Archivio di dicembre 1993

Psicoanalisi contro n. 3 – AL DI QUA E AL DI LA’ DELLE STELLE

mercoledì, 1 dicembre 1993

Da quando esiste, l’essere umano è sempre stato sottomesso a tegole e precetti. Per quanto si possa risalire nel tempo, tutto ciò che riguarda i nostri antenati ci sembra strutturato in regole rigide. Il selvaggio e ancor prima il cosiddetto primitivo sono circondati di precetti che gli antropologi cercano di decifrare e che i sociologi interpretano. Io considero l’antropologia una scienza ambigua e ho l’impressione che la sociologia fatichi a trovare una propria sicurezza metodologica; forse per questo nelle loro analisi non ci parlano mai di società di uomini liberi, ma piuttosto di società matriarcali o patriarcali improntate sempre a schemi obbligati di comportamento, senza mai preoccuparsi di fornire una chiave di lettura che permetta di distinguere tra regole «buone» e regole «cattive», senza dire che l’uomo si è fondato su simili schemi e tali regole, anche per sfuggire al caos, ammesso che nel caos non ci siano assolutamente regole e non siano piuttosto soltanto poco leggibili. Nel bisogno di un ordine si è dovuto dunque muovere fin da sempre l’uomo, un ordine interno a se stesso ed anche esterno che ha avuto come espressioni una legge morale e un codice di relazioni. Noi tutti desideriamo che l’arte possa essere il regno della libertà, ma libertà da che cosa? Dalle norme sociali, dai condizionamenti
economici, dalle strettoie moralistiche?

Come artista dunque io sento l’esigenza della libertà, ma poi non sono capace di dare di essa una definizione. Appena mi penso abbandonato alla mia libertà mi smarrisco; ho bisogno di punti di riferimento, che io una volta ho scelto, ma che esistono fuori di me. Aver scelto punti di riferimento non vuol dire averli creati, né significa sfuggire al giudizio che su di essi si deve dare. Se le regole sono indispensabili, ancor più importante è però saper distinguere tra le tante ed assumersi le responsabilità che derivano dall’aver scelto tra il bene e il male. Questo è stato il primo esercizio di libertà e il solo possibile: tra i tanti, ho scelto i miei punti di riferimento, ma essi esistevano da qualche parte ed io posso solo essermi piegato a sceglierne alcuni piuttosto che altri. Sono un artista che non vuole vagare nell’indistinto, spero che nessun artista concepisca la libertà come brancolamento, spero che ciascuno sappia quali punti di riferimento ha scelto, estetici, religiosi, politici. Io ho scelto un punto di riferimento metafisico, per fede e anche per un mio personale delirio di potenza. L’ho scelto perché è oltre, insondabile ed addirittura impronunciabile, l’ho scelto per superbia, perché è la scelta più difficile, ma anche perumiltà perché è la più facile, la menoattaccabile dagli strumenti della logica. Scegliere il quotidiano, mi sembrava troppo semplice, già detto e banale, legato ad una logica che è frivola in se stessa. La scelta della metafisica mi sembra avermi liberato da un contingente che non mi ha dato mai vantaggi sostanziali; nella metafisica c’è la possibilità di una consapevolezza sia pure proiettata sempre in avanti La mia mi sembra essere diventata così anche una scommessa: nella speranza di vincerla e riuscire a spingere lo sguardo oltre quelle stelle che sono il simbolo in cielo della legge morale che sento dentro di me. Io sono un artista che vuole cantare le stelle e la legge morale e tante altre cose: la vita dei gesti semplici e di quelli eroici. Non so se l’eroe sia chi si immola sulle barricate o colui che sa sorridere ai propri simili; personalmente non credo che all’eroe si imponga una tale scelta, si può tentare di essere eroici, consapevoli della propria intenzione. L’uomo è in potenza sempre un eroe, troppo spesso però si scorda di essere anche uomo, con umiltà e con tenerezza. Io ho detto di voler essere un artista libero, sebbene non sappia cosa sia la libertà, sebbene sia convinto che l’uomo da sempre ha bisogno dalle regole attraverso cui si è costruito e su cui si fonda. Ho però bisogno di essere libero, e mi sento libero quando scrivo la mia musica; ma se, come un antico stoico, faccio un passo indietro ed «epochizzo» il mio tentativo di creare, mi vedo immediatamente chiuso tra le gabbie dei linguaggi musicali, anche se sono ragioni che comunemente vengono definite di ordine pratico: la limitatezza delle voci umane, le costrizioni delle tecniche strumentali; un flauto non può salire più di tanto, un basso non può scendere più giù di così… e poi ancora il numero degli esecutori. Addirittura poi accade che in situazioni particolari io mi trovi ad aver imposto limitazioni e regole ai musicisti con cui lavoro- dall’organico orchestrale, ai solisti, ai determinati giorni di prove tutta una lunga serie di obblighi. Pretendo sempre la qualità massima raggiungibile, il che significa costi elevati, che impongono limiti di ogni genere. Mi auguro di fare tutto questo con la più grande consapevolezza e che altrettanto facciano tutti coloro che collaborano con me. La musica che ne scaturisce come può essere segnata dalla libertà se le regole da accettare sono così numerose per tutti? Io sono tuttavia convinto di esprimere liberamente il mio pensiero musicale ed ho l’impressione che ciò sia possibile anche per gli altri. La libertà può dunque essere tale solo se è un rapporto liberamente accettato con regole più o meno necessarie. Così è per l’arte: nell’accettazione delle condizioni del proprio operare e con l’obiettivo di travalicare tutti i limiti superabili, con la garanzia di un Riferimento che, quello sì, è assolutamente libero, e ci trascende.
Io vivo da sempre in un mondo che ha in Mozart il suo centro: ho scoperto il genio del compositore salisburghese quando avevo solo sette anni e da allora vivo dentro quella musica; a Mozart io ho sempre dedicato tutto:ogni giorno e ogni pensiero, non solo musicale, ogni azione. Una sorta di mania che mi fa anche prendere per pazzo. Se fossi coerente non dovrei avere nemmeno il coraggio di provare a scrivere musica: nessuno può sperare di reggere il confronto con quella che è stata la vera voce di Dio. Dio è presente sempre nell’opera di Mozart, e non solo nelle composizioni di carattere religioso, questa profonda spiritualità è stata recentemente anche riconosciuta da S.S. Giovanni Paolo II che ha creduto opportuno segnalarla con un gesto di lungimiranza che onora tutta la musica. In Mozart c’è tutto quello che è contenuto in questo mondo ed anche l’eco di un altro mondo che per gli esseri umani è soprattutto un irraggiungibile sogno, una speranza che solo la fede può tenere viva. Se io e gli altri continuiamo a scrivere è solo perché speriamo di arrivare a bagnarci della sua luce. Una luce che viene direttamente da Dio. Ho iniziato parlando della libertà e poi mi sono perso per strada: non è possibile comprendere il senso della libertà se non si capisce la musica di Mozart, profondamente radicata nel mondo e proiettata nel trascendente. Mozart era anche un piccolo uomo che beveva birra e diceva sconcezze, ambizioso di onori e bisognoso di soldi; era così umano da essere davvero fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Così dovrebbe essere ogni uomo, ma ci è riuscito uno soltanto.

Psicoanalisi contro n. 3 – DUE PARODIE

mercoledì, 1 dicembre 1993

Io ritengo che la psicoanalisi sia una scienza che va un po’ oltre le altre; questa affermazione contraddice però ciò che io stesso ho più volte ripetuto: cioè che la psicoanalisi è una scienza come le altre e che non deve arrogarsi il diritto di essere qualcosa di più. La psicoanalisi, secondo me, sbaglia quando rivendica la prerogativa di comprendere e fondare tutti i vari aspetti della ricerca. Perché, allora, ho fatto un’affermazione che non ritengo del tutto giusta? Forse perché non la ritengo nemmeno del tutto sbagliata. Sono giunto a questo convincimento dopo tanti anni di lavoro psicoanalitico e un’attenta osservazione dei metodi e dei risultati delle altre scienze. Quando la psicoanalisi ha voluto fondarsi, a sua volta, come scienza oggettiva ha ottenuto il risultato di essere ridicola o riduttiva; infatti, una scienza che voglia gettare lo sguardo nelle profondità dell’animo umano, portare alla luce sentimenti, pensieri, desideri inconsci costruiti nel tempo, addirittura in parte patrimonio genetico; una scienza che voglia anche leggere le dinamiche che costruiscono la persona nella sua relazione con gli altri e il mondo, deve sapere andare oltre se stessa. È giusto che la ricerca si affidi anche all’esperienza, alla quantizzazione, alla logica e agli esperimenti di laboratorio, ma non deve mai limitarsi e chiudersi in un tale cerchio. La psicoanalisi, in particolare, deve essere capace di uscirne. Sebbene non sia ancora dato sapere se sia possibile trovare a tutte le scienze un fondamento comune, oggi, alcuni medici, biologi, chimici e fisici hanno il coraggio e l’intelligenza di affermare che questo andare oltre deve caratterizzare ogni scienza. Per un po’ di tempo si è parlato di interdisciplinarietà, ma la cosa si è rivelata una sciocchezza utile soltanto a far giocare entro la scuola insegnanti distratti ed esibizionisti. Interdisciplinarietà non vuol dire nulla; non è, per lo più, nient’altro che un sincretismo vuoto, assolutamente inutile, che non implica un mutato atteggiamento nei confronti della scienza. Ogni scienza, come ho detto, deve andare oltre. Oggi, purtroppo, le poche voci che riescono a farsi sentire e non temono di ribadire la necessità di rifondare da capo tutta la scienza, non hanno mutato l’atteggiamento generale. Forse solo la psicoanalisi è stata costretta ad andare oltre se stessa, perché si è costituita proprio come ricerca che non può fermarsi al dato o all’insieme di dati. La psicoanalisi ha capito che non può neppure fermarsi all’interpretazione, ma deve fondarsi coraggiosamente sul mistero. Se i fondatori della psicologia dinamica non avessero impostato così fin dal primo momento la loro ricerca, la psicoanalisi non si sarebbe costituita, ma sarebbe rimasta un gioco intellettualistico, divertente o noioso, e, soprattutto, inutile.

