti in tante occasioni.
Nella danza, dalla notte dei tempi, avviene che il corpo fonda il suo ritmo cor quello di un linguaggio musicale. Oggi diventato essenziale, sebbene in passato non fosse necessariamente così, perché la danza sia considerata tale, che sia assente l’abbinamento con la parola: per il bisogno di concentrare tutta l’attenzione su gesti e suoni che la civiltà della parola ha sempre un po’ negletto. In questo senso la danza è la migliore confutazione delle teorie di Jacques Lacan: il gesto del linguaggio parlato non è né più antico né più profondo di altri tipi di linguaggio. Non ci interessa qui disquisire su quale sia la migliore espressione danzante, se quella degli antichi, quella neoclassica di Isadora Duncan, o quella piroettante del corpo irrigidito nella contrazione del polpaccio e della caviglia, fondamentale resta l’assenza della parola. Questa castrazione, una volta tanto, é, per gli uomini di oggi, terapeutica! II corpo umano comunica unito al ritmico pulsare del linguaggio musicale; ciò che non deve mai accadere è che il corpo si muova e la musica lo accompagni: il gesto deve essere unitario, in una fusione di elementi che coinvolgano anche lo spettatore. Questa unione si è realizzata nell’Onieghin, messo in scena al Teatro Nuovo dallo Stuttgarter Ballet, balletto in tre atti e sei quadri di John Cranko, tratto da Aleksandr Puskin, e dalle musiche dell’omonima opera di Piotr Il’ic Ciaikovski arrangiate da Kurt Hein; Stolze.
Cranko, danzatore e coreografo di origine sudafricana, morto nel 1973, lavorò prima a Città del Capo e poi in America e in Europa, soprattutto a Stoccarda, dove ebbe, nel 1965 l’idea di questo balletto. Estrapolare semplicemente le musiche dell’opera di Ciaikovski non sembrò sufficientemente agevole, furono quindi rielaborati ed orchestrati in funzione del balletto anche altri brani dello stesso compositore; questo lavoro di ricucitura e di collage fu affidato a Stolze che riuscì ad amalgamare il tutto con estrema sapienza: l’orchestrazione è accurata, gli strumenti spesso sono usati solisticamente e le piacevoli melodie di Ciaikovski risaltano magistralmente, quasi ipnotizzando con la loro semplice e sensuale bellezza. La storia di Eugenio Onieghin, che Puskin scrisse in un romanzo in versi del 1833 racconta le vicende di un arido giovane russo aristocratico incapace di apprezzare i valori dell’amicizia e di un amore semplice, il quale giunge per leggerezza a uccidere il suo migliore amico, dopo averne provocato la gelosia e a perdere l’amore tardivamente apprezzato. In una scenografia che, col variare dei quadri manteneva una semplice chiarezza naturalistica, realizzata da Júrgen Rose, i danzatori andavano svolgendo i temi coreografici di Cranko con grazia e scioltezza guidati dalle musiche eseguite dalla Spoleto Festival Orchestra diretta da Michael Collins, il quale ha diretto egregiamente, valorizzando tutto quello che c’era da valorizzare: misurato, ritmicamente preciso, mai rigido. II fluire della musica di Ciaikovski scivolava nel teatro e carezzava la pelle un po’ sudata degli spettatori. Un ottima resa quella dell’orchestra, quasi sempre, tranne in un punto: quando, chissà perché, la sezione degli archi ha avuto una imprecisione di intonazione (i professori certamente se ne sono accorti). Nei sei quadri in cui si articola il racconto, i corpi dei danzatori, si sono, appunto, fusi col discorso musicale. In un balletto non soltanto bisogna ascoltare l’orchestra e guardare i ballerini, ma bisogna ascoltare anche questi ultimi: come fanno vibrare e risuonare l’impiantito della scena; se il rumore viene fuori slabbrato e del tutto avulso dal discorso musicale, siate certi che c’è qualcosa che non funziona; così se i tonfi sono troppo pesanti e cadono in un punto non significante per l’orchestra i gesti e le piroette. O è tutto un solo congegno che si muove e suona o il tutto è gratuito e inefficace. Nella realizzazione cui abbiamo assistito i corpi cantavano con ritmo e buona intonazione, sia nelle parti di insieme, a due o solistiche. La coppia Onieghin-Tatiana (Vladimir Klos Birgit Keil) è stata di grande precisione di disegno e leggerezza di movimenti, con ottima sensibilità interpretativa in un crescendo sapiente dai primi volteggi leggeri del corteggiamento, in cui era ben evidenziata anche la frivolezza di Onieghin fino al drammatico finale, solo un po’ intralciato dalla ripetitività di alcune figure a due da un simbolismo un po’ingenuo. Un piccolo capolavoro la scena del sogno, dove anche lo scontato gioco dello specchio ha acquistato per merito dei due esecutori dignità coreografica e fascino suggestivo. L’effetto coreografico è forse stato danneggiato in alcune scene d’insieme da uno spazio scenico angusto. Nonostante il caldo, il pubblico, piuttosto indisciplinato, ha saputo poi applaudire con «calore».