Psicoanalisi contro n. 6 – Conscio ed inconscio nella vita della gestante

maggio , 1995

Il concetto di “coscienza”, nell’accezione di elemento fondamentale della psiche umana o come quella parte dell’anima che presiede ai principi morali, è di uso antico. Nella nuova accezione di consapevolezza, di presenza a se stessi, comincia ad entrare nell’uso filosofico con Leibniz, il quale nello stesso periodo introduce l’accezione nuova del termine “inconscio” come sede di piccole percezioni che non affiorano alla coscienza, che non diventano consapevoli. Per Leibniz (1646-1716) esiste una distinzione tra le piccole percezioni che non diventano consapevoli, pur divenendo un patrimonio acquisito, e le “appercezioni” con le quali l’uomo percepisce di percepire, ovvero di cui è consapevole. Possiamo far iniziare di qui la nuova storia dei termini “coscienza” ed “inconscio” come funzioni psichiche ben distinte.

Due atteggiamenti sono rimasti emblematici a proposito della coscienza nella storia della scienza dell’Ottocento: uno fu quello di Karl Wernicke (1848-1905), scienziato anatomista e studioso del sistema nervoso che pensò di poter individuare la coscienza, intesa come luogo della consapevolezza, in un’area del cervello e precisamente nella corteccia cerebrale, luogo in cui, secondo i suoi studi, gli stimoli percepiti diventerebbero contenuti psichici coscienti. L’altro atteggiamento fu quello dello scienziato Wilhelm Wundt (1832-1920) il quale si dimostrò più scettico sulla possibilità di localizzare topicamente la sede della coscienza, che considerò, più che come un luogo, come una funzione attiva che rende l’uomo consa­pevole di tutte le percezioni, sensoriali e intellettive.

Sigmund Freud (1856-1939), dopo aver inutilmente cercato di darle un sistemazione all’interno di una topica del cervello umano (Progetto di una psicologia, 1895), parla della coscienza come una funzione dinamica della psiche. Per il fondatore della psicoanalisi la coscienza è quella funzione della psiche che rende attuali le percezioni, le sensazioni, i ricordi, una somma di stimoli che possono provenire sia dall’esterno sia dall’interno della persona. La coscienza possiede l’energia necessaria a trattenere queste rappresentazioni, sulle quali focalizza l’attenzione di volta in volta, poiché non sarebbe possibile fissare l’attenzione contemporaneamente su troppi oggetti.

La coscienza è però, secondo me, uno strumento che, al pari di tutti gli altri strumenti naturali o artificiali, anche i più precisi, non è assolutamente neutrale. Così come ogni strumento modifica in base alla sua natura l’oggetto osservato, anche la coscienza cede qualcosa di sé all’oggetto su cui focalizza l’attenzione. Lo stesso meccanismo del resto vale per gli organi di senso: vista, udito, odorato, gusto e tatto non veicolano percezioni pure, ma condizionate dall’effettivo stato dell’ organo o delle condizioni ambientali, interne ed esterne. La appercezione pura come la intendeva Leibniz è quindi solo un’astrazione. Tale acquisizione ha segnato profondamente tutta l’epistemologia moderna che deve così includere questa variante all’interno delle sue ipotesi scientifiche, rinunciando alla pretesa di assoluta oggettività.

La coscienza sembra così un concetto che complica più di quanto non chiarisca.

Forse è utile allora recuperare l’accezione freudiana di coscienza e il suo confronto con il concetto di inconscio operato dallo stesso Freud. La consapevolezza dei contenuti psichici, dice Freud, può essere solo parziale, per cui una grande quantità di questi contenuti sono trattenuti al di sotto della coscienza. L’uomo sceglie di volta in volta ciò di cui ritiene opportuno avere consapevolezza; ma questa scelta è solo in parte consapevole, perché i contenuti dell’inconscio agiscono sul meccanismo della scelta senza che la loro azione sia immediatamente percepibile.

Freud illustra questo meccanismo con un esempio molto bello e di facile comprensio­ne in un breve saggio di poche pagine sulla negazione del 1925.