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Vi sono persone che dicono con alterigia ed estrema sicurezza di non aver bisogno della psicoanalisi o di qualunque altro tipo di psicoterapia: sono coloro che si sentono «sani e normali». Io non voglio negare che in qualche parte della terra possa esistere un essere umano sufficientemente sano, ma, poiché ritengo che non ci siano, sul nostro pianeta, che società profondamente malate, non riesco proprio a capire come qualcuno possa affermare di essere sano e normale. Già non è facile definire cosa siano salute e normalità, ma è proprio difficile immaginare persone sane e normali.
Quando ascolto costoro che insistono con arroganza e alterigia, quasi sempre scorgo dietro la loro pretesa, uno stato di malessere psichico intenso, un marasma interiore, malamente coperto dalla presunzione che vuole essere auto-rassicurante. Dicono che non sentono alcun bisogno di conoscersi per meglio sapersi orientare, ed io so che alcuni di loro possono vivere benissimo fino a cent’anni nell’inconsapevolezza e nella malattia; però so anche che saranno sempre in bilico, col rischio di perdere l’orientamento e di gravi destrutturazioni da un momento all’altro. Sono spesso padri tracotanti e violenti, oppure vittime della loro famiglia; madri ricattatorie e tiranniche. Sono anche artisti avari, perché timorosi di lasciar trasparire l’inconscio che negano; preti fanatici incapaci di darsi agli altri davvero perché incapaci di percepire se stessi. Altri dicono che la psicoanalisi non è una scienza, che non serve comunque a niente, che rende dipendenti; ma questo loro ingenuo modo di difendersi rivela, oltre che la paura, anche un grande fascino. Farà certo sorridere molti sentirmi affermare che tutti dovrebbero nella vita affrontare coraggiosamente, almeno una volta, la psicoanalisi; forse sono anche in malafede, poiché come psicoanalista non posso certo essere obiettivo: se questo mio augurio fosse accolto, certo gli psicoanalisti diventerebbero tutti ricchi e potenti! Malgrado ciò, io ritengo che ogni essere umano, e in particolare ogni artista, dovrebbe aver il coraggio di intraprendere questo viaggio avventuroso alla ricerca di se stesso.

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Quanto detto finora non significa che la psicoanalisi stessa non debba rifondarsi. Gli psicoanalisti che non hanno il coraggio di andare oltre la loro piccola scienza rimangono irrigiditi in una metodologia claudicante e improduttiva. Costoro si esprimono spesso attraverso due tipi di linguaggio: il primo è quello delle affermazioni perentorie ed oscure, o prolisse e ridondanti. Non cercano di andare oltre, non fondano nulla sul mistero, la loro è parodia della scienza e non viaggio avventuroso verso ciò che ancora non si conosce. Non c’è alcun tentativo di superare le contraddizioni, ma solo il miserabile trucco, vecchio come il mondo, di parlare una lingua incomprensibile, per non essere capiti, ma, soprattutto, per non capire. Capire gli altri e se stessi fa paura: meglio allora le oscurità sentenziose di parole senza senso!
L’altro tipo di linguaggio, che è anch’esso una parodia della ricerca scientifica, è quello che predilige le ovvietà banalizzanti. Ci sono scienziati, anche psicoanalisti, che ostentano grande chiarezza nel parlare, ma la loro chiarezza è sterile perché non comunica altro che pochi slogan consunti dall’uso. Neppure questa è scienza: è solo un inutile tentativo di eludere la profondità dei problemi, restandone alla superficie e ottenendo, grazie alla banalità, il generale consenso.

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L’arte, da secoli, da millenni, da sempre, ha tentato, come la psicoanalisi, di andare oltre: ha cercato di diventare tra sparente per spingere lo sguardo al dilà di se stessa. Ha cercato il mistero, si è intrisa di esso. Tutti gli artisti debbono essere consapevoli che, oltre l’opera, c’è qualcos’altro; non debbono temere di avventurarsi per sentieri inesplorati, debbono accettare che altri leggano nelle loro creazioni significati che loro stessi non avevano sospettato, invece di stringersele avaramente al petto, reputandosene gli unici veri interpreti. Tutti possono diventare artisti, creatori come il Creatore, e quindi ogni opera d’arte può far nascere in chiunque fantasie, desideri, pensieri inaspettati, veri e concreti. Concretezza che però sfuma subito nel mistero.
L’arte ha anche il dovere di essere semplice, diretta e immediata. Ogni artista deve osare mostrarsi nudo, deve sapere che la sua arte è anche il suo corpo e il suo corpo è la sua arte. I gesti, le parole, i suoni e i colori dell’arte si dirigono verso l’altro, in una concretezza sensuale e sacra. Il richiamo al mistero non significa nascondersi, ma fornire, con umiltà e coraggio, il maggior numero possibile di chiavi di lettura. L’umiltà e il coraggio debbono sempre andare di pari passo, se no diventano querula lamentazione e presuntuoso velleitarismo. L’arte è euritmia, che coglie il mondo e l’uomo nell’essenza del loro rapporto.

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Ci sono due modi di tradire l’arte, distorcendone il senso e facendone parodia. Uno è quello di parlare linguaggi oscuri e incomprensibili che non tanto evocano il mistero, quanto vigliaccamente proteggono l’artista dal mondo e dal proprio inconscio. Le opere di tali artisti non saranno segno di salute, ma esprimeranno l’ignoranza e la malattia. L’arte parodiata insegna agli uomini ad essere violenti e brutali, a nascondersi nel buio della morte, poiché l’incomunicabilità è la morte. L’altra forma di parodia è la cosiddetta arte semplice, che usa moduli prefabbricati, non già nell’intento di parlare perché tutti possono capire, ma per ingannare con ma falsa comprensibilità. Questa è un’arte stupida, povera e venduta. Di per sé non è necesosiatiente male che un prodotto artistico sia commerciabile, ma l’ossequio alla stupirai per aumentarne la vendibilità rende l’ade &lenir riduce la sensualità al livello della votatiti e la sacralità al piano della baia.

Psicoanalisi contro n. 3 – L’INGENUA SPERANZA

mercoledì, 1 dicembre 1993

La stupidità e la banalità dominano il mondo; non sarebbe possibile altrimenti. Io credo nella potenziale uguaglianza di tutti gli uomini, ma so che le condizioni sociali e ambientali, gli sfruttamenti millenari e soprattutto la non volontà e l’incapacità di insegnare di coloro che, nel lungo cammino della storia umana, hanno tenuto le redini del potere, li hanno resi disuguali. Questa incapacità è soprattutto evidente nella cosiddetta «famiglia»; non mi riferisco solo alla famiglia attuale, fondata sul rapporto di coppia tra due individui di sesso diverso, ma anche a quel tipo di famiglia che coincide con tutto il gruppo sociale, quando è unito da un vincolo di sangue. Gli adulti, maschi e femmine, non hanno mai saputo insegnare Quando sia incominciato questo meccanismo perverso è impossibile dirlo. L’insegnamento ufficiale, che il gruppo affida, istituzionalmente, ad alcune persone, non è altro che il riverbero di questa incapacità di fondo. Non ho voluto dire incapacità costitutiva, perché allora dovrei dire che anche l’incapacità di imparare è costitutiva, nel qual caso banalità e stupidità sarebbero destinate a regnare sovrane, nei secoli dei secoli, senza che gli esseri umani abbiano speranza di riscatto. Di fatto, però, solo pochi individui, eccezionalmente dotati, riescono a riscattarsi. Indubbiamente, questa mia è una visione che può parere aristocratica, anche se ho usato il termine in quella che è un’accezione comune, ma etimologicamente scorretta. La specie umana non è guidata dai migliori, che sono una minoranza e di rado detengono il potere. Questo è ancora peggio che se non lo detenessero mai perché permette agli ingenui come me di sperare in un mondo migliore, in cui si possa insegnare la giustizia attraverso la giustizia, la bellezza con la bellezza e l’amore con l’amore.

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Questa situazione perversa è talmente incancrenita e allo stesso tempo bizzarra che talvolta i migliori riescono ad affermarsi, imponendo all’ammirazione universale il giusto, il bello e l’amore. Ecco perché Fidia, Raffaello, Dante, Shakespeare e Bach sono diventati emblemi della bellezza e grandezza umana. Certo, basta entrare nella Cappella Sistina, e vedere le orde di barbari inebetiti che girano gli occhi e torcono il collo per guardare, e soprattutto ascoltare i loro commenti, per comprendere che quasi tutti coloro che si trovano lì, sono spinti dal loro dovere di turisti, e in realtà non capiscono nulla di quello che vedono,nulla di quelle meravigliose immagini, narranti storie che vanno oltre il tempo. Quasi nessuno di essi nella vita persegue la giustizia, la bellezza o l’amore. Eppure l’ammirazione di simili persone per quelle opere che sfolgorano di una grandezza quasi misteriosa non è stata solo imposta. Io, forse, mi illudo, ma credo che ogni essere umano, sia pur inconsciamente, percepisca qualcosa. Io non considero l’inconscio solo come la sentina di tutte le pulsioni perverse e rifiutate, ma lo vedo anche come il luogo in cui si annida la speranza. Nell’inconscio si sono nascosti la giustizia, la bellezza e l’amore. Tutti gli uomini hanno provato, almeno una volta nella loro vita, la nostalgia. Sto parlando della nostalgia senza oggetto, che prende, all’improvviso, creando una situazione di struggimento profondo, in cui si vorrebbero dire e pensare cose di cui non si è invece capaci. Qui si nasconde la dignità dell’uomo, nel rimpianto per il paradiso perduto o per l’età dell’oro.

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Anche la psicologia ha bisogno di essere stupida ed in mano agli stupidi. Non sto parlando soltanto dei giochetti televisivi o dei test dei rotocalchi, che servono a far passare il tempo, nella tremenda ed esasperante situazione di una spiaggia sudicia ed affollata, di fronte ad un mare avvelenato. Parlo anche di libri che vanno per la maggiore, di dotte chiacchierate di psicologi alla moda. Si riversano sul pubblico cumuli di ovvietà. Il giornalista domanda: «Professore, cosa prova il prigioniero in balia dei suoi rapitori?» E quello risponde: «Alcuni provano intensa paura e si abbattono, altri tentano di reagire con un meccanismo contro-fobico». Se lo psicologo è uno psicoanalista, troppo spesso, risponderà più o meno così: «Indubbiamente, alcuni sentiranno il carceriere come il padre e gli si sottometteranno, altri lo percepiranno come figura materna e cercheranno di blandirlo».
Non voglio affermare che tutti gli psicologi e psicoanalisti siano capaci di dire soltanto sciocchezze, ma certo che le banalità che la scienza psicologica
riesce a diffondere per il mondo sono paurose. Eppure, sin dal suo primo sorgere, di quante profonde ed acute intuizioni è stata capace la psicoanalisi e quante ancora continua ad averne oggi!
Negando totalmente l’insegnamento psicoanalitico, si afferma di voler lottare per raggiungere cose concrete (anche se non si sa bene cosa e con quali strumenti) piuttosto che cercare di capire. Così le rivoluzioni producono soltanto cambiamenti superficiali e la revisione dei libri di testo; mentre l’uomo e la donna rimangono gli stessi: ottusi e tirannici nella loro incapacità di insegnare e nella loro pervicace volontà di ascoltare soltanto ciò che non mette a disagio.

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Gli artisti scelgono questa o quella forma d’arte, oppure oscillano tra opposte tentazioni, spinti dal bisogno di guadagnare e dal desiderio di sentirsi privilegiati, perché accreditati, senza fatica, come depositari di valori che nessuno può permettersi di verificare davvero; oltre che per il piacere di esibirsi. Per esporsi rischiando di persona ci vuole un grande coraggio: la ricerca di autentici valori è faticosa. Il coraggio e la forza non si trovano dietro l’angolo, ma possono solo essere il frutto di insegnamenti preziosi e prolungati.
Chi può dare, però, un simile tipo di insegnamento, se così pochi accettano l’onere di essere maestri d’arte come di vita? Perché si dovrebbe avere l’umiltà di ascoltare quei pochi che si sobbarcano il compito di parlare, dal momento che ascoltare davvero mette a nudo le proprie debolezze, destruttura la costruzione di piccole ovvietà su cui abbiamo accettato di fondare la nostra vita? D’altronde se nessuno ha il coraggio di ascoltare, non ha senso che qualcuno accetti di parlare. L’artista e l’uomo debbono sforzarsi di riappropriarsi del loro coraggio e smascherare e denunciare l’espropriazione e gli espropriatori.
Per questa speranza io vivo, uomo, scienziato e artista, alla ricerca della giustizia, della bellezza e dell’amore.

