Archivio di maggio 1995

Psicoanalisi contro n. 6 – Il rapporto con l’ambiente nella vita pre-natale e nei primi anni

lunedì, 1 maggio 1995

Ho già detto che per me la vita dell’individuo incomincia nel momento stesso del concepimento e per questo mi interessa studiare con la maggior precisione possibile quello che succede all’essere umano in quei nove mesi che precedono la sua venuta alla luce e come questi avvenimenti, insieme con quelli della vita immediatamente successiva all’evento del parto, possono influire sulla vita futura dell’uomo. Oggi che l’embrione e il feto sono studiati da vicino grazie alla raffinatezza degli strumenti di cui l’osservazione dispone, sappiamo con certezza che reagiscono agli stimoli dell’ambiente esterno, che percepiscono filtrato dal corpo materno, e che dimostrano anche una vita emozionale. Mi rendo conto che in questo campo è necessario usare il metodo scientifico di ricerca fatto proprio negli ultimi tempi dalla fisica atomica e sub-atomica. Come fanno i fisici, siamo infatti costretti ad immaginare strutture che non riusciamo davvero a vedere anche con gli strumenti più precisi. Se però è vero che nessun fisico ha mai visto l’atomo e che il monumento che fa bella mostra di sé a Bruxelles è poco più che un giocattolo fantascientifico ed improbabile, è altrettanto vero che la fisica contemporanea, procedendo per ipotesi di cui riu­sciva ad ottenere solo in seguito conferme sperimentali, ha fatto passi da gigante nello sfruttamento dell’energia atomica e nella ricerca medica e spaziale. Così la psicoanalisi è in grado, proprio applicando il metodo scientifico della fisica, di trovare la conferma sperimentale delle ipotesi che viene via via formulando su una realtà invisibile quale è l’inconscio, studiandone gli effetti sulla realtà. Dall’effetto è possibile risalire alle cause, procedendo per ipotesi sempre più probabili e sempre più verificabili.

Se, come appare dimostrato, durante la gestazione l’embrione e il feto reagiscono all’ambiente con una vita percettiva che li mette in grado di selezionare gli stimoli e di iniziare i primissimi stadi di quello che possiamo definire un vero e proprio “apprendimento intrauterino”, come dicono fra gli altri Guidano e Changeux, a maggior ragione dobbiamo pensare che sia attivo in questo senso il neonato fin dai primi momenti della fase perinatale. Lo stesso criterio di continuità vale ovviamente per l’inconscio e le sue funzioni.

Già nei primi anni però hanno grandissima importanza gli stimoli che giungono al bam­bino dai genitori o da chiunque altro svolga il loro ruolo.

Fin dall’antichità è stato insegnato alle bambine già in tenera età ad abituarsi al futuro ruolo materno: il gioco delle bambole ne è la prova. Vere e proprie bamboline di materiali diversi sono state trovate negli scavi delle necropoli antiche, poste tra gli arredi dei sepolcri di giovinette morte in tenera età. Forse per questo da molto tempo le madri credono di sapere il loro mestiere, anche se in realtà il loro è più che altro un modo di accettare passivamente un ruolo imposto e codificato abbastanza rigidamente in quasi tutte le società e deve ancora formarsi nella donna una vera e propria scelta consapevole della maternità.

Il bambino maschio da piccolo, al contrario, non è educato al futuro ruolo paterno ed anche nei giochi infantili è più spiccata la richiesta che gli si fa di complicità sessuale con la bambina (aspetto per altro inibito dall’educazione sociale) che non quella di capofamiglia, anche se spesso nei giochi infantili si ritrovano le tracce di parodie più o meno ingenue della vita famigliare.

In definitiva: né i maschi né le femmine vengono davvero preparati ad essere futuri padri e future madri consapevoli. Quindi i primi interlocutori della vita di relazione del bambino sono due figure in crisi di identità.

La psicoanalisi freudiana ci insegna che nel bambino il bisogno di relazione è una pulsione che agisce meccanicamente per cercare la soddisfazione di due istinti primari: il bisogno di nutrirsi e il desiderio del piacere sessuale. Il bambino per sopravvivere ha bisogno del latte materno e va alla ricerca di quel corpo che può darglielo; la soddisfazione di questo bisogno procura un piacere che diventa un rafforzamento della pulsione. Dice Freud che il bambino prova nel contatto col corpo materno un piacere sessuale su cui si innesta il rafforzamento del suo istinto di conservazione. Questo concetto della sessualità infantile non è universalmente accettato e molte scuole psicologiche e psicoanalitiche mettono in discussione la teoria della libido di Freud e l’altra teorizzazione del bambino come perverso polimorfo, come individuo cioè in cui la libido è universalmente diffusa su tutto il corpo prima di strutturarsi nella va­rie fasi: anale, orale ed infine genitale. La soddisfazione degli istinti primari, di sopravvivenza e dì piacere condiziona il futuro sviluppo del bambino che ad essa subordinerà il suo rapporto col mondo. Io considero piuttosto criticamente la teoria freudiana per quel che riguarda lo sviluppo e la sessualità infantile e trovo sbagliate so­prattutto due sue affermazioni: quella dell’autoerotismo del bambino nella primis­sima infanzia e l’altra che primario sia l’istinto di nutrizione.

Non credo che il bambino se fosse inizialmente chiuso in se stesso ed avesse il proprio sé come oggetto sessuale riuscirebbe a spezzare l’isolamento e a mettersi in relazione con l’altro da sé, come invece dimostra di fare andando alla ricerca del seno materno. Per quel che riguarda l’istinto primario io penso che la prima pulsione sia quella affettiva e solo dopo venga l’esigenza nutrizionale. È questa una convinzione che mi viene confermata anche dalla letteratura scientifica che riferisce di studi sperimentali come quelli effettuati alla fine degli anni cinquanta da Harlow: un gruppo di scimmiette allontanate dalla madre e messe in una gabbia in presenza dì due simulacri materni, uno di materiali morbidi e capaci di dare una sensazione di calore, ma inerte; e l’altro di freddo metallo, ma capace di erogare latte se stimolato, scelse come sostituto della madre il simulacro spugnoso ricorrendo all’erogatore del nutrimento solo nei momenti di stimolazione acuta della fame e limitatamente a quella funzione, esprimendo invece comportamenti affettivi costanti nei confronti dell’altro. Harlow teorizzò questo impulso predominante sul bisogno di cibo come ricerca di un “benessere da contatto” che soddisfaceva un bisogno affettivo di conforto e di sicurezza veramente primario. Come controprova, lo stesso Harlow con Alexander pochi anni dopo dimostrò che le scimmie allevate con le madri biologiche, ma a cui era stato impedito qualsiasi scambio affettivo con compagni della stessa età si erano dimostrate inadeguate alla vita sociale. Un altro esempio dell’importanza della soddisfazione della pulsione affettiva mi pare possa venire dagli esperimenti di Kuhn sui ratti, che nutriti a sufficienza, ma privati di qualunque possibilità di espressione affettiva e di cosiddetto “maternage” deperivano fino a morire. Lasciando da parte gli animali è da ricordare la descrizione fatta da Anna Freud e Sophie Dann di un gruppo di bambini ebrei internati in campi di concentramento nazisti usciti psichicamente indenni dall’esperienza perché durante la detenzione erano riusciti ad agire all’interno del gruppo un forte interscambio affettivo. Ancora Kuhn con Schanberg ha riprodotto su gruppi di animali le condizioni di deprivazione affettiva riscontrate in gruppi di bambini non curati dalle madri ed affetti da un tipo di iposviluppo definito “nanismo psicosociale”. In conclusione: tutta una serie di studi ed esperimenti pare confermare che la condizione primaria per lo sviluppo dell’individuo sia la possibilità di scambio affettivo con l’altro, in mancanza del quale lo sviluppo organico è limitato o addirittura sono compromesse le possibilità di sopravvivenza. Sono d’accordo con Stern quando dice che ciò di cui ha bisogno il neonato (io aggiungo anche l’embrione e il feto) è l’empatia, lo scambio affettivo con l’altro, sia questo rappresentato oppure no dalla coppia dei genitori biologici. Che si chiami benessere da contatto o in qualunque altro modo mi pare comunque di poter affermare che il bambino ha bisogno dell’amore. Tutti gli altri istinti sorgono successivamente alla soddisfazione di questo primario bisogno.