In questo scritto lo psicoanalista viennese insegna a riconoscere il modo in cui molti contenuti psichici rifiutati dalla coscienza vi si infiltrino, per così dire “travestiti” attraverso lo stratagemma della negazione. Ci sono frasi rivelatrici che iniziano proprio con una negazione, del tipo: “Non è per gelosia… quella persona non ha assolutamente nulla in comune con quell’altra… non ho mai pensato una cosa del genere…” etc. Con un lavoro molto semplice di decodificazione che trasformi in positivo quello che è espresso in forma negativa si può rendere esplicita l’af­fermazione che non si vorrebbe ammettere di un contenuto di coscienza ritenuto inaccettabile.

Mi pare giusto far notare come talora la coscienza coincida con punte molto elevate di inconsapevolezza. La psicoanalisi ha scelto come metodo operativo di ren­dere consapevole ciò che è inconsapevole e di smascherare con tecniche opportune, di cui quella del capovolgimento della negazione è solo un esempio, le false consapevolezze. L’inconscio sfuma continuamente nella coscienza e questa a sua volta si perde nell’inconscio. I sogni, le negazioni, gli atti mancati, i lapsus, sono segnali di questo continuo interscambio di livelli rintracciabile nelle esperienze della vita quotidiana.

Questo spiega anche in parte il fatto che la percezione della realtà sia così diversa per ciascuno: il desiderio più o meno nascosto di soddisfare pulsioni non sempre coscienti ci fa avere una visione in qualche modo allucinata della realtà e ciò vale per tutti e sempre. Dato per scontato che non si può stabilire una netta divisione tracoscienza ed inconscio, a maggior ragione ritengo valida la mia suddivisione dell’inconscio in tre aspetti: istintuale, individuale e sociale, che sfumano continuamente e sono in rapporto tra loro e con la percezione cosciente ed inconscia del mondo. Questa dinamica psichica inizia fin dall’istante del concepimento. Per quel che riguarda in particolare la situa­zione psichica conscia ed inconscia della gestante possiamo, per ora, ritenere valida la divisione convenzionale della gestazione in tre periodi, anche se è difficile accettare una schematizzazione universale che preveda una durata precisa di ciascun periodo.

Il primo periodo è considerato quello in cui la gestante appare meno legata al figlio, verso il quale nutre una certa ambivalenza. È in alcuni momenti perplessa sull’opportunità di portare a termine la gravidanza anche quando non giunga a pensare davvero di abortire; può attraversare periodi di angosciosa incertezza. Se in questa fase avviene un aborto spontaneo, cosa che statisticamente si verifica con una certa frequenza, le conseguenze non appaiono drammatiche e risultano meno traumatiche di quanto si potrebbe temere.

Il secondo periodo è quello che gli autori dei trattati più tradizionalisti definiscono di euforia: la donna ha cura di sé e della sua condizione particolare, si sente in buona armonia con le sue modificazioni fisiologiche ed ha un buon rapporto con la vita che ospita, ostenta una certa iperattività e serenità, riducendo al minimo le ansie e sforzandosi di condurre una vita “normale”.

Il terzo periodo è considerato dagli osservatori quello in cui la donna appare più confu­sa, si notano apatia, disagio ed insicurezza, una ricerca più marcata dell’appoggio del partner e della famiglia, a volte si registra uno stato depressivo.

Come ho già detto, questa divisione è schematica, varia da un autore all’altro e non può tenere conto di tutta la ricchezza e complessità di ogni singolo caso.

Per quanto ho potuto osservare, durante la gestazione si accentua ancor di più l’intreccio dei livelli consci ed inconsci nella vita psichica della donna. Le tracce di fantasie di ri­fiuto del bambino, magari alla soglia tra coscienza ed inconscio, si ritrovano in tutte le storie gestazionali; è un desiderio segreto di abortire, magari controllato dalla coscienza, che raggiunge momenti di particolare intensità in quello che si è voluto definire il primo periodo. Secondo alcune teorie psicoanalitiche, che in parte mi pare di poter condividere, ci sono fattori psichici importanti che agiscono in questo senso: la donna torna indietro col pensiero e rivive i suoi rapporti con la madre, con la quale anche si identifica. Allo stesso tempo si identifica con il bambino che vive in lei e il risultato è una condizione di scissione della personalità tra quella della madre e quella del figlio.