Psicoanalisi contro n. 3 – A CAPO SCOPERTO

mercoledì, 1 dicembre 1993

E inutile andare alla ricerca del significato etimologico della parola artei è inutile perché sarebbe troppo facile e sarebbe ozioso perché non porterebbe a nessuna conclusione. Ogni parola esprime un concetto che si evolve nel tempo, le parole sono instabili come gli esseri umani: oggi stanno a significare una cosa, domani avranno un altro significato e in futuro potranno averne un altro ancora. Oggi la parola arte designa un gruppo di attività umane abbastanza identificabili, anche se non definibili con assoluta precisione.
Gli artisti sono coloro che producono arte: alla parola artista corrisponde un concetto difficile a definirsi, ma è un termine che nella pratica può venire utilmente usato. Tutti sanno chi è l’artista: è colui che produce l’arte. Tutti sanno che cosa è l’arte; ma nessuno riesce a definirla.

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Se si parla di arte bisogna distinguere almeno due categorie: una è quella dell’arte colta e l’altra è quella dell’arte popolare. L’arte colta ha una sua storia, che si ritrova sui testi che ne tracciano il percorso nei secoli: storia della musica, storia dell’arte figurativa, storia del teatro e così via. L’arte colta ha una sua importanza economica poiché sostiene la vita di istituzioni teatrali o musicali, tiene in piedi una parte dell’industria editoriale e permette il commercio di galleristi e mercanti d’arte. L’arte colta viene considerata l’Arte con la A maiuscola.
Accanto all’arte colta sopravvive un’arte popolare detta anche arte folclorica, fatta di tabernacoli affrescati, perduti tra le campagne, dove sono effigiati Santi e Madonne con sguardi penetranti, mani anchilosate e rozze come quelle dei contadini, colori indecenti: rosa, azzurri, neri e violetti improbabili. È anche l’arte dei cantastorie che cantano seguendo ancora gli schemi di un’antica musica modale e che si servono di versi in ottava rima. Quest’arte è stata fiorente sia nel Nord sia nel Centro e Sud dell’Italia, ha prodotto opere splendide. L’arte colta, quella dei teatri e delle gallerie d’arte ha subito negli ultimi due secoli una grande evoluzione: Barbizon e Wagner, Webern e Der Blaue Reiter: linguaggi diversi si sono susseguiti, opponendosi gli uni agli altri, ciascuno affermando che i predecessori non avevano capito qualcosa, che il passato significava anche arretratezza culturale e che il presente soltanto sapeva trovare il linguaggio migliore perché più evoluto.

Nello stesso periodo, invece, l’arte popolare è rimasta immobile, costretta a trovare in questo suo deliberato rifiuto di ogni trasformazione la sua possibilità di sopravvivere in quanto espressione autonoma senza essere cancellata dall’incalzante processo di omologazione culturale. Questa immobilità dell’arte popolare ha fornito un alibi ai borghesi in cattiva coscienza. Etnologi, musicologi, antropologi ed etnomusicologi, specialmente di indirizzo pseudo-rivoluzionario, hanno potuto così esaltarsi davanti alla supposta purezza e verginità di affreschi votivi o di canti ispirati dalla venerazione per qualche Madonna miracolosa, proponendoli alla curiosità degli altri borghesi come fenomeni da baraccone, reperti sopravvissuti di civiltà estinte, senza nessun rispetto per la dignità umana e culturale delle realtà che si trovavano loro di fronte, mantenute in posizione di inferiorità culturale e anche poetica: i buoni selvaggi irrimediabilmente inferiori.

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Accanto a queste due forme d’arte se ne è venuta, dal diciannovesimo secolo in poi, affermando un’altra: l’arte di massa. L’arte di massa è iniziata coi romanzi d’appendice e coi melodrammi ottocenteschi, possenti e deliranti, spesso, nella loro capacità di coinvolgimento. Aristocratici, borghesi, proletari e persino sottoproletari erano affascinati da storie e da melodrammi espressi in linguaggi letterari e musicali a volte di orrendo cattivo gusto, ma altre volte di indiscutibile valore poetico e di raffinata musicalità. La compresenza nell’arte di massa della buona e della pessima qualità non è che una delle contraddizioni di ogni sistema culturale, mai riconducibile a schemi estetici assolutamente validi.
In seguito, l’arte di massa si è espressa soprattutto attraverso il linguaggio cinematografico esaltando e moltiplicando la possibilità di dirigersi a settori di pubblico sempre più ampi, raggiungendo addirittura tutti, con effetti epici senza precedenti. L’immaginario collettivo si è così da allora nutrito di fascinose figure di attori e attrici, belli e brutti, angelici e rudi, impomatati e sciocchi e le storie proiettate su grandi schermi in sale buie acquistavano la stessa valenza dei sogni Ancora oggi chi racconta un sogno spesso dice: «…a quel punto del film…» Anche la musica si è diretta verso masse sempre più vaste, sono nati i complessi musicali e le grandi orchestre di musica leggera: talvolta proponendo musiche eccellenti, più spesso producendo pessima musica; rumori indecifrabili; e il percorso è giunto oggi alle grandi combinazioni video-musicali proposte negli stadi. L’arte di massa si è venuta sempre più incuneando tra l’arte popolare e quella colta ed oggi ha un rilevante peso culturale ed economico. Dall’arte di massa gli artisti hanno qualcosa da imparare: per esempio a non essere troppo astrusi e chiusi nel loro aristocratico olimpo e ciò vale sia per i raffinati artisti colti, sia per quei narf chiusi in moduli antichi, sempre meno comprensibili al di fuori delle isole culturali in cui stanno abbarbicati. L’arte di massa non solo riesce quasi sempre a coinvolgere trovando denominatori comuni sempre più ampi, ma è in grado di produrre opere quanto mai valide e significative per tutti.

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Queste tre forme di arte: colta, folcloristica e di massa, non sono nella sostanza molto diverse tra loro. L’arte colta, e l’arte di massa seguono però l’evoluzione del gusto, mentre invece l’arte popolare-folcloristica è rimasta e si sforza di rimanere immobile, nel tentativo di mantenere una propria identità. Anche se col tempo cambiano molte cose che stanno alle spalle delle rappresentazioni dell’arte, nella sostanza, i riti dell’arte mantengono i caratteri di sempre. Pur nella varietà e diversità delle culture e delle economie, pare essere dominante una intrinseca, unità dell’arte, che si poggia probabilmente sulla sostanziale identità degli esseri umani. La cosa importante è, a mio avviso, cogliere questa doppia caratteristica di specificità e unità dei fenomeni artistici per tentare una comprensione sempre approfondita, che non sia viziata da una tentazione di appiattimento, ma che non si arresti di fronte all’alibi di una diversità incomprensibile. I diversi significati che la manifestazione dell’arte può assumere in conformità alle diverse situazioni storiche, geografiche ed economiche, non sono in contraddizione col significato che l’arte ha per l’uomo in quanto tale.

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Io credo che tutti gli uomini e le donne siano simili: nelle fantasie, nei desideri e nelle paure. Credo anche che abbiano tutti una uguale dignità. Nel loro essere uguali in quanto uomini sono tutti diversi in quanto individui, ma la diversità non lede la loro integrità di esseri umani. Sentire le culture troppo diverse, troppo distanti l’una dall’altra e credere che un gruppo sociale non possa capire la cultura di un altro gruppo vuol dire sanzionare definitivamente il razzismo. Gli uomini sono diversi tra loro; è inutile profondersi in elogi sul valore dell’intatta natura del buon selvaggio; io ritengo che il buon selvaggio, se mai è esistito, si sia estinto ormai da tempo immemorabile, ancora prima che l’Illuminismo potesse cercare di interessarsi alla sua morale, alla sua cultura e alla sua arte.
Oggi siamo tutti simili anche nel desiderio di potere, nella smania di lottare per la supremazia di un sesso sull’altro; ma la lotta, che pure è una realtà, non deve impedirci di credere che sia possibile la comprensione tra gli uomini. Solo i vigliacchi si arroccano nella comoda posizione di chi si rifiuta di capire. A quegli antropologi che si ostinano ad archiviare reperti raccolti sul campo, che continuano a comportarsi come osservatori estranei alle culture che incontrano, io consiglio di buttare via gli strumenti di cui si servono, perché sono strumenti fasulli in mano a persone dalla falsa coscienza.

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Oggi l’arte che desta più perplessità in chi si ritiene colto, raffinato e anche politicamente accorto è l’arte di massa. La disco-music, le canzonette, le telenovelas che coinvolgono milioni di persone, sono manifestazioni dell’arte o sono l’odierno «oppio dei popoli»? Io non credo che esista una forma di comunicazione che non sia anche oppio, cioè stordimento e suggestione, soprattútto se si rivolge ad un elevato numero di persone. Anche la Cappella Sistina, più o meno malamente restaurata, col suo incombere di nudi, di fiamme, di gesti magniloquenti, di occhi smarriti, suggestiona e turba, condiziona e anche plagia. L’arte è sempre strumento di plagio: risucchia l’uomo e lo porta in mondi stratosferici. Sofocle e Beethoven sono plagiatori sottili, che con il loro potere di suggestione hanno condizionato migliaia e forse milioni di persone. Certo, l’arte di massa di pessima qualità, quella dei film di terz’ordine e delle brutte canzonette, ha influenzato e influenza ancor più dell’Edipo Re o della Grande Fuga per quartetto d’archi, e certamente in senso negativo.
Dove si nasconde allora l’arte? Un’opera d’arte è più grande se suggestiona più persone o se suggestiona solo i pochi privilegiati che ne capiscono il messaggio nascosto?