Il padre e la madre si trovano quindi a dover far fronte prima di tutto a questa richiesta. Poi viene fuori la scelta delle modalità in cui questa esigenza viene soddisfatta. Il risultato ultimo sarà quello di formare uomini e donne con una precisa identità, che avrà inevitabilmente connotati conseguenti al tipo di formazione. Oggi purtroppo non siamo neppure ben sicuri di cosa voglia veramente dire essere maschio ed essere femmina.

La psicoanalisi ha cercato di dare una risposta con Jung, il quale ha stabilito che l’uomo e la donna avessero caratteristiche psichiche ben precise e diverse fra loro. Per Jung la psiche femminile produce capricci, mentre quella maschile esprime opinioni; la donna ferma la sua attenzione al particolare, mentre l’uomo considera l’aspetto generale delle cose, la donna si realizza nella casa e nella famiglia mentre l’uomo tende alla realizzazione sociale e alla speculazione scientifica. Uomo e donna però hanno anche ciascuno un aspetto in cui si concentrano caratteristiche psichiche tipiche del sesso opposto: l’animus maschile in lei e l’anima femminile in lui. Il problema non è tanto di credere che questi due tipi psicologico-sessuali siano davvero tali oppure no; ma è piuttosto quello di giudicare quanto eventualmente ha influito il condizionamento culturale e sociale, conscio o inconscio, nella formazione dell’uomo e della donna quali oggi sono in realtà. Oggi possiamo soltanto dire che maschio e femmina sono due tipi di personalità insicure della loro identità e delle loro funzioni: due diverse patologie. Il nostro sforzo deve tendere fin da subito a liberare i nostri figli dalle angosce che ci affliggono, aiutandoli a diventare persone e rifiutandoci di riversare su di loro stereotipi che ci sono stati imposti e da cui non siamo mai riusciti a sentirci davvero appagati. La scienza, anche quella che si occupa della vita pre-natale deve avere presente fin dall’inizio quello che è l’obiettivo finale ed impegnarsi per realizzarlo.

Psicoanalisi contro n. 6 – Il padre e le altre figure significative

lunedì, 1 maggio 1995

Il padre è una figura molto importante per il suo ruolo e per il posto che occupa nell’inconscio sociale, eppure rimane molto difficile da definire.

La funzione del maschio nella procreazione non è stata subito riconosciuta, anzi il riconoscimento del ruolo maschile nel concepimento è stata un’ acquisizione piuttosto lenta. Questo benché io sia personalmente convinto che una certa consapevolezza sia sempre esistita nell’inconscio istintuale della specie; magari per una sorta di parallelismo intuito con le specie animali, intuizione però non recepita consapevolmente e non acquisita nell’inconscio sociale. Forse a causa del grande intervallo di tempo che trascorre dal coito al parto si pensò dapprima che fosse la donna da sola a generare, almeno così risulta da tracce archeologiche a noi pervenute di antiche società matriarcali del Mediterraneo e del Medio Oriente. In questi reperti appare la figura della Dea Madre signora assoluta della vita e della morte, affiancata in molti casi da uno o più paredri, figure maschili in forma di giovinetti a lei sottomessi, oggetti tra l’altro anche del suo piacere sessuale. Una della prime raffigurazioni a noi pervenute dall’Ellade arcaica mostra appunto una Era, dea sovrana, affiancata da un giovanissimo Zeus in atto di sottomissione. Il piacere sessuale non pare che fosse considerato in rapporto col potere di procreazione e al maschio veniva richiesto come espressione di una subalternità che comprendeva anche il dovere di difendere la donna e di procurarle il cibo ricorrendo alla caccia. Ovviamente è questa una ricostruzione tutt’al più probabile, ma non certa, e l’ipotesi del matriarcato quale l’ha formulata Bachofen nell’Ottocento è oggi riconsiderata e criticata da molti studiosi. Secondo questa linea di pensiero è successo in seguito che il maschio si ribellasse contro il potere della femmina, riuscendo vincitore, come è documentato dal passaggio dalle teogonie ctonie e matriarcali a quelle mitologie celesti ed olimpiche che vedono ad un certo punto Zeus, vittorioso, dominare su Era e sugli dèi e sugli uomini. Con il sopravvento del potere maschile passò di mano anche il potere di dettare la legge ed infatti in epoca storica, con l’avvento della scrittura soprattutto, è documentato questo potere anche legislativo del maschio: alla legge femminile si sostituì la legge maschile.

A questo proposito vorrei approfittarne per mettere in discussione una teoria che ha avuto grande peso nella storia della psicoanalisi e della cultura contemporanee: mi riferisco alla cosiddetta “legge del padre” di cui parla Jacques Lacan, grande psicoanalista francese di quest’ultimo scorcio di secolo, che io stimo moltissimo. Lacan afferma dunque che nella triade famigliare è il Padre che dà la legge, soprattutto con lo scopo di affermare il divieto di un possibile incesto tra il Figlio e la Madre. È questa ovviamente una simbolizzazione del rapporto che hanno tra di loro gli esseri umani. Io però non credo che questo sia vero, né a livello simbolico né in realtà. Questa mia contestazione si basa per così dire sulla osservazione sul campo. Di fatto, chi dà la prima legge è la donna, o meglio la madre. Fin dalla gestazione giungono all’embrione ed al feto messaggi che sono trasmessi dal corpo della madre; dal momento successivo al parto e lungo tutto il periodo della prima infanzia il bambino è manipolato dalle mani materne o di persone che hanno questo ruolo e che di fatto nella nostra società sono soprattutto donne. Dalla donna giungono al bambino, maschio o femmina, i primi condizionamenti, le prime inibizioni, le prime punizioni e le prime gratificazioni. È ancora alla donna, almeno nella nostra cultura, che viene affidato il compito delle prime forme di educazione pre-scolare e scolastica. La donna dunque, e per prima la madre, trasmette i primi contenuti della legge naturale e di quella sociale.