La scissione a mio avviso si accentua nel cosiddetto secondo periodo: la sicurezza apparente e l’euforia sconfinano talvolta nella paranoia e nascondono una grossa instabilità, possono sorgere marcati disagi fisici ed alcune patofobie.

La mia esperienza ha effettivamente ritrovato nel terzo periodo una tendenza alla de­pressione.

Tutto questo sovrapporsi di sentimenti consci ed inconsci finisce ovviamente per avere ef­fetti considerevoli anche sul bambino chesta per venire alla luce.

Pur rendendoci conto dell’inadegua­tezza delle schematizzazioni, possiamo per comodità metodologica anche in questo caso dividere in gruppi i tipi di relazione madre-bambino durante la gestazione. Il primo tipo lo chiamerei quello del “bambino troppo voluto”. Pur quando non si giunga a veri e propri casi cosiddetti di gravidanza isterica in cui compaiono tutte le manifestazioni fisiche collaterali, ma manca la ragione vera e la donna non è effettivamente incinta, è questo comunque un tipo di gestazione molto problematico. Quando il bambino è intensamente voluto dalla madre e dal gruppo famigliare circostante l’eccesso di ansia finisce per avere i suoi effetti. Il bambino che verrà alla luce ostenterà una sicurezza solo apparente, ed una tendenza alla tracotanza dominatrice sull’ambiente famigliare e sui genitori soprattutto, ma nei confronti del mondo esterno sarà piuttosto vile ed inetto. La sua imperiosità nei confronti dei genitori lo spingerà fino ad impone la sua presenza nel loro letto; manifesterà una tendenza a piangere troppo.

Il secondo tipo di relazione è quello che si stabilisce con il «bambino poco voluto». È questo un bambino il rifiuto del quale si è protratto anche al di là di quel primo periodo di cui abbiamo detto sopra, e qualche volta ha addirittura subito tentativi di aborto non portati a compimento. La frase che risuona nella mente della gestante è : “Questo figlio non lo voglio”. Sono questi bambini che nascono in una situazione di grande violenza, aggressività, ansia o depressione. Fanno molta pena; sono insicuri; entrano nel letto dei genitori per avere la rassicurazione di essere al mondo; desiderano sentire la presenza fisica dei due genitori; sono bambini caratterizzati da grandi pianti difficili da consolare. Il terzo tipo è quello del «bambino troppo pensato». La gestante si chiede continuamente come sarà, gli dà un nome fin da subito, non appena accertatasi del suo sesso; subito è caricato di aspettative: si immagina il suo aspetto, il suo futuro, si sceglie persino la sua professione. Sarà questo un bambino profondamente insicuro, incapace di con­cludere i suoi progetti, annoiato, poco in grado di gestire il proprio corpo, sempre a disagio; esibizionista, cercherà di intrufolarsi nel letto dei genitori per guardare ed essere guardato. Avrà un grande compiacimento nell’esibirsi in pianti teatrali e capricci clamorosi.

Il quarto tipo è quello del «bambino poco pensato». La madre non nutre fantasie sul suo conto, non lo coccola col pensiero, non gli rivolge attenzione durante la gravidanza, riser­vandosi magari di amarlo quando sarà venuto alla luce. Sono bambini per i quali si an­nuncia un atteggiamento negativo, con rischio di autismo; comunque appaiono de­pressi, hanno difficoltà nella vita di relazione; sono svogliati, con problemi psicosoma­tici e di deperimento organico. Non manifestano particolare desiderio di entrare nel letto dei genitori. Sembrano quieti; piangono troppo poco; stanno soli al buio nella loro ca­mera senza lamentarsi e richiamare la pre­senza dei genitori; piangono sommessamen­te, sono troppo silenziosi, possono rischiare situazioni di disagio psichico.

Sembrerebbe che io pensi che non siano possibili gravidanze felici. Non è così, ma anche non è vero che sia possibile una gestazione solo felice, senza conflitti ed ambivalenze. Quello della gestazione è un periodo della vita psichica ricco per la donna e per il bambino, che insieme percorrono un cammino ogni volta unico ed irripetibile, che trova il suo senso nell’affermazione ultima delle ragioni della vita.