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Se l’arte è quella dei linguaggi ovvi, banali e tristi, essa è ben povera cosa, ci verrebbe da dire. Ma poi ci ricordiamo di un’esperienza che tutti abbiamo vissuto qualche volta. Un’esperienza che ha colpito molto quelli di noi che si sentono particolarmente disposti alle cose dell’arte e del buon gusto. È l’esperienza di certe sere passate davanti ad un televisore, incatenati a una vicenda sciocca e zuccherosa, che però ci ha tenuti lì fermi, con l’animo turbato, insensibili alle voci che ci richiamavano o al trillo del telefono nell’altra stanza. Da una parte la nostra coscienza ci ripeteva che stavamo vedendo unfilmaccio senza alcun valore estetico, dall’altra il nostro cuore commosso seguiva la storia di quella coppia in crisi, di quel biondo bambino, super-vitaminizzato e con gli occhi azzurri, che piangendo costringeva il papà a tornare sui suoi passi e a stringere sul suo robusto petto la madre e il figlio in un solo abbraccio, e se non proprio una lacrima ci colava sulla guancia, almeno un groppo si formava alla nostra gola. Come è possibile, ci siamo poi detti, che chi sa commuoversi per Tancredi e Clorinda, per la musica di Monteverdi, per le pagine di Musil si sia lasciato coinvolgere da qualcosa di così brutto e stupido? Siamo forse sempre in cattiva coscienza? L’arte vera dove si nasconde e come si riconosce? A me viene il sospetto che l’equivoco possa nascere solo per la pessima educazione che tutti abbiamo ricevuto, per l’ipocrisia cui ci siamo abituati; per la rassegnazione alla banalità di tutti i giorni, che ci hanno formati e che costituiscono il nostro inconscio sociale. Eros, sovrano dell’arte, ci ha detto qualcosa; ma noi siamo ancora assordati dagli altri rumori e nella confusione non abbiamo saputo riconoscere la sua voce, per questo anche viviamo nella contraddizione.

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Noi siamo preda di condizionamenti antichi: messaggi contraddittori ci hanno costituito. L’amore per l’arte non consiste soltanto nel lasciarsi andare, perché allora ci è facile an﷓
che trovarci coinvolti dal ritmo volgare di una canzonetta o di un bacio idiota scoccato con l’accompagnamento di un arpeggio di violini L’amore per l’arte è una conquista che va oltre i nostri stessi desideri: altri desideri debbono sorgere in noi. Siamo ancora troppo malati per saper amare solo ciò che è arte, solo ciò che è bello. Ora lo voglio dire apertamente: arte e bellezza devono coincidere. Non ho finora mai avuto il coraggio di fare questa esplicita dichiarazione, ed ho sempre preferito limitarmi a dire che l’arte è espressività, che essa può rappresentare anche il brutto; ma quelli erano discorsi che facevo a capo coperto, come Socrate, quando cercava di convincere Fedro che è meglio cedere a coloro che non amano che a quelli che amano. Anche Socrate però, dopo essersi scoperto il capo disse al giovane che lo ascoltava attento, sulla riva del fiume, nel canto delle cicale, che, in verità, è bello amare chi ci ama. Io, col capo scoperto, affermo che dobbiamo lottare per imparare ad amare tutto ciò che è bello. L’arte coincide con il bello; può esprimere il brutto, ma nel farlo lo trasfigura e lo rende partecipe del bello. Il brutto non appartiene al mondo dell’arte. L’arte ha il privilegio assoluto di poter parlare del brutto e del male senza esserne intaccata. Come questo sia possibile lo dovete domandare ad Apollo.

Psicoanalisi contro n. 3 – I CAVALLI DI ANTISTENE

mercoledì, 1 dicembre 1993

Gli antichi prima di cimentarsi con la poesia invocavano la divinità. Dante, alle soglie del “Paradiso” invoca Apollo, perché lo assista nel realizzare il suo proposito di narrare ciò che è inenarrabile: dovrà infatti parlare della sua visione di Dio e della Trinità; avrà quindi bisogno di teologia e arte nello sforzo erculeo di raccontare come Dio possa essere visto uno e trino. Dopo tanto sforzo, la sua mente sopraffatta si smarrisce, come “percossa da un fulgore” ed egli si ritroverà a contemplare le più consuete stelle.
È forse più facile parlare delle stelle? Io penso di no; io penso che la divinità sia sempre presente, nelle piccole e grandi cose della terra e del firmamento.
La divinità era partecipe della poesia di Mimnermo come della musica di Bach: il primo smarrito nel timore della vita che passa, il secondo solidamente tranquillo, avvolto in una rete di musica, prigioniero, ma salvo. Dio non ha paura neppure di essere partecipe del quotidiano esistere delle cose ed è lontano solo dagli imbecilli e dai vigliacchi. Ma, oltre che dal dio, da dove sorge l’ispirazione artistica, da cosa nasce l’arte?

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Il romanticismo ha dato all’occidente un importante contributo alla teorizzazione dell’arte; formulando ipotesi sulle sue origini, che pur essendo presenti implicitamente già da secoli nella storia della cultura, pure non erano mai state organicamente puntualizzate. Secondo alcuni teorici dell’epoca romantica, l’arte sorgerebbe dall’inconscio e l’artista sarebbe preda dell’ispirazione; tanto è vero che egli sentirebbe la propria opera sua solo in parte. Dagli abissi delle pulsioni, dei desideri, dai fantasmi dell’inconscio sorge l’arte; la coscienza ne modula l’espressione, la tecnica ne rende possibile l’estrinsecazione e la comunicazione. Fantasie incontrollabili, antiche come l’universo esplodono nell’opera d’arte, e l’uomo, l’artista, ne è quasi sopraffatto: colui che crea è più preda di quanto non sia padrone della sua ispirazione. Questo è anche ciò che, più o meno consapevolmente, crede il senso comune. I teorici romantici nelle loro formulazioni più esasperate (e anche il senso comune) fanno dell’artista una sorta di vittima delle forze inconscie; ma io penso che il loro sia un atteggiamento riduttivo. A tali teorie romantiche sull’arte e sull’ispirazione io preferisco il concetto più grandioso, e forse apparentemente più retorico, di entusiasmo, nel suo significato di presenza sconde dietro l’apparenza delle cose.

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Quella romantica non è stata l’unica riflessione organica sull’arte: parallelamente si è anche pensato che l’arte sia il frutto di un alchimistico dosaggio di principi razionali che tendono al bello, all’equilibrio al sobrio e all’armonico. Secondo queste teorie, l’arte non deve essere Sturm und Trang, ma deve essere razionale e consapevole ricerca della misura. Ma non solo.
Contrariamente a quanto comunemente si crede però la ragione non è mai completamente razionale; anzi, io credo sia quanto di più irrazionale esista nell’essere umano. La ragione è una forma di emozione; è un inganno quello che ci fa credere che la razionalità coincida con la coscienza. Scegliere la razionalità significa scegliere un modo d’essere e la ragione è uno strumento che può servire a dirigersi nel mondo; ma non è la luce fredda e obiettiva che illumina senza incertezze: è una luce ambigua e confusa come l’essere umano che l’ha scelta.
I teorici appestano da secoli l’aria con le loro elucubrazioni imbelli intorno all’arte. C’è chi vuole l’arte spontanea, viscerale, gesto irripetibile che mira ad un’espressione unica e che troverebbe nella performance estemporanea, nell’happening la perfetta espressione. Il risultato più evidente è che così si è permesso che pseudo-artisti di ogni arte si sentissero autorizzati a vomitare sul pubblico la loro incapacità di parlare, di dipingere, di suonare, di raccontare, di sognare, di far innamorare.
Ci sono altri che sostengono invece che l’arte sia soprattutto tecnica e ricerca. Questa tendenza ha dato via libera alle ipotesi più insulse, specialmente nei campo dell’architettura e delle arti ad essa applicate. Si è così affermata in modo brutale, violento ed oscurantista una forma di taylorismo adattato agli edifici e agli oggetti d’uso, nell’intento di permettere il maggior numero di gesti nel minor tempo possibile. In nome della funzionalità si sono concepite città e arredi prodotti in serie, col risultato che vivere in posti dove il funzionalismo è massimamente applicato è come essere morti, perché ogni spazio è tolto all’autonomia dell’entusiasmo, nel suo significato di presenza sconde dietro l’apparenza delle cose.
della divinità in noi.

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Quella romantica non è stata l’unica riflessione organica sull’arte: parallelamente si è anche pensato che l’arte sia il frutto di un alchimistico dosaggio di principi razionali che tendono al bello, all’equilibrio al sobrio e all’armonico. Secondo queste teorie, l’arte non deve essere Sturm und Trang, ma deve essere razionale e consapevole ricerca della misura. Ma non solo.
Contrariamente a quanto comunemente si crede però la ragione non è mai completamente razionale; anzi, io credo sia quanto di più irrazionale esista nell’essere umano. La ragione è una forma di emozione; è un inganno quello che ci fa credere che la razionalità coincida con la coscienza. Scegliere la razionalità significa scegliere un modo d’essere e la ragione è uno strumento che può servire a dirigersi nel mondo; ma non è la luce fredda e obiettiva che illumina senza incertezze: è una luce ambigua e confusa come l’essere umano che l’ha scelta.
La psicoanalisi ha scoperto la razionalizzazione ed ha usato questo termine in modo quanto mai appropriato per defmire l’inganno della ragione.
Razionalizzare vuol dire parlare d’altro: parlare di giustizia quando in realtà si dovrebbe parlare di invidia e di vendetta, parlare di odio quando forse si dovrebbe parlare d’amore e viceversa.
È una razionalizzazione quella della signora grassissima che dice: «Io non vado in spiaggia perché fa troppo caldo» Invece di dirsi che non ha il coraggio di spogliarsi in pubblico. Il mare, la sabbia, il cielo e le nuvole sono là che l’aspettano inutilmente…
L’uomo purtroppo ha imparato ad usare con facilità la razionalizzazione.
Tutti dovrebbero essere capaci di andare oltre e vedere cosa si nasconde dietro l’apparenza delle razionalizzazioni; ma a questo fine non basta neppure la ragione: è l’uomo, con tutte le sue facoltà che deve imparare a conoscere cosa si na I teorici appestano da secoli l’aria con le loro elucubrazioni imbelli intorno all’arte. C’è chi vuole l’arte spontanea, viscerale, gesto irripetibile che mira ad un’espressione unica e che troverebbe nella performance estemporanea, nell’happening la perfetta espressione. Il risultato più evidente è che così si è permesso che pseudo-artisti di ogni arte si sentissero autorizzati a vomitare sul pubblico la loro incapacità di parlare, di dipingere, di suonare, di raccontare, di sognare, di far innamorare.
Ci sono altri che sostengono invece che l’arte sia soprattutto tecnica e ricerca. Questa tendenza ha dato via libera alle ipotesi più insulse, specialmente nei campo dell’architettura e delle arti ad essa applicate. Si è così affermata in modo brutale, violento ed oscurantista una forma di taylorismo adattato agli edifici e agli oggetti d’uso, nell’intento di permettere il maggior numero di gesti nel minor tempo possibile. In nome della funzionalità si sono concepite città e arredi prodotti in serie, col risultato che vivere in posti dove il funzionalismo è massimamente applicato è come essere morti, perché ogni spazio è tolto all’autonomia del gesto.
Nel concetto dell’arte funzionale l’uomo è divenuto il mezzo che serve a sperimentare le teorie sull’addestramento delle scimmiette.
Mi torna in mente la vecchia frase di I. Kant: «Opera in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine, mai come semplice mezzo».
Il fine deve essere anche la piacevolezza della vita, e la vita è bella quando è bella. È una tautologia? Allora ben vengano le tautologie!