La legge maschile sopravviene in seguito, proprio come il maschio solo in seguito diventò il Dio supremo. La legge del padre viene dopo, la prima legge è quella della madre. Nella nostra cultura la legge del maschio è quella formale; nella famiglia, reale e sinbolica, il padre è il braccio armato della madre, l’esecutore della punizione. La fatidica frase che ha segnato l’infanzia e la giovinezza di tutti è quella della madre che dice: “Bada che lo dico a tuo padre”. L’inconscio sociale non ha ancora oggi superato la fase matriarcale e non ha ben chiaro il ruolo e l’identità del padre. Come già testimoniava l’antico diritto romano solo la madre è “semper certa” mentre il padre resta “incertus”.

Il padre per il momento non esiste, esiste solo il marito, il compagno della madre. Il padre è sì presente, come fan­tasma, nell’inconscio istintuale ed individuale, ma fatica ad esistere come figura reale.

Nell’inconscio sociale la figura del padre è ancora in via di formazione ed anche chi ha generato non sa ancora bene percepire il proprio ruolo, al di fuori di quelle che potremmo dire siano le funzioni di “parata”. Il risultato di questa situazione è che mentre la madre è data, il padre può essere scelto e può scegliere se stesso. Un figlio può sempre rifiutare il padre, simbolicamente e realmente, se lo vuole, mentre non può rinnegare la propria madre. Si viene così a costituire una ricchezza di potenzialità per il padre che ha la possibilità di costruire la propria figura e di farsi scegliere per amore. Anche la madri hanno bisogno di imparare nuovamente il loro ruolo, devono sostituire alla figura necessaria ed imposta una figura che venga scelta per amore. Padri e madri debbono liberarsi dalla condanna di non esistere o di essere figure imposte, debbono uscire dalla crisi di identità di cui attualmente soffrono. Questa crisi di identità è per il momento molto evidente nell’atteggiamento del padre verso la donna e il figlio nel periodo della gestazione, che per comodità, ancora una volta, proveremo a classificare, in quelle che possiamo considerare tre tipologie, molto generali.

Il primo tipo è quello del maschio che si identifica con la donna incinta, segue con atteggiamento patologico tutto il periodo della gestazione (personalmente ho riscontrato casi che si potrebbero definire vere e proprie “gravidanze isteriche” del maschio) che prosegue fino al momento del parto a cui prende parte con una partecipazione a dir poco eccessiva, tutto sommato espropriante per la donna. Il secondo tipo è quello del maschio che prova repulsione per il corpo della donna gravida, al quale fanno ribrezzo le modificazioni del suo ventre, che non sopporta la vista dei suoi organi genitali. Ha orrore di quel corpo che si trasforma anche se talora si sforza di nasconderlo ostentando carezze e premure. Il terzo tipo è un tipo misto in cui due atteggiamenti sopra descritti sono compresenti, contemporaneamente o alternata­mente, in un’alternanza davvero bipolare.

Nessun maschio reagisce con indifferenza alla gravidanza della propria partner e quasi sempre il nascituro e persino il neonato è in parte respinto dall’inconscio maschile. Non deve trarre in inganno a questo proposito la grande presenza di veri e propri “mammi” nella nostra società: uomini che sembrano compiaciuti di sostituirsi al ruolo materno, fino ad espropriare la madre reale di ogni prerogativa. È questo un atteggiamento nevrotico che copre conflitti inconsci profondi. Ad un’osservazione esteriore comunque risulta oggi ancora prevalente il padre che ostenta per il figlio in arrivo un interesse soltanto rituale e che si riserva di entrare dav­vero in comunicazione con lui, dopo che avrà superato i primi anni di vita e sarà in grado di stabilire un rapporto in qualche misura autonomo.

Se il padre ed il suo atteggiamento sono determinanti per creare le condizioni più o meno positive di una gestazione, vi contribuiscono però anche altre figure del gruppo famigliare e sociale, ed in particolare agiscono le figure delle madri dei due genitori. La madre della donna incinta si caratterizza quasi sempre per il sentimento di invidia che, quando l’età lo permette, la spinge a ricercare a sua volta una gravidanza che le offra l’opportunità di una sorta di concorrenza diretta con la figlia. Quando ciò non si verifica si opera il tentativo di sostituirsi alla figlia nel ruolo materno, esaltando i vantaggi di un’esperienza e di una pratica antecedenti, di una maggiore capacità di giudizio, fino ad espropriare letteralmente la madre naturale del bambino, che viene addirittura colpevolizzata se cerca di intromettersi o appena compie qualche presunto errore. Lo stesso sentimento di invidia può spingerla ad igno­rare con ostentazione la nuova realtà in cui la figlia si trova fino a farle provare un vero e proprio sentimento di abbandono e di solitudine.

La madre del partner maschile si caratterizza per un sentimento ben preciso: la gelosia, che può essere più o meno controllata. Il fatto è che le madri non riescono ad accettare completamente che il proprio figlio riceva un figlio da una donna diversa da loro. Inconsciamente il desiderio sa­rebbe stato di poter dare loro un figlio al loro figlio; questo desiderio nasconde anche il desiderio sessuale inconscio, mai completa­mente superato, della madre per il proprio figlio maschio.

La gestante reagisce a queste situazioni ambientali spesso con grave sofferenza psichica, patendo per l’espropriazione che si tenta di operare del suo ruolo. Qualche volta la reazione è addirittura di totale estraniamento: la gestante lascia che siano gli altri, primi fra tutti il partner e le consuocere, a sbrigare le questioni prima della gestazione e poi dell’ allevamento del neonato.

In un cerchio più esterno si trova l’ inter-azione tra la gestante ed il gruppo delle cosiddette “amiche” con le quali le dinamiche sono complicatissime nelle due direzioni. Gli esiti più nefasti sono le reazioni estreme di onnipotenza o di abbandono. Se prevale il sentimento di onnipotenza vedremo madri che si isolano già durante la gestazione e poi ancor di più dopo la nascita del figlio che viene considerato una proprietà da custodire gelosamente, da mettere al riparo dall’invadenza e dall’aggressività del mondo, un atteggiamento simile a quello delle femmine di alcune specie animali. Sono donne che vedono negli altri solo pericolo e che pensano di essere le uniche capaci di capire il loro figlio e le sue necessità: da quelle più elementari come il cibo e il sonno, a quelle affettive. La donna che si arrende e abbandona cade invece sovente in un vero e proprio stato depressivo di negazione del suo ruolo e del figlio stesso.