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Vi sono stati anche coloro che hanno parlato dell’arte «utile». Utile a chi e a che cosa? Probabilmente utile a nessuno, visto che un esito di quella ricerca estetica fu quello di avanzare il dubbio che fosse venuto il tempo della morte dell’arte. «L’arte deve morire» si diceva negli ambienti del costruttivismo di Gan e Lissitsky, ovviamente pensando non tanto alla morte dell’arte in assoluto, ma dell’arte secondo loro non immediatamente finalizzata ad altri scopi più pratici.
Parlare della morte dell’arte, come è stato fatto anche più recentemente in America ed in Europa, non ha senso: l’arte c’è perché c’è l’uomo. Possono morire gli uomini ed esaurirsi le formule artistiche; ma finché ci sarà un uomo sulla terra l’arte vivrà con lui, perché l’umanità ha bisogno di non cedere al peso dei propri sogni. L’uomo deve rifiutarsi di sognare soltanto: deve voler anche essere aedo e musico, pittore e scrittore, attore e spettatore, che comunica i suoi pensieri ad altri e che si ritrova nelle fantasie di altri come lui. L’arte è bella anche perché non è immortale; essa vivrà solo finché ci saranno uomini capaci di cantare una canzone, di narrare una storia con le parole, con le immagini o con la musica.

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Ci sono stati poi coloro che per salvare l’arte hanno teorizzato l’arte totale. Con assoluta ingenuità, poiché l’arte è sempre totale. Ogni opera d’arte è opera totale. Vogliamo mescolare insieme musica, danza, pittura? Il risultato non sarà più totale di quanto sia espressione di arte totale il bicordo do-mi bemolle: lo sento risuonare tenero all’orecchio e sento il mi bemolle che lentamente sale al mi; terza minore-terza maggiore: in tre note è contenuto l’universo intero; proprio come nella più totale delle rappresentazioni. Del resto siamo da sempre avvezzi a sentir parlare di colore dei suoni, ritmo delle figure, plasticità delle parole, e così via, che solo una eccessiva accondiscendenza a pedanti e accademiche suddivisioni dell’arte in campi di competenza, può averci fatto scordare che l’arte è stata sempre e per tutti fenomeno totale, diretto a tutti i sensi, anche se privilegiandone in apparenza, di volta in volta, alcuni su altri.

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C’è chi vede nell’aspetto tecnico il raggiungimento della razionale consapevolezza dell’arte. La tecnica è fondamentale per l’arte; nessun artista può dirsi tale se non ha acquisito una grande capacità tecnica nell’arte sua; chi non ha una propria tecnica è un parassita dell’arte e sfrutta il mondo intorno a lui ed è biasimevole anche come uomo. La tecnica è quindi indispensabile, ma non coincide con la forma: l’espressione dell’arte non può infatti scindersi in forma e contenuto; la forma è contenuto come il contenuto è forma. Quando si parla per esempio della forma-sonata, si parla di una struttura; ma la forma-sonata non esiste di per sé: esistono solo le singole sonate. Vuol dire questo mio discorso che io sono un vecchio filosofo cinico e anti platonico? Sono io uno di quelli che dicono che non esiste la cavallinità ma soltanto i cavalli? Certo che esistono i cavalli e che essi partecipano della cavallinità. Dove si trova allora la cavallinità? Nel cuore del filosofo. Dove si trovano le idee dell’arte: la forma e il contenuto? Io credo che si trovino nel cuore dell’artista. Perciò, lasciando da parte Platone e il cinico Antistene io dico che esistono questo e quel quartetto d’archi, che hanno scelto la forma in cui si realizzano e la forma diventa contenuto. Così le ambigue sonate beethoveniane, con quegli inizi preludianti, ambigui anche tonalmente, sono una nuova forma. Fanno parte della forma sonata o la contraddicono? Ma questo interrogativo verte già sul contenuto non meno che sulla forma. Quindi la forma è la possibilità dell’espressione ed allo stesso tempo è già l’espressione. Come si può distinguere la capacità di esprimere dall’espressione? Io tengo le dita sulla tastiera perché così voglio e questo ho imparato a fare, oppure perché so fare soltanto così? La tecnica non è coscienza, è questo ben lo sanno i musicisti, che tanto più si concentrano sull’aspetto tecnico e tanto più rischiano errori di esecuzione. Concentratevi sul mignolo della vostra mano destra ed ad un certo punto il mignolo non saprà più che cosa fare e rimarrà sospeso in aria: si bemolle… il tempo va perduto e il discorso si inceppa.. La tecnica ha bisogno anche dell’inconscio.

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Quindi l’arte non sorge dall’inconscio, e non è neppure nell’equilibrio della ragione; non si identifica con l’acquisizione di una tecnica, ma è nella persona tutta intera. L’arte non può essere solo espressione dell’inconscio perché non saprebbe comunicare ed invece l’arte comunica: dice, parla, travolge, coinvolge, stravolge, ama ed odia.
L’arte non può neanche coincidere con la coscienza, che pure è un’aspetto dell’emotività, un’emotività però tanto consapevole che si smarrisce e si contraddice non appena si guarda allo specchio. L’arte è il luogo in cui la coscienza diventa inconscio e l’inconscio diventa coscienza: questa sembra una frase molto sciocca e un po’ banale; ma è il solo modo in cui riesco a dire che l’arte non sorge da un aspetto della persona che la crea: conscio o inconscio; ma da tutta la persona nell’insieme delle sue facoltà; per questo non può scindersi in parti come forma o contenuto, poiché non c’è una parte senza l’altra e come l’uomo è fatta dall’insieme delle sue parti.

Psicoanalisi contro n. 3 – IL DIAVOLO NELL’INCONSCIO

mercoledì, 1 dicembre 1993

Risconoscere in noi la presenza dell’inconscio dà spesso fastidio, procura un disagio filosofico e politico. L’inconscio infatti è espropriatore. Se l’essere umano pensa che un’entità ignota lo condizioni in qualche modo, o almeno influenzi il suo agire consapevole, gli sembra che la sua libertà di scelta e la sua stessa responsabilità personale vengano messe in crisi. È insopportabile il pensiero che le lotte per i propri ideali, la serietà dell’impegno, la lucida analisi della situazione sociale, siano anche frutto di rabbie, invidie e frustrazioni, sprofondate nell’inconscio magari da tempo immemorabile. Che cosa diventano l’atto di eroismo e l’abnegazione spinta fino al sacrificio di sé, quando si rivelino nascere da un desiderio inconscio di esibizionismo, da un delirio di onnipotenza? Cosa resta del sentimento religioso, se viene spiegato con un bisogno profondo e infantile di dipendere da un padre potente, che tuteli contro l’ignoto e difenda dalle avversità? Se tutte queste costruzioni ideali non sono che razionalizzazioni di sentimenti inconsci, abitualmente considerati ignobili, la loro scoperta non può che rendere squallido e sciatto il vivere dell’uomo. L’uomo si ribella quindi a quest’idea: generali, arcivescovi e rivoluzionari affermano che l’inconscio non esiste e che le loro medaglie, le loro preghiere e le loro rivoluzioni nascono dall’adesione pura ad un’idea, chiara e consapevole. Si origina la condanna politica, morale e religiosa di quella pretesa scienza, che osa parlare dell’inconscio, che su di esso fonda la propria ragion d’essere, che si propone di andarne alla scoperta e di metterne in luce almeno una parte. Eppure, quando si analizzano le gesta o le vicende dei popoli e dei singoli individui del passato, o le azioni degli avversari del presente, molto spesso si afferma che le motivazioni del loro agire risultano ben diverse da quelle dichiarate. Qualcuno potrà ribattere che queste motivazioni non dichiarate sono, però, ben consapevoli, ma taciute, da condottieri, papi, carbonari e masse popolari Non è difficile dimostrare che le masse si muovono, per lo più, inconsapevolmente: sia il credente Manzoni, sia l’ateo Marx lo hanno fatto, dichiarando che esse sono mosse da bisogni e fantasie di cui non conoscono la vera natura, che la fame e la paura, insieme al desiderio di benessere, sono state le cause prime dei grandi sommovimenti sociali, tanto nella Milano del Seicento, quanto nella Germania dell’Ottocento. Si quconclude, dalle affermazioni di entrambi, che l’inconsapevolezza regna sovrana nelle collettività. Un gruppo sociale o una classe possono essere paragonati ad un organismo individuale: anche qui di consapevole c’è ben poco; ciononostante l’organismo si muove, dirigendosi da una parte piuttosto che dall’altra, operando scelte. Sembra meno evidente che motivazioni inconsce muovano i gesti dei singoli individui; ma non sono proprio questi che compongono poi quelle masse la cui inconsapevolezza pare tanto chiara?

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Anche la scienza ha spesso paura dell’inconscio. Gli specialisti biologi, astronomi, fisici e persino quegli studiosi della psiche che vorrebbero, ridicolmente, che essa coincidesse col sistema nervoso, hanno orrore dell’inconscio e guardano con sospetto i teorici della psicoanalisi che, spudoratamente, ne affermano l’esistenza e, temerariamente, propongono l’avventura in una così pericolosa foresta. Si arriva a sostenere che le ricerche psicoanalitiche non siano scientificamente fondate, perché non sperimentali. Questa affermazione è assolutamente gratuita: l’analisi dell’inconscio ha una sua area di sperimentazione, anzi- si basa esclusivamente sull’esperimento e sul confronto fra i vari esperimenti. Già la fisica del Novecento aveva fatto notare come resti sempre un diaframma tra la verità della cosa in sé e la verità scientifica, in quanto l’oggetto studiato è sempre esaminato attraverso uno o più strumenti che, in qualche modo, sempre, per precisi che siano, ne modificano la reale percezione. Io soggiungo che ogni strumento è non soltanto un filtro deformante, ma è costruito in modo da prefigurare la struttura dell’oggetto che, col suo aiuto, si vuole cercare e trovare. Ciò spiega, in parte, perché la storia della scienza non sia una storia di verità, ma piuttosto una storia di confutazioni e smentite, per cui quello che ieri era vero, oggi non lo è più e quello che ieri era considerato falso da chi guardava con sufficienza all’altro ieri, è oggi nuovamente convalidato.
Eppure il mondo non è soltanto la mia rappresentazione!
Ogni scienza trova quello che vuol trovare e cerca ciò che vuol cercare. L’universo si rinnova ad ogni teoria scientifica e, con esso, anche l’uomo.
La psicoanalisi – o, più propriamente: la scienza che ricerca l’inconscio – non può essere esente dai dubbi e dalle incertezze di ogni altra scienza. Ci si propone consapevolmente di studiare l’inconscio ma la coscienza è a sua volta mossa dal l’inconscio – questo è un assioma della psicoanalisi – quindi il conscio troverà ciò che l’inconscio vuole che si trovi. È possibile allora che il conscio riesca mai a trovare l’inconscio? La psicoanalisi è una possibilità?

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In senso stretto, la psicoanalisi è una scienza impossibile, in quanto la psiche, come realtà cosciente e inconscia, è un’astrazione; e sarà sempre così, finchè vivremo in quella che il Foscolo amò definire: «…bella d’erbe famiglia e d’animali…» e finché l’essere umano sarà fatto in questo modo: con questi occhi, queste mani, questa corteccia cerebrale e questi sogni. Eppure ci sono prove lampanti dell’esistenza dell’inconscio. I lapsus più banali, spesso, costringono l’uomo a rendersi conto di pensieri e desideri che covano sotto la soglia della coscienza e che un fortuito incidente, l’uso di una parola per l’altra, fanno esplodere clamorosamente. Una ragazza un giorno chiamò un amico con un altro nome, un nome che per lei non voleva dire assolutamente niente: nosco nessuno con questo nome – aveva detto – non ho mai conosciuto nessuno che si chiamasse così». Lentamente, in lei fiorì per l’amico un amore intensissimo. Rimaneva inspiegabile la presenza di quel nome che, ogni tanto, tornava tra loro. Parlando una volta con la madre, il discorso cadde sul periodo della sua prima infanzia e si sentì dire: «Ti ricordi…?» e udì la madre pronunciare quel nome misterioso. Lei sobbalzò domandando: «Chi?» La madre le rispose: «Ma come, non ti ricordi, eravamo al mare: è stato il tuo primo amore…» Come attraverso una nebbia le si disegnò nella mente un volto che per anni era rimasto sepolto e venne il ricordo di quelle lontane sensazioni di bambina, scaturirono altri ricordi e, fortunatamente, l’amore del presente fu rafforzato da quell’amore recuperato dal passato.

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Ci sono anche gli atti mancati, i sintomi nevrotici e poi ancora i deliri della follia, realtà che un’analisi limitata al razionale non basta a spiegare. Sia la depressione, sia il furore maniacale, non sono spiegabili soltanto con l’assenza o la presenza di sostanze nell’organismo. Perché proprio quelle fantasie, quelle allucinazioni, quelle paure quei sogni?
L’inconscio non è solo dentro di noi, è anche tra noi e gli altri, perché è il frutto di esperienze e fantasie che non sono mai del tutto individuali, ma nascono sempre in relazione o in presenza di qualcuno o di qualcosa. Questa sua ineludibilità, macroscopicamente evidente e legata al rapporto con l’altro, fa sì che l’inconscio sia percepibile più di qualsiasi altra realtà quantificabile.

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Gli artisti hanno sempre avuto un duplice atteggiamento nei confronti dell’inconscio. Alcuni vi si sono abbandonati e vi si abbandonano nella convinzione di esprimere così un’arte più profonda, capace di superare le barriere della convenzione e della riduttiva razionalità. Altri, timorosi dell’inconscio hanno voluto ignorarne l’inquietante presenza. Ma i prodotti artistici non sono risultati, per la sola ragione di aver operato una scelta oppure l’altra, gli uni migliori degli altri. In ogni caso, né gli uni, né gli altri hanno potuto eludere davvero la realtà dell’inconscio.
C’è però un compito che l’arte può assolvere, superando in ciò i limiti della scienza, anche di quella che studia l’inconscio.
Gli artisti possono insegnare agli uomini, e agli studiosi della psiche, che l’inconscio non è solo un serbatoio di vergognose brutture. Se pure molte fantasie e molti desideri sono stati rimossi, cioè ricacciati nell’inconscio perché offendevano quello che comunemente s’intende sia il senso della decenza, non sono necessariamente da identificare con il cosiddetto «male». A volte, con le viltà, i pregiudizi, gli sciocchi esibizionismi, vengono rimossi anche desideri che proprio la viltà e i pregiudizi e gli esibizionismi di un banale perbenismo hanno voluto soffocare; vengono rimosse così la ricchezza dell’erotismo, la grandiosità della spregiudicatezza, vengono soffocati grandi gesti d’amore e di eroismo Gli educatori, i ben pensanti e i mezzi di comunicazione di massa, hanno, più o meno consapevolmente, voluto insegnare ed imporre la viltà, esaltando solo eroismi funzionali ai principi dominanti. Ecco allora che l’inconscio del bene si scontra con l’inconscio del male. L’arte ha la possibilità, liberando tutto questo, di insegnare agli uomini che nell’inconscio c’è almeno tanto bene quanto male; che nell’immensità dell’universo e nell’intimità dell’anima umana esiste Eros, che è dio dell’amore. Basta saperlo scoprire, a dispetto di tutti quelli – potenti e non potenti – che, per timore di veder minacciata la propria presuntuosa purezza, riducono la mente umana ad una sequenza di sillogismi consapevoli e negano l’inconscio, perché temono che in esso si annidi il diavolo. Questo non è vero: io ritengo che l’essere umano venga da lontananze profonde e che il primo dio sia stato il dio dell’amore.

Psicoanalisi contro n. 3 – IL SI BEMOLLE DORATO

mercoledì, 1 dicembre 1993

Una persona che, tempo fa, era in analisi con me, mi raccontò di una sua precedente esperienza psicoterapeutica, interrotta un po’ bruscamente, per la reciproca insofferenza e profonda avversione venutesi a creare nel rapporto analitico.
Il paziente in questione era un musicista e, come spesso accade ai cultori di quest’arte, era un po’ chiuso nei confini del suo mondo sonoro: si esercitava allo strumento, andava alla ricerca di brani inediti o poco noti del passato, possedeva un’ottima preparazione filologica, in particolare sul periodo di cui si considerava uno specialista, oltre che una grande conoscenza di tutta la storia della musica. Suonava, leggeva e ascoltava musica, studiava su trattati e partiture preparava con cura i suoi concerti, scriveva per alcune riviste musicali: il suo mondo era, ed è tuttora, la musica. Un mondo vasto, immenso, uno smisurato universo, con tanti soli, costellazioni e cose ancora ignote e meravigliose da scoprire. Spesso però questo universo è rinchiuso in barriere molto rigide e compatte, poco permeabili da altre realtà, e spesso il musicista vive nel suo mondo, restando un po’ troppo assorbito da questo linguaggio. Ciò si percepisce talvolta in esecutori ed interpreti, compositori e direttori d’orchestra, e le loro stesse esecuzioni e composizioni ne risentono negativa-
mente. La musica deve sorgere, certamente, da uno studio accurato e approfondito, da esercizi tecnici assillanti e ossessivamente ostinati, ma deve scaturire anche, oltre che dalle profondità abissali dell’animo umano e dell’universo, dal quotidiano confronto con la realtà; e questo credo valga per ogni arte.

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Ritornando alla persona che era in analisi conme: mi raccontò del precedente analista che, dopo aver cercato di mostrarsi indifferente, non riuscì più a non manifestare la sua insofferenza per quei discorsi che non capiva; anche per questo l’analisi si era interrotta. In effetti raccontava i suoi sogni in termini inconsueti: «…ho visto un gran mi bemolle blu e poi un sol alla distanza di una terza maggiore, e poi un si bemolle dorato, una terza minore…». E giù una valanga di parole sui significati che per lui aveva il mi bemolle maggiore: «…il sol schizzò lontano, alla distanza di due ottave… i rivolti… una cadenza…». Seguivano lunghe associazioni su alcune difficoltà tecniche della diteggiatura, su certi abbellimenti, sui registri: «…abbellimenti, bellezza… registri, registri di scuola». E via con lunghe descrizioni della meccanica dello strumento, antico e affascinante, i problemi di accordatura; e poi, subito dopo aver parlato di un ragazzo basso: «…il basso continuo…». Se non parlava di musica, improvvisamente non sapeva più di che parlare; o meglio: le cose che riusciva a dire non erano mai quelle che realmente gli erano affiorate per prime alla mente. Se si lasciava andare ai suoi pensieri, pensava alla musica, al suo strumento, ai concerti, a vecchi fogli ingialliti.
Spesso, seduttorio, soggiungeva: «Come è bello che con lei, che è musicista come me, io possa parlare tranquillamente di tutto questo. Lei mi segue e non la sento irritato». Debbo dire che qualche volta ci scappavano vivaci discussioni su problemi di tecnica od estetica musicali che, forse, con l’analisi avevano poco a che fare, ma riuscivamo comunque a recuperare tutto, anche mie e le sue resistenze, e il lavoro poté proficuamente continuare.
Aveva iniziato l’analisi con me, con affrettato entusiasmo, senza neppure aver letto nulla di mio e senza avermi mai ascoltato, soltanto perché gli avevano detto che io ero un musicista.
Sentii però come una vittoria il giorno in cui mi accorsi che le barriere di quell’universo musicale si stavano abbassando e il mondo irrompeva, con inarrestabile intensità, con la ricchezza di una realtà fatta anche di cose che non erano solo musica.

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Io non ho mai creduto e non credo che si debba necessariamente essere musicisti per fare psicoanalisi con un musicista, perché allora lo stesso problema si porrebbe con un fisico nucleare, con un pescatore o con un motorista, con un chimico o un odontotecnico: tutti infatti avrebbero bisogno dell’analista specializzato nella materia. Vi possono essere indubbiamente esperienze di vita o culturali che allontanano il terapeuta dal paziente, ma non vi si può rimediare pensando a un analista con una conoscenzaenciclopedica. Èvero però che più l’ analista sa, meglio può svolgere il proprio lavoro. Giova a questo fine la curiosità del terapeuta verso il mondo e tutto ciò che il mondo può contenere, verso gli uomini e l’infinita possibilità delle diverse situazioni esistenziali, dei diversi linguaggi con cui l’umanità si esprime. La curiosità deve portare lo psicoanalista a scrutare, con abbandono quasi totale, ciò che gli sta intorno e a risentirne l’eco dentro di sé.
Proprio per questo, l’analista troppo chiuso nel mondo della sua scienza, non solo non è un bravo psicoanalista, ma neppure esiste come psicoanalista: non c’è. Perché la psicoanalisi è scienza dell’uomo e l’uomo non è un’entità astratta- è sempre questo o quell’uomo, inserito in questo o quel gruppo sociale, che ha avuto queste o quelle vicende. Lo psicoanalista deve sapere imparare, quando ancora non sa, dalle esperienze dei propri pazienti. Ecco perché l’arte è quanto mai utile. Sono utili anche l’astronomia e la cibernetica: tutto giova all’analista, ma è fondamentale che egli sappia cogliere il significato dell’esperienza artistica. Non tanto perché così sarà meglio in grado di gestire analisi con pazienti artisti, conoscendone le problematiche poetiche, estetiche e tecniche e l’influsso che hanno sulla vita quotidiana, ma perché solo se sarà capace di immergersi profondamente in questo duplicato del mondo che è l’arte, saprà riconoscere questo duplicato dell’arte che è il mondo.
Non credo che sia nata prima l’arte e poi l’uomo o prima l’uomo e poi l’arte.