Ovviamente io vorrei dire che ci sono anche le condizioni di gestazioni serene. Tutti i conflitti ai quali ho accennato sono però presenti in misura più o meno accentuata e non è negandoli che si può aiutare la gestante a superarli. La psicoanalisi può aiutare la donna in attesa a guardarsi dentro e ad imparare a riconoscere la natura profonda delle proprie pulsioni e a controllarle, cercando insieme con l’analista di garantire al figlio che vive in lei le condizioni migliori per una vita felice nel presente e nel futuro.

Psicoanalisi contro n. 6 – Conscio ed inconscio nella vita della gestante

lunedì, 1 maggio 1995

Il concetto di “coscienza”, nell’accezione di elemento fondamentale della psiche umana o come quella parte dell’anima che presiede ai principi morali, è di uso antico. Nella nuova accezione di consapevolezza, di presenza a se stessi, comincia ad entrare nell’uso filosofico con Leibniz, il quale nello stesso periodo introduce l’accezione nuova del termine “inconscio” come sede di piccole percezioni che non affiorano alla coscienza, che non diventano consapevoli. Per Leibniz (1646-1716) esiste una distinzione tra le piccole percezioni che non diventano consapevoli, pur divenendo un patrimonio acquisito, e le “appercezioni” con le quali l’uomo percepisce di percepire, ovvero di cui è consapevole. Possiamo far iniziare di qui la nuova storia dei termini “coscienza” ed “inconscio” come funzioni psichiche ben distinte.

Due atteggiamenti sono rimasti emblematici a proposito della coscienza nella storia della scienza dell’Ottocento: uno fu quello di Karl Wernicke (1848-1905), scienziato anatomista e studioso del sistema nervoso che pensò di poter individuare la coscienza, intesa come luogo della consapevolezza, in un’area del cervello e precisamente nella corteccia cerebrale, luogo in cui, secondo i suoi studi, gli stimoli percepiti diventerebbero contenuti psichici coscienti. L’altro atteggiamento fu quello dello scienziato Wilhelm Wundt (1832-1920) il quale si dimostrò più scettico sulla possibilità di localizzare topicamente la sede della coscienza, che considerò, più che come un luogo, come una funzione attiva che rende l’uomo consa­pevole di tutte le percezioni, sensoriali e intellettive.

Sigmund Freud (1856-1939), dopo aver inutilmente cercato di darle un sistemazione all’interno di una topica del cervello umano (Progetto di una psicologia, 1895), parla della coscienza come una funzione dinamica della psiche. Per il fondatore della psicoanalisi la coscienza è quella funzione della psiche che rende attuali le percezioni, le sensazioni, i ricordi, una somma di stimoli che possono provenire sia dall’esterno sia dall’interno della persona. La coscienza possiede l’energia necessaria a trattenere queste rappresentazioni, sulle quali focalizza l’attenzione di volta in volta, poiché non sarebbe possibile fissare l’attenzione contemporaneamente su troppi oggetti.

La coscienza è però, secondo me, uno strumento che, al pari di tutti gli altri strumenti naturali o artificiali, anche i più precisi, non è assolutamente neutrale. Così come ogni strumento modifica in base alla sua natura l’oggetto osservato, anche la coscienza cede qualcosa di sé all’oggetto su cui focalizza l’attenzione. Lo stesso meccanismo del resto vale per gli organi di senso: vista, udito, odorato, gusto e tatto non veicolano percezioni pure, ma condizionate dall’effettivo stato dell’ organo o delle condizioni ambientali, interne ed esterne. La appercezione pura come la intendeva Leibniz è quindi solo un’astrazione. Tale acquisizione ha segnato profondamente tutta l’epistemologia moderna che deve così includere questa variante all’interno delle sue ipotesi scientifiche, rinunciando alla pretesa di assoluta oggettività.

La coscienza sembra così un concetto che complica più di quanto non chiarisca.

Forse è utile allora recuperare l’accezione freudiana di coscienza e il suo confronto con il concetto di inconscio operato dallo stesso Freud. La consapevolezza dei contenuti psichici, dice Freud, può essere solo parziale, per cui una grande quantità di questi contenuti sono trattenuti al di sotto della coscienza. L’uomo sceglie di volta in volta ciò di cui ritiene opportuno avere consapevolezza; ma questa scelta è solo in parte consapevole, perché i contenuti dell’inconscio agiscono sul meccanismo della scelta senza che la loro azione sia immediatamente percepibile.

Freud illustra questo meccanismo con un esempio molto bello e di facile comprensio­ne in un breve saggio di poche pagine sulla negazione del 1925.

In questo scritto lo psicoanalista viennese insegna a riconoscere il modo in cui molti contenuti psichici rifiutati dalla coscienza vi si infiltrino, per così dire “travestiti” attraverso lo stratagemma della negazione. Ci sono frasi rivelatrici che iniziano proprio con una negazione, del tipo: “Non è per gelosia… quella persona non ha assolutamente nulla in comune con quell’altra… non ho mai pensato una cosa del genere…” etc. Con un lavoro molto semplice di decodificazione che trasformi in positivo quello che è espresso in forma negativa si può rendere esplicita l’af­fermazione che non si vorrebbe ammettere di un contenuto di coscienza ritenuto inaccettabile.

Mi pare giusto far notare come talora la coscienza coincida con punte molto elevate di inconsapevolezza. La psicoanalisi ha scelto come metodo operativo di ren­dere consapevole ciò che è inconsapevole e di smascherare con tecniche opportune, di cui quella del capovolgimento della negazione è solo un esempio, le false consapevolezze. L’inconscio sfuma continuamente nella coscienza e questa a sua volta si perde nell’inconscio. I sogni, le negazioni, gli atti mancati, i lapsus, sono segnali di questo continuo interscambio di livelli rintracciabile nelle esperienze della vita quotidiana.

Questo spiega anche in parte il fatto che la percezione della realtà sia così diversa per ciascuno: il desiderio più o meno nascosto di soddisfare pulsioni non sempre coscienti ci fa avere una visione in qualche modo allucinata della realtà e ciò vale per tutti e sempre. Dato per scontato che non si può stabilire una netta divisione tracoscienza ed inconscio, a maggior ragione ritengo valida la mia suddivisione dell’inconscio in tre aspetti: istintuale, individuale e sociale, che sfumano continuamente e sono in rapporto tra loro e con la percezione cosciente ed inconscia del mondo. Questa dinamica psichica inizia fin dall’istante del concepimento. Per quel che riguarda in particolare la situa­zione psichica conscia ed inconscia della gestante possiamo, per ora, ritenere valida la divisione convenzionale della gestazione in tre periodi, anche se è difficile accettare una schematizzazione universale che preveda una durata precisa di ciascun periodo.

Il primo periodo è considerato quello in cui la gestante appare meno legata al figlio, verso il quale nutre una certa ambivalenza. È in alcuni momenti perplessa sull’opportunità di portare a termine la gravidanza anche quando non giunga a pensare davvero di abortire; può attraversare periodi di angosciosa incertezza. Se in questa fase avviene un aborto spontaneo, cosa che statisticamente si verifica con una certa frequenza, le conseguenze non appaiono drammatiche e risultano meno traumatiche di quanto si potrebbe temere.