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L’espressione artistica è nata con l’uomo: l’uomo è un’opera d’arte, o meglio: l’uomo si esprime e si costruisce attraverso la ricerca dell’espressione artistica. Nessun gesto è privo di finalismo; non è vero – come si diceva un tempo – che i bambini prima si muovano in modo scoordinato e poi lentamente coordinino i gesti dando loro un significato e uno scopo. Ogni gesto, anche il più «istintivo», è inserito in una organizzazione teleologica; ma il fine è sempre il soddisfacimento di un piacere che già il gesto in sé tenta di realizzare; se così non fosse, non potrebbe neppure avere inizio il gesto. Il piacere del gesto è quel di più, apparentemente inutile e quindi assolutamente essenziale, che fa sì che, con quel gesto, si esprima qualcos’altro che il semplice tentativo di raggiungere lo scopo. Ogni gesto erra per un momento nell’aria, come per raccontare una storia, per dire ad un tempo ciò da cui trae origine e ciò cui tende.
L’arte, allora, sarebbe «raccontare storie»? Ma che cosa è la vita umana se non una grande e tragicomica storia? Se l’arte è un gesto che racconta la vita, o meglio: che fa diventare vita il racconto, come fa la musica, che con puri suoni si articola in vicende e conosce avventure, è allora un momento di disimpegno, di piacere fine a se stesso?
Non ha senso distinguere tra piacere e piacere fine a se stesso: ogni piacere è fine a se stesso. Si potrebbe dire allora che l’arte è autocentrica, che non ha altro scopo al di fuori di sé, a differenza, ad esempio, della scienza, che tende a realizzare qualcosa che è al di fuori.
In questo senso, la psicoanalisi – che è scienza – sarebbe quanto mai lontana dall’arte, e tutte le scienze sarebbero cose diverse e lontane dall’arte.

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L’arte, come la scienza, parte dall’uomo e ritorna all’uomo: racconta una storia verosimile, né più né meno di quanto faccia la scienza. Dov’è infatti l’obiettività della scienza, se non nell’illusione degli scienziati? L’arte inventa un mondo che, almeno per un poco, ha una sua autonoma validità: un agglomerato di suoni, colori, forme, parole e gesti che è vero, non perché imiti la realtà, ma perché ha una sua verità che permette all’uomo di capire qualcosa di se stesso, del suo presente e del suo futuro. Lo stesso fanno gli scienziati, quando parlano delle stelle e degli atomi. Èvero che, ad un certo punto, le strade dell’arte e della scienza divergono: diversi interessi e diversi modi di esprimersi determinano le scelte. La psicoanalisi ha la possibilità, e il dovere, di snidare la cattiva coscienza di tutti, ma deve poi avere l’umiltà di rimettersi in riga e permettere che l’arte dica quello che lei non saprà mai dire; né dell’uomo, né del mondo.
Solo se lo psicoanalista sarà così curioso da voler guardare il mondo, cercando di capire, poco o tanto, la realtà dell’arte, potrà sperare di andare oltre i limiti angusti di una piccola scienza, per diventare uomo capace di curare se stesso e di prendersi cura degli altri.

Psicoanalisi contro n. 3 – I GIRASOLI

mercoledì, 1 dicembre 1993

Ormai non si può più dire che la psicoanalisi sia alla moda: è una acquisizione della cultura del nostro secolo, ha un suo posto ben preciso e saldo nella storia e nella scienza. Non si può neppure più dire che esista «una psicoanalisi» o «la psicoanalisi»; le correnti psicodinamiche sono molte, si fondano su teorie spesso diverse tra di loro e hanno metodi di intervento terapeutico per nulla uniformi. Il comun denominatore di tutte le psicoanalisi consiste nel riconoscimento dell’inconscio e nel tentativo di descriverlo. Dire che l’inconscio si possa descrivere sembrerebbe una contraddizione, ma il secondo postulato della psicoanalisi è proprio quello della descrivibilità dell’ inconscio. Ogni descrizione dell’inconscio è, sempre, anche un po’ una invenzione: così capita all’oggetto di qualunque scienza. Il complesso degli astri o la intrinseca struttura della materia sono frutto di una descrizione che anche li inventa. Proprio per questo, la scienza non è immobile: la verità non è mai stata detta una volta per tutte, ciò che era vero ieri oggi non lo è più, e domani altri diranno altro. La ricerca umana non si può arrestare, nonostante i sistemi, i dogmi, i roghi e le inquisizioni.
L’inconscio, però, trascende, sempre, ogni sua descrizione: affonda nel mistero, come nel mistero affonda il significato della vita. Coloro che, con ansia rabbiosa, sostengono che non esiste l’inconscio, ne dimostrano l’esistenza proprio con la loro ansia e con la loro rabbia. Per qualche ragione inconscia, essi hanno paura
dell’inconscio, e, di conseguenza, hanno paura della psicoanalisi, di qualunque psicoanalisi, perché hanno paura di ciò che nell’inconscio si nasconde. Per lo più sono i desideri che spaventano; sembra strano, ma è così. Sono molti, anzi troppi, i desideri che mettono ansia, ma nonostante ciò essi urgono, spingono per manifestarsi, per realizzarsi. Ogni volta che incontro qualcuno che, con pochi o con tanti strumenti culturali, aggredisce la psicoanalisi, io mi domando sempre da che cosa si difenda e quali siano i desideri che vorrebbe allontanare da sé.

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Le accuse che si fanno alla psicoanalisi sonostate e sono molte; una delle più diffuse è che la psicoanalisi non sia una scienza perché non si basa su ricerche di laboratorio e su esperimenti. Questa asserzione dipende da una concezione della scienza quanto mai antiquata e settoriale: allora bisognerebbe espungere dal complesso delle scienze anche l’antropologia e la matematica pura che non usano laboratori di ricerca scientifica tradizionali e i cui esperimenti sono quanto mai anomali. La scienza è soprattutto, e forse esclusivamente, ricerca. La ricerca deve inventare continuamente nuove metodologie, che servano ad affondare sempre più lo sguardo nel mistero. Gli oggetti su cui ogni scienza indaga acquistano però caratteristiche conseguenti al tipo di metodologia usata. Lo scetticismo anti-dogmatico è quanto mai utile ad uno scienziato: gli permette di non chiudersi e di non ripetere sempre formule che diventano sterili giaculatorie. Solo coloro che hanno il coraggio di andare ancora avanti, costruiscono nuove verità, perché scoprono nuovi terreni inesplorati.

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Altri, pur non rifiutando gli assunti teorici della psicoanalisi, se ne difendono attribuendole uno strano potere fascinatorio, che sarebbe particolarmente pericoloso nel rapporto terapeutico. Costoro dicono che la psicoanalisi passivizza, e affermano, nella loro ingenua saggezza, che i problemi uno se li deve risolvere da solo, con la sua forza di volontà e che non bisogna delegare un altro.
Lo psicoanalista è percepito come un individuo minaccioso e la sua tecnica è considerata pericolosa quanto una potente droga. A sostenere questa teoria, per lo più, sono persone estremamente dipendenti: dalla moglie, dal marito, dalla madre, dagli amici, dai superiori, dai figli; quindi è comprensibile che abbiano paura della loro stessa facilità a diventare dipendenti. Questa loro paura esprime anche il timore che qualche cosa possa renderli indipendenti, perché la psicoanalisi è soprattutto un mezzo per acquistare un po’ di autonomia. Certamente la indipendenza assoluta non ci sarà mai- nessun uomo è libero dai sottili intrighi che la vita gli tesse. L’essere umano si forma lentamente nel ventre della madre e, fin d’allora, emozioni e suggestioni, più o meno filtrate, entrano in lui e lo costruiscono. Il bambino riceve, dagli adulti, stimoli e suggerimenti che lo coinvolgono; ma egli è alla ricerca di una sua individualità. Il neonato non è più dipendente dagli altri di un adulto:
semplicemente, la sua dipendenza ha caratteristiche peculiari. Gli altri ci influenzano continuamente, se così non fosse, non solo sarebbe triste vivere, ma sarebbe anche impossibile. L’unica indipendenza che l’essere umano può sperare di raggiungere è quella della comprensione. Prendere coscienza significa capire un po’ le motivazioni dei nostri comportamenti. Se poi i meccanismi di condizionamento ci tolgano del tutto il libero arbitrio non sarà mai possibile scoprirlo. Qui, sul foglio di carta, non si capisce; ma, dopo l’ultima frase che ho scritto, mi sono alzato e sono andato a bere: ho aperto il frigorifero e ho riempito il bicchiere di acqua leggermente frizzante, ho bevuto, lentamente, assaporando il piacere di quelle fresche bollicine che mi titillavano il cavo orale e poi la gola. Adesso sono di nuovo qui, nel mio studio che scrivo: avrei potuto non alzarmi e non andare a bere? Per esserne certo, uno sperimentatore dovrebbe farmi tornare indietro nel tempo e ripormi nell’istante in cui ho scritto: «Se poi i meccanismi di condizionamento ci tolgano del tutto il libero arbitrio non sarà mai possibile scoprirlo». E verificare così se avrei potuto resistere al leggero impulso della sete. Credo che questo sia un esperimento molto difficile a realizzarsi. Ma, allora, io credo negli esperimenti? Certo, io sono uno scienziato. E come tutti gli scienziati sono anche un po’ sciocco e frivolo.

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Un po’ di tempo fa, verme alla moda tra coloro che ideologicamente si ritengono appartenenti a quello strano magma umano che si chiama «sinistra», una affermazione quanto mai balorda, che diventò subito uno slogan: «La psicoanalisi è una scienza borghese».

Questa frase riflette la più ottusa imbecillità difensiva. È umano avere paura dei propri desideri ed anche delle novità, ma è eccessivo diventare così sciocchi. Il rifiuto non si riferiva infatti alla psicoanalisi come teoria freudiana, ma alla psicologia dinamica, nel suo insieme. Bisogna riconoscere che nel pensiero del grande viennese esiste una visione del mondo, una concezione dell’uomo, una teoria della scienza e quindi anche una visione dell’intervento terapeutico che dipendono dalla sua cultura ed anche dalla classe sociale cui apparteneva. Ma Freud ha detto cose meravigliose che possono essere usate contro gli stessi fondamenti della società che egli rappresentava e che pensava di sostenere. Inoltre, far coincidere la psicoanalisi con il pensiero freudiano, dimostra una povertà spirituale e culturale sconsolante. Non si può e non si deve ridurre l’indagine sulle dinamiche psichiche a quelle teorizzazioni. La ricerca è proseguita, si è evoluta e si è sviluppata.
Nei confronti del disagio mentale, secondo me, hanno senso solo due atteggiamenti: il primo, che io considero politicamente e moralmente empio, cui però riconosco una certa coerenza interna, è quello di chi si astiene da ogni intervento terapeutico, dicendo: «Io mi rifiuto di curare perché non voglio manipolare gli altri. Non voglio intervenire sulle angosce, sul malessere e sulle scelte di un altro». Allora, chi assume questo atteggiamento; dovrebbe, però, essere coerente e non solo non dovrebbe curare il disagio psichico ma neppure quello cosiddetto organico: dovrebbe non curare mai. Questa distinzione fra psiche e soma ha per me troppo il sapore di una vecchia metafisica che distingue l’uomo in anima e corpo. A costoro dico che si deve intervenire, che si deve curare, perché curare vuol dire. prendersi cura, lottare con, lottare per. L’altro atteggiamento, è quello di chi si assume la responsabilità di curare, ma rispettando il più possibile la dignità e l’autonomia di colui che viene curato. La terapia è sempre violenza, è inutile pensare di essere un terapeuta non violento. Ci sono però modi diversi di manipolare l’altro, psichicamente o fisicamente: lo si può aggredire con scariche elettriche, con dosi massicce di farmaci, o con interventi più o meno approssimativi, senza mai spiegargli nulla, senza mai discutere con lui. Oppure si può affrontare la cura, decidendo insieme. Indubbiamente il terapeuta avrà in mano strumenti che il paziente non conosce, ma che può imparare a conoscere e può imparare a gestire. Il paziente deve essere ascoltato, anche nelle sue supposizioni assurde e bizzarre. Guai se la cura viene calata dall’alto come una violenza incomprensibile. La lotta contro la sofferenza deve essere fatta in due. Questo è proprio l’atteggiamento della cosiddetta psicoanalisi: la terapia consiste nel far prendere coscienza, nell’aiutare l’altro a liberarsi dalla propria paura di capire il perché del disagio, permettendogli di imparare a gestirlo ed anche a sconfiggerlo. Questo, secondo me, è l’unico tipo di cura civile. Allora, coloro che rifiutano l’atteggiamento psicoanalitico, ma non ritengono giusto non intervenire cosa scelgono? Ognuno tragga le proprie conclusioni.

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L’ultimo atteggiamento difensivo nei con fronti della psicoanalisi, di cui voglio parlare, è quello che spesso vedo mettere in atto da un gruppo di persone, non molto numeroso, ma che ha un grosso significato nella nostra cultura: il gruppo degli artisti. Io non so bene cosa sia l’arte, quindi non so bene chi siano gli artisti, però esistono persone che si qualificano come tali; io, ad esempio, ritengo di essere un artista, lo sono ed ho le carte in regola: tanto è vero che sono iscritto alla Società Italiana Autori Editori, perché compongo musica e scrivo per il teatro. Più sopra, ho detto che sono uno scienziato, forse dovrei decidere cosa voglio essere. Ma perché, se scrivo un quartetto d’archi, lo debbo fare sentendomi un dilettante; oppure debbo sentirmi uno scienziato poco serio, se voglio considerarmi un vero artista? Io sono io e so fare quello che so fare: se lo faccio bene meglio per me. Molte persone che si dicono artisti, affermano che la psicoanalisi è pericolosa perché rende sterili; può risanare da una sofferenza psichica, ma manda perduta poi la ricchezza della creatività: Lucrezio, Tasso, Schumann, Van Gogh erano matti, chi sa cosa avrebbero scritto o prodotto, se fossero stati curati da uno psicoanalista che li avesse resi tranquilli e pacati signori con moglie e figli e un posto sicuro. Anch’io ho avuto paura che la psicoanalisi distruggesse la mia creatività; ma, poi, ad dentrandomi nei meandri del mio inconscio e dell’inconscio altrui mi accorsi di quanto ero stato ridicolo in questa mia paura Io non credo che l’arte coincida con la follia, io non penso che l’arte coincida con qualche cosa. L’arte è l’arte e basta, coincide con se stessa, è la voglia dell’uomo di comunicare fantasie, sogni, emozioni; di raccontare agli altri la propria storia anche per aiutarli. Aiutarli a che cosa? A capire. Allora l’arte coincide con la psicoanalisi?
L’arte non coincide con la psicoanalisi, e di ciò sono profondamente convinto. Io so che la psicoanalisi ha alcuni aspetti che la avvicinano all’arte, perché so che l’arte scaturisce dall’inconscio degli uomini: del singolo e della collettività. Indubbiamente ci sono teorie psicoanalitiche che impoveriscono l’uomo e tecniche terapeutiche che castrano
e che sono pericolose non solo per l’artista, ma per l’essere umano in generale. Se la psicoanalisi però, oltre che essere un approccio all’inconscio, serve a rendere l’uomo più sano, essa è profondamente utile all’artista e all’arte. Gli artisti non solo possono essere sani, ma debbono cercare di esserlo. È per un gesto sano che Lucrezio ha scritto il De rerum natura, Tasso ha scritto la Gerusalemme liberata, Schumann la sinfonia Renana, e Van Gogh ha fatto nascere i girasoli. La loro salute consisteva nella capacità di capirsi e di comunicare; il loro disagio e la loro sofferenza debbono essere rispettati, come si deve rispettare ogni sofferenza. Ma, se uno psicoanalista li avesse curati, avrebbero fatto quello che hanno fatto, prodotto quello che hanno prodotto? Con i se non si fa la storia, neppure la storia dell’arte.

Psicoanalisi contro n. 3 – LE TERZINE DELLA SALUTE

mercoledì, 1 dicembre 1993

Da sempre, si parla dell’influenza che l’arte esercita sulla psiche e, basandosi su quest’influenza, c’è chi ha pensato di usare una o più espressioni artistiche in psicoterapia.

La più nota e la più pubblicizzata, è quella che va sotto il nome di musicoterapia; ma anche il disegno, la danza, la rappresentazione di scene teatrali vengono usati come mezzi terapeutici. Servendosi dell’espressione artistica, un essere umano può liberarsi di molte inibizioni, sbloccare nodi intricati della personalità, sciogliere sintomi; in poche parole: ritrovare maggior armonia con il proprio corpo e l’ambiente.
C’è un uso più attivo che consiste nel chiedere al paziente di esprimersi cantando, danzando, suonando, recitando; e c’è un uso più passivo che propone al paziente l’ascolto di musica, l’osservazione di figure e colori, o che lo invita ad assistere a forme di spettacolo allestite da altri. In ogni caso, anche quando la proposta è di fruizione passiva, il tutto viene sempre montato con uno scopo preciso: quello di curare; di aggredire, cioè, i sintomi patologici, per aiutare l’individuo a liberarsene. Tutte queste tecniche, se pur estremamente civili e umane, non sono però, nel loro fondamento, molto lontane dal principio del condizionamento imposto dall’esterno. Infatti sono, in ultima analisi, parte di quel sistema di interventi coercitivi quali gli elettroshock, i bombardamenti psicofarmaco- logici, i condizionamenti comportamentisti- ci, etc.
Invece, a mio avviso, le sole tecniche corrette di intervento sono quelle basate sul rispetto della persona e sulla ricerca delle motivazioni del disagio. Questo solo può essere il fondamento di un corretto agire terapeutico che porti verso la salute; gli altri metodi, che non si fondano sulla presa di coscienza e sulla gestione comune della cura tra terapeuta e paziente, sono sempre esproprianti e, tutto sommato, castratori.
Il ricorso a queste tecniche che sopraffanno il paziente può rendersi però inevitabile. Io sono contrario alla demonizzazione dei farmaci (e degli psicofarmaci in particolare) che sono spesso guardati con onore dagli psicoterapeuti, come se in questi stesse la fonte di ogni male. È solo l’uso acritico dei farmaci che danneggia seriamente ogni possibilità di una buona terapia: quando sono imposti dal terapeuta ed esprimono quindi il rifiuto a prendere in considerazione la problematica esistenziale del paziente.

Se rimane però chiaro che il fine della cura è l’acquisizione della consapevolezza dell’insieme delle cause patogene, può essere lecito anche l’uso di qualche elemento chimico che possa aiutare il paziente – si badi bene: aiutare, non ottundere o reprimere -. Perché allora escludersi le possibilità messe a disposizione dalla ricerca scientifica. Io ho fatto ricorso alle tecniche dell’arte, particolarmente mi sono servito della musica, nel tentativo di intervenire con persone disturbate anche in modo grave: i cosiddetti matti.
Ho fatto loro ascoltare musica, ho cercato di insegnare ad eseguirla e a comporla; li ho invitati ad abbandonarsi alle melodie e ai ritmi, a esprimersi attraverso di essi. Ho visto atteggiamenti rattrappiti sciogliersi, sguardi illuminarsi, persone isolate da sempre, articolare suoni e movimenti, in sintonia con quelli di altri; ma tutto ciò mi è sempre parso aleatorio e impreciso, ambiguo, senza la capacità di raggiungere la fonte della consapevolezza. Pur non escludendo la possibilità di un effetto terapeutico delle forme artistiche, io mi sono allontanato da questo tipo di prospettiva ed ho preferito affrontare l’arte direttarnente. L’arte è terapeutica di per sé e non quando è prescritta e somministrata in dosaggi di tipo farmacologico, in situazioni e luoghi che sono della cura e non dell’arte. Lo studio specialistico e la casa di cura vanificano gran parte delle possibilità terapeutiche dell’arte. L’arte è terapeutica di per sé, quando agisce nel suo mondo, e il terapeuta non può fare altro che educare all’amore per l’arte, se vuole servirsene come strumento della comprensione del mondo e dell’inconscio. Per questo, è fondamentale la preparazione, anche artistica, del futuro psicoterapeuta: chi non ama l’arte, chi non la conosce a fondo, non è in grado di fare il mestiere di «curatore di anime»; sarebbe solo un ciarlatano, se ci si provasse. Chiaramente, non si può pretendere dal terapeuta la professionalità nella pratica dell’arte, ma almeno un coinvolgimento e una conoscenza più profonde di quelle che abitualmente vengono richiesti all’uomo di media cultura, frequentatore e fruitore di qualche buon film, spettacolo, mostra o concerto. Lo psicoterapeuta ha il dovere di impegnarsi ad affrontare il mondo dell’ arte, perché l’arte è presente sempre, nel panora ma complessivo in cui si muovono le persone che ricorrono alla cura; sia nell’aspetto paludato e ufficiale, sia nella veste di creatività popolare o istintiva – e non intendo solo il folclore – È anzi dovere dello psicoanalista saper distinguere e scegliere in quel marasma di spazzature pseudo-artistiche che inquinano la civiltà odierna. L’ecologia deve infatti andare oltre la pura e semplice lotta alle buste di plastica e alle lattine che inquinano mari e boschi, alle piogge acide e ai residui del petrolio; ma deve prendere consapevolezza anche dei disastri acustici, cromatici, estetici, armonici e ritmici che, sotto forma di cascami delle varie arti, insidiano l’integrità e l’equilibrio dell’uomo; si pensi, tanto per fare un esempio, al bombardamento sonoro cui siamo continuamente sottoposti da riproduttori e diffusori di rumori pseudo-musicali: l’ecologia del suono è una battaglia da combattere non solo in vicinanza di aeroporti o alle catene di montaggio.
È quindi fondamentale che l’analista abbia un proprio concetto di ciò che è artisticamente sano; deve saper scegliere quale musica e quale poesia, se l’arte colta o folclorica, aulica o dimessa. Deve avere scelto il suo rapporto con l’arte e deve sapere quale scelta propone ai suoi pazienti. Ciò non significa che il terapeuta debba spingere il depresso a suonare il piffero e l’ossessivo a scrivere terzine di endecasillabi e che guarisca solo chi è diventato Dante Alighieri.

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Queste mie righe non riflettono forse una grande lucidità di idee; il rapporto tra arte e psicoanalisi mi ha sempre coinvolto; ma dopo averci tanto pensato mi càpita spesso di scrollare la testa dicendo: «io sono un artista e mi basta!» o anche: «ma io sono uno psicoanalista! L’uno e l’altro possono coesistere senza intralciarsi». Ma poi sento che queste conclusioni non mi bastano; infatti sono convinto che l’arte sia salute; l’arte guida verso la salute, è strumento di salvezza Sono consapevole