Il secondo periodo è quello che gli autori dei trattati più tradizionalisti definiscono di euforia: la donna ha cura di sé e della sua condizione particolare, si sente in buona armonia con le sue modificazioni fisiologiche ed ha un buon rapporto con la vita che ospita, ostenta una certa iperattività e serenità, riducendo al minimo le ansie e sforzandosi di condurre una vita “normale”.

Il terzo periodo è considerato dagli osservatori quello in cui la donna appare più confu­sa, si notano apatia, disagio ed insicurezza, una ricerca più marcata dell’appoggio del partner e della famiglia, a volte si registra uno stato depressivo.

Come ho già detto, questa divisione è schematica, varia da un autore all’altro e non può tenere conto di tutta la ricchezza e complessità di ogni singolo caso.

Per quanto ho potuto osservare, durante la gestazione si accentua ancor di più l’intreccio dei livelli consci ed inconsci nella vita psichica della donna. Le tracce di fantasie di ri­fiuto del bambino, magari alla soglia tra coscienza ed inconscio, si ritrovano in tutte le storie gestazionali; è un desiderio segreto di abortire, magari controllato dalla coscienza, che raggiunge momenti di particolare intensità in quello che si è voluto definire il primo periodo. Secondo alcune teorie psicoanalitiche, che in parte mi pare di poter condividere, ci sono fattori psichici importanti che agiscono in questo senso: la donna torna indietro col pensiero e rivive i suoi rapporti con la madre, con la quale anche si identifica. Allo stesso tempo si identifica con il bambino che vive in lei e il risultato è una condizione di scissione della personalità tra quella della madre e quella del figlio.

La scissione a mio avviso si accentua nel cosiddetto secondo periodo: la sicurezza apparente e l’euforia sconfinano talvolta nella paranoia e nascondono una grossa instabilità, possono sorgere marcati disagi fisici ed alcune patofobie.

La mia esperienza ha effettivamente ritrovato nel terzo periodo una tendenza alla de­pressione.

Tutto questo sovrapporsi di sentimenti consci ed inconsci finisce ovviamente per avere ef­fetti considerevoli anche sul bambino chesta per venire alla luce.

Pur rendendoci conto dell’inadegua­tezza delle schematizzazioni, possiamo per comodità metodologica anche in questo caso dividere in gruppi i tipi di relazione madre-bambino durante la gestazione. Il primo tipo lo chiamerei quello del “bambino troppo voluto”. Pur quando non si giunga a veri e propri casi cosiddetti di gravidanza isterica in cui compaiono tutte le manifestazioni fisiche collaterali, ma manca la ragione vera e la donna non è effettivamente incinta, è questo comunque un tipo di gestazione molto problematico. Quando il bambino è intensamente voluto dalla madre e dal gruppo famigliare circostante l’eccesso di ansia finisce per avere i suoi effetti. Il bambino che verrà alla luce ostenterà una sicurezza solo apparente, ed una tendenza alla tracotanza dominatrice sull’ambiente famigliare e sui genitori soprattutto, ma nei confronti del mondo esterno sarà piuttosto vile ed inetto. La sua imperiosità nei confronti dei genitori lo spingerà fino ad impone la sua presenza nel loro letto; manifesterà una tendenza a piangere troppo.

Il secondo tipo di relazione è quello che si stabilisce con il «bambino poco voluto». È questo un bambino il rifiuto del quale si è protratto anche al di là di quel primo periodo di cui abbiamo detto sopra, e qualche volta ha addirittura subito tentativi di aborto non portati a compimento. La frase che risuona nella mente della gestante è : “Questo figlio non lo voglio”. Sono questi bambini che nascono in una situazione di grande violenza, aggressività, ansia o depressione. Fanno molta pena; sono insicuri; entrano nel letto dei genitori per avere la rassicurazione di essere al mondo; desiderano sentire la presenza fisica dei due genitori; sono bambini caratterizzati da grandi pianti difficili da consolare. Il terzo tipo è quello del «bambino troppo pensato». La gestante si chiede continuamente come sarà, gli dà un nome fin da subito, non appena accertatasi del suo sesso; subito è caricato di aspettative: si immagina il suo aspetto, il suo futuro, si sceglie persino la sua professione. Sarà questo un bambino profondamente insicuro, incapace di con­cludere i suoi progetti, annoiato, poco in grado di gestire il proprio corpo, sempre a disagio; esibizionista, cercherà di intrufolarsi nel letto dei genitori per guardare ed essere guardato. Avrà un grande compiacimento nell’esibirsi in pianti teatrali e capricci clamorosi.

Il quarto tipo è quello del «bambino poco pensato». La madre non nutre fantasie sul suo conto, non lo coccola col pensiero, non gli rivolge attenzione durante la gravidanza, riser­vandosi magari di amarlo quando sarà venuto alla luce. Sono bambini per i quali si an­nuncia un atteggiamento negativo, con rischio di autismo; comunque appaiono de­pressi, hanno difficoltà nella vita di relazione; sono svogliati, con problemi psicosoma­tici e di deperimento organico. Non manifestano particolare desiderio di entrare nel letto dei genitori. Sembrano quieti; piangono troppo poco; stanno soli al buio nella loro ca­mera senza lamentarsi e richiamare la pre­senza dei genitori; piangono sommessamen­te, sono troppo silenziosi, possono rischiare situazioni di disagio psichico.

Sembrerebbe che io pensi che non siano possibili gravidanze felici. Non è così, ma anche non è vero che sia possibile una gestazione solo felice, senza conflitti ed ambivalenze. Quello della gestazione è un periodo della vita psichica ricco per la donna e per il bambino, che insieme percorrono un cammino ogni volta unico ed irripetibile, che trova il suo senso nell’affermazione ultima delle ragioni della vita.

Psicoanalisi contro n. 6 – Il trauma della nascita

lunedì, 1 maggio 1995

Fin da bambini la nostra cultura e la nostra religione ci perseguitano con la frase del Genesi che suonapiù o meno cosi:” E Dio disse alla donna: tu partorirai i tuoi figli nel dolore”. Frase terribile, che è stata letta ed interpretata in tanti modi, e che la diceria popolare ha letto come una sortadi santificazione del dolore del parto, offerto a Dio in riscatto di una colpa antichissima, forse sessuale, collegata addirittura col peccato originale.

La questione strettamente teologica non ci riguarda in questa sede, però già ci riguarda per esempio il rifiuto degli interpreti più integralisti della Bibbia che si oppongono in qualsiasi modo ai tentativi di mitigare i dolori che nel parto affliggono la madre e il bambino, acciocché sia realizzata appieno quella che è letta come una inappellabile e giusta condanna divina alla quale è empio tentare di sottrarsi. Anche Gesù Cristo nell’orto dei Getsemani quando intuì l’immensità dei patimenti della Passione a cui sarebbe andato incontro disse: “Padre, se possibile allontana da me questo calice!” Se è possibile, senza fare male ad altri, è sempre giusto allontanare dall’uomo il dolore. Questo io dico sempre nella mia qualità di terapeuta e di uomo alle donne che vengono da me, diversamente affascinate o spaventate dal dolore del parto. Il dolore umilia sempre l’essere umano, non per nulla nell’Antico Testamento è mandato all’uomo come punizione. Una forma di perversione, nota come “sadomasochismo”, presente in tutti, colpisce però in modo particolare alcuni soggetti che non sembrano purtroppo appagati dalla quantità di dolore esistente dell’universo, ma vanno in cerca di sofferenza credendola, erroneamente, un bene. Solo il piacere è bene, la sofferenza è sempre male anche quando è subita dai martiri o dagli eroi. Purtroppo l’essere umano è contraddittorio anche nei modi in cui va alla ricerca del piacere e della felicità. Credo quindi che sia giusto che il momento del parto sia liberato per quanto possibile dalle sue componenti dolorose.

Il parto, come quasi tutti gli altri momenti significativi della vita umana, è stato ritualizzato nel corso dei secoli, da quasi tutte le culture ed accompagnato ora da riti magici, ora da rituali sociali. Alcune regine del passato, in Inghilterra per esempio, dovevano partorire pubblicamente: per mostrare il loro coraggio e anche per dare la garanzia ai cittadini che non avvenissero scambi di neonato e che il futuro re fosse davvero tale per diritto di nascita. C’era, secondo me, un’altra motivazione: la ritualizzazione eccessiva con la sua conseguente teatralizzazione riusciva forse in qualche misura a ridurre l’ansia e ad abbassare la percezione del dolore. Oggi purtroppo in ospedale si realizza una modalità di parto piuttosto espropriante, con poco rispetto per l’intimità della donna e indifferenza per il dolore suo e del bambino. Per questo si sono largamente diffuse le tecniche di parto “alternativo” o “dolce” che prevedono condizioni ambientali particolari e in alcuni casi anche la presenza dei famigliari.
In opposizione alla paura del parto sono così nate tendenze anche pedagogiche che ne raccomandano la smitizzazione e suggeriscono la famigliarizzazione dei bambini con questo evento fin da piccoli: permettendo loro di toccare la pancia della madre in attesa del fratellino, o facendoli assistere al parto degli animali e fin qui non ci trovo nulla di male. Trovo invece condannabile l’introduzione di quei giocattoli comei bambolotti capaci di riprodurre grottescamente quella funzione, o la tendenza opposta di intontirli con storie sulla nascita sotto il cavolo, sotto un fiore, tramite l’arrivo della cicogna. C’ è un ricco patrimonio acquisito della fantasia infantile che esprime anche l’ambivalenza che ogni bambino sente verso chi è appena venuto oppure sta per venire al mondo. Imporre ai bambini spiegazioni anatomiche, o razionali o anche falsamente poetiche è solo un modo inutile di tentare di espropriarli del loro patrimonio fantastico. Tra l’altro è questo un tentativo velleitario: conosco molti bambini educati da genitori moderni che dovrebbero sapere tutto intorno ai meccanismi della riproduzione e del parto e che continuano invece a nutrire le fantasie del parto anale, proprio come i bambini di cui parlava Jung. In questi casi si realizza addirittura un capovolgimento e i bambini considerano frottole le spiegazioni più o meno fisiologicamente corrette fornite loro dai genitori.

La psicoanalisi ha detto intorno al parto alcune cose anche bizzarre: a partire dalle constatazioni di Helène Deutsch che scoprendo una sorprendente contiguità tra dolore e piacere in molte donne, trovò in alcune sue pazienti attraverso il lavoro analitico una sorta di identificazione tra il dolore del parto ed il piacere dell’orgasmo. Otto Rank in un suo scritto intitolato appunto:”Il trauma della nascita” teorizzò che in ogni momento di grave stress od ansia della vita, l’individuo rivivrebbe l’angoscia causata da quel primo trauma, connotato fra l’altro dall’ansia del distacco dal corpo materno. Sandor Ferenczi dal canto suo suggeriva che il parto non fosse poi così traumatico e che il passaggio dal mare tranquillo della vita intrauterina a quello tempestoso della vita quotidiana fosse un evento fisiologicamente ben preparato. Secondo Freud il parto non ha grande significato per il nascituro che, essendo autisticamente chiuso in se stesso come una monade, non ha percezione di quello che avviene e non patisce del cambiamento di rapporto col corpo della madre perché non è mai stato in relazione con lei.
Un aspetto sottovalutato, messo in luce dalla psicoanalisi, che è una diretta conseguenza della sofferenza provata dalla madre durante il parto è l’odio per il nascituro, le cui tracce si ritrovano nella psiche di tutte le donne che hanno partorito e che in alcuni casi sono responsabili di vere e proprie sindromi post-parto, dissociative, depressive o schizoidi, legate al senso di colpa perché si è desiderata la morte del proprio figlio.

Oggi il parto sembra essere diventato più che altro una questione del ginecologo che ha il sopravvento su di un padre assente ed una madre per lo più poco cosciente e ciò sembra tanto più vero quanto più la tecnica è “dolce”, come avviene nel parto praticato con il R.A.T. (training autogeno respiratorio), un metodo suggestivo che inibisce i centri maggiori del dolore attraverso il rilassamento muscolare ottenuto con respirazione controllata e immaginazione suggestiva guidata. Lo stesso più o meno avviene con la tecnica di Schultz e con l’ipnosi, tutte metodologie che mettono la donna in stato di semi-incoscienza, con l’inconveniente forse di espropriarla in parte e col vantaggio di contenere la sofferenza del parto. Comunque nelle condizioni attuali di grande disorientamento io ritengo giusto che la ricerca prosegua i suoi sforzi con l’obiettivo di rendere il parto sempre meno connotato dal dolore e dalla sofferenza. In ogni modo per me — più che il parto — è carica di significati per il futuro dell’uomo la vita intrauterina nel suo complesso, nel periodo che va dal concepimento alla nascita. Si nasce davvero solo una volta: nel turbamento e nello sconvolgimento tumultuoso del concepimento. Tutto il resto è già parte della vita umana, con tutte le sue peripezie.

Psicoanalisi contro n. 6 – Origine, formazione e significato dell’inconscio

lunedì, 1 maggio 1995

Da circa sessant’anni la scienza studia con particolare attenzione quello che avviene durante il periodo della gestazione e come si sviluppa in questi nove mesi il rapporto tra la madre, il bambino e l’ambiente. Da sempre sono fiorite le fantasie popolari intorno a questo particolare momento della vita: ogni società ha costruito a modo suo immagini più o meno probabili su quello che per alcuni versi ancora rimane un mistero. Oggi gli strumenti scientifici, ed in particolare l’ecografia, permettono di conoscere con maggior precisione gli sviluppi della vita dell’embrione e del feto, fino al momento del parto. Quella che sembra essere una prima ed incontrovertibile acquisizione è il crollo di un’antica illusione: il bambino, nel grembo materno, non vive in quello stato di completo isolamento sensoriale, immerso in un “mare tranquillo”, al riparo quindi da ogni aggressione esterna, che si credeva. Anzi embrione e feto sono sottoposti a sollecitazioni anche intense e la vita intrauterina conosce a sua volta stati di angoscia o di felicità, può subire traumi o godere di maggiore o minore benessere, in relazione agli stimoli che provengono dall’ambiente esterno e che sono trasmessi dal corpo e dalla psiche materni. Ad ogni effetto l’essere umano deve essere considerato tale fin dal concepimento, poiché da quel momento ha una sua vita non solo fisiologica, ma anche emozionale.
Noi qui ci occuperemo soprattutto, anche se non esclusivamente, dell’ aspetto psichico della vita di questa diade madre-bambino, nelle sue componenti consce ed inconsce.
La vecchia psicoanalisi, freudiana e non solo, affermò, con geniale intuizione, che l’inconscio individuale si forma fin dal momento della nascita e che soprattutto i primissimi anni della vita post-natale sono fondamentali per la formazione della personalità, sana o malata, dell’individuo adulto e che lo psicoanalista dovrà col suo lavoro risalire proprio a quegli anni precoci per capire meglio la genesi e l’eziologia dei possibili disturbi nevrotici e psicotici dell’adulto che si trova di fronte. Io penso che questa pur audace intuizione sia in effetti riduttiva: sono infatti sempre più convinto che occorra risalire anche alla vita prenatale per conoscere meglio le cause prime degli eventuali disturbi di una personalità, che proprio in quei nove mesi riceve i primi condizionamenti e subisce i primi traumi che continueranno ad agire nel futuro. Non si nasce il giorno del parto, che è poco più che un’occasione burocratica di registrazione anagrafica, ma al momento del concepimento.
Sono consapevole che tutto il mio lavoro e le mie ed altrui ricerche sono per il momento poco più che ipotesi suffragate da poche certezze, ma sono convinto che, come insegna Popper, la scienza debba procedere per ipotesi che pongono problemi più che per acquisizione di risultati certi.
Anche per la madre il periodo della gestazione è molto importante e ciò che sente avvenire dentro di sé attiva, insieme con una serie di reazioni fisiologiche, molte fantasie, angosce, paure e desideri. Inoltre nessuna donna accetta pienamente l’essere che ospita nel proprio ventre da cui si sente in parte espropriata; anche le donne che hanno intensamente desiderato la maternità provano questo rifiuto più o meno inconsapevole ed intenso.
Ogni madre poi proietta i suoi desideri sul bambino e lo immagina con certe caratteristiche ben precise. Questo lavorio fantastico non è molto diminuito neppure oggi che i moderni tipi di indagine permettono di conoscere fin dalle prime settimane alcuni dati certi o quasi, ad incominciare dal sesso del nascituro. Queste aspettative, consce ed inconsce agiscono oltre che sulla madre anche sul bambino. Non c’è donna che non si aspetti un figlio di un determinato sesso piuttosto che dell’altro. Non bisogna credere a quelle gestanti che dicono che è loro indifferente il sesso della creatura che daranno alla luce. Inconsciamente c’è sempre una preferenza, magari indotta dalle aspettative dell’ambiente circostante. Questa scelta è facilmente decifrabile nel lavoro psicoanalitico: tanto più forte è l’affermazione: «A me non importa» tanto maggiore è il desiderio che nasca un maschio o una femmina. Per questo può essere molto utile il sostegno di uno psicoanalista che accompagni la donna dall’inizio della gestazione; anche se, al contrario, può essere controproducente iniziare un’analisi a gravidanza avanzata.
È molto importante il comportamento dell’ ambiente famigliare nei riguardi della gestante, tanto che spesso determina il futuro del rapporto madre-bambino. Il carico di aspettative del padre e degli altri famigliari risulta talora molto pesante per il bambino che si troverà di fronte all’arduo compito di corrispondervi.

Un aspetto che può apparire inconsueto della problematica gestazionale è quello della vita sessuale della coppia in quei nove mesi.
Prevalgono due atteggiamenti molto decisi e tra loro opposti: uno di condanna e l’altro molto favorevole al rapporto stesso. Vi sono civiltà, tra cui alcune popolazioni australi studiate da Malinowski, che vietano rigorosamente il rapporto sessuale con la donna incinta, attribuendogli la capacità di danneggiare il feto, procurando gli serie lesioni. Lo stesso valeva per alcune aree europee: una ricerca degli anni ottanta svolta nel Poitou, una regione della vicinissima Francia, ha trovato le tracce di una credenza popolare che attribuisce allo sperma maschile un potere corrosivo capace di danneggiare gli occhi e le orecchie del nascituro. Altre leggende profetizzano la nascita di un figlio peloso alla donna che ha avuto rapporti sessuali durante la gravidanza.
In altri ambiti culturali il rapporto sessuale in gravidanza è invece auspicato per il benessere della donna e del bambino. Alcune tribù indiane dell’Arizona attribuiscono allo sperma un alto valore nutritivo per il feto. In Europa, dopo un periodo del secolo scorso e dell’inizio di questo secolo, in cui risultò dominante l’inibizione della sessualità per le gestanti, prevale oggi l’assenso per una sessualità di coppia che risulti soddisfacente per i due partners, salvo diverse prescrizioni legate a particolari patologie.
Inconsciamente agisce sulla decisione del divieto in proposito anche la fantasia dell’incesto, dovuto alla penetrazione del pene paterno nel corpo della madre e lì supposto venire a contatto con il feto, come appare riportato nella tradizione di alcune aree rurali della Cina.
Tornando alla gestazione vera e propria e al rapporto madre-bambino mi affretto a precisare subito il mio punto di vista sulla natura dell’essere umano che io considero tale nella pienezza dei suoi diritti fin dall’istante del concepimento: la donna durante la gravidanza non è più proprietaria del suo utero, ma ha il dovere di proteggere la vita che ospita fino al momento del parto. Solo dopo questo evento, se vuole, potrà tornare a dire. “L’utero è mio e lo gestisco io.” So che spesso il figlio non è frutto di un gesto d’amore, ma di violenza, ma ugualmente nessuna donna ha il diritto di sopprimere una vita e la società ha il dovere di assistere madre e bambino fin dall’ inizio della gestazione, alleviando il disagio della donna e garantendo la salute fisica e psichica di entrambi. Giustificare l’aborto per ragioni di benessere sociale od individuale della donna equivale ad approvare lo sterminio che le squadre della morte brasiliane operano dei bambini di strada che, raggruppati in branchi minacciano l’incolumità e la tranquillità dei cittadini: le ragioni di sicurezza sociale sembrerebbero esserci, ma ciò non toglie che si tratti di sterminio di vite umane che vanno invece salvaguardate ad ogni costo.
Il bambino, il feto e l’embrione non sono proprietà di nessuno, neppure del padre e della madre; come ogni altro essere umano appartengono solo a se stessi. Questo è il solo punto di partenza per un corretto approccio con la vita di chi, per una ragione o per l’altra, è stato un giorno concepito, senza che lo abbia chiesto. Accettare come ipotesi il diritto di abortire pregiudica non solo la vita dell’eventuale vittima dell’aborto, ma anche un corretto rapporto col figlio in eventuali gravidanze successive, perché gli trasmetterebbe comunque un’esperienza di morte. Ciò non significa che il figlio di una donna che ha abortito una volta non possa crescere felice, ma semplicemente che dovrà lottare contro un fantasma in più, gettato gli addosso dall’inconscio materno. Di amore e non di possesso è dunque l’atteggiamento che si deve avere in ogni caso verso il frutto di un concepimento per quanto poco felici siano state le condizioni in cui esso è, senza sua colpa, avvenuto.
La psicoanalisi si interessa dell’inconscio, ma non esclusivamente, infatti sono oggetti del suo studio anche tutti gli altri aspetti, coscienti e no, della vita psichica. La psiche nel suo complesso è una unità inscindibile di conscio ed inconscio. Coscienza ed inconscio stanno tra loro in un rapporto molto intricato e solo per convenzione si può dire che quest’ultimo sia l’oggetto specifico della psicoanalisi; in ogni caso però oggi non c’è la possibilità di affrontare qualunque ipotesi scientifica senza tenere conto del dato culturale determinante che è stato la scoperta dell’inconscio e la nascita della psicologia dinamica. Si possono elaborare teorie che ne negano l’importanza o che non ne tengono conto, ma non se ne può negare l’esistenza, senza correre il rischio di essere dei ciarlatani. Del resto non c’è bisogno di conoscere la psicoanalisi per vedere affermata costantemente dall’ arte la presenza e l’influenza dell’inconscio sulla vita degli uomini: dalla tragedia greca in avanti ed all’indietro, fino al Genesi. Lo stesso tipo di testimonianza si ritrova negli atti più semplici della vita quotidiana, attraverso lapsus, atti mancati, negazioni e così via.
L’inconscio deve essere considerato una realtà nell’elaborazione di qualsiasi ipotesi scientifica. Inoltre possiamo dire che l’ottanta per cento circa dei contenuti della cosiddetta coscienza non sono davvero completamente consci.
Secondo una mia elaborazione, l’inconscio è costituito di tre parti: l’inconscio istintuale, l’inconscio individuale e l’inconscio sociale.
L’inconscio istintuale travalica l’individuo ed è costituito da un bagaglio di meccanismi stereotipi (anche se ciò non è proprio vero) appresi ereditariamente, che certa vecchia psicologia riteneva immutabili nel corso dei secoli e chiamava “istinti” e che io ritengo già essere meccanismi, almeno in parte, psichici.
L’inconscio individuale appartiene strettamente al vissuto dell’individuo, nasce con lui, al momento del concepimento, e si forma nell’inter-azione tra la persona e gli altri, mediata nel ventre materno dalla madre stessa.
L’inconscio sociale è la somma dei contenuti, valori, divieti, che l’ambiente sociale trasmette comunque all’individuo, ed al feto, attraverso la madre.
Ho detto più volte che io credo che abbiano contenuti psichici anche i primi riflessi istintuali che quindi non sono privi già di una certa consapevolezza. Non credo alla teoria di Piaget che vuole il bambino all’inizio della vita solo capace di riflessi e non ancora dotato di possibilità di apprendimento, che si svilupperebbe solo in un secondo tempo. Già nella capacità di coordinare i riflessi (capacità riconosciuta anche da Piaget) io vedo l’attuazione di un vero e proprio meccanismo di apprendimento che caratterizza l’individuo fin dalla vita intra-uterina. Ritengo a questo proposito maggiormente aderente alla realtà, pur nei suoi limiti, l’ipotesi freudiana che attribuiva all’individuo pulsioni e desideri, anche sessuali, fin dal momento della nascita.
Cosa è l’inconscio, quale è la sua natura essenziale?
Una prima risposta potrebbe essere che l’inconscio è memoria, anche se questa è un’affermazione riduttiva nella sua schematicità, come vedremo in seguito. L’individuo registra tutte le sue esperienze che però non potendo, sotto forma di ricordo, essere tutte contemporaneamente presenti alla coscienza, rimangono in gran parte custodite nell’inconscio, dove però non si comportano come materia inerte, ma agiscono.
Avvenimenti, traumi, pensieri, nozioni sono ricordi in movimento che la coscienza seleziona di volta in volta, ma che rimangono in gran parte inconsci e talvolta addirittura in una zona così profonda dell’inconscio che non è possibile, in condizioni normali, richiamarli al livello cosciente.
Vivere è ricordare. L’uomo incomincia a ricordare fin dal momento del concepimento, l’azione conscia ed inconscia dei ricordi condiziona i suoi desideri, ricordare significa subito anche desiderare. Vivere allora è ricordare e desiderare: l’inconscio racchiude in sé ricordi e desideri e condiziona il loro recupero da parte della coscienza.
Una domanda si pone a questo punto: se l’inconscio è ricordo e l’inconscio si forma fin dal concepimento, come mai non ricordiamo nulla della vita intrauterina? Perché l’adulto ricorda solo da un certo punto in avanti e comunque pochissimo dei primissimi anni di vita?
La risposta è che il bambino acquisisce solo in tempi successivi alla nascita la piena nozione del tempo. Per il feto e per il bambino piccolissimo le tre strutture in cui si articola la percezione del tempo: passato, presente e futuro sono solo parzialmente intuite ma ad esse si sovrappone la percezione di un unicum continuo. Solo con l’acquisizione della nozione di tempo e di quella interdipendente di spazio il bambino riuscirà a collocare i ricordi in una prospettiva che possiamo definire appunto spazio-temporale. Il feto e il neonato, immersi nel proprio presente, faticano a mettere in atto il meccanismo della memoria.
Si conoscono comunque tecniche che permettono il recupero di ricordi molto precoci i ed in qualche caso anche della vita intra-uterina. Ovviamente sono ancora molte le cautele su quanto sia effettivo questo recupero di memoria, ma è questo un problema che la ricerca scientifica può risolvere. Del resto persino l’antica psicoanalisi riteneva di trovare, per esempio nei sogni, tracce mnestiche che non potevano risalire all’ esperienza strettamente individuale.
L’inconscio non solo si forma già nella fase di vita intra-uterina, ma probabilmente è anche ricco di contenuti trasmessi geneticamente, attraverso l’eredità dei due genitori.
Freud con la teoria delle Urphantasien e Jung con la sua teoria dell’inconscio collettivo avevano già in parte avuto le medesime intuizioni. Oggi quello che fino a ieri sembrava favola trova buoni supporti scientifici.
Del resto io credo che il velo del mistero possa solo parzialmente essere tolto. Come dice Eraclito:
“Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos”. (Cfr. Diels, fr. 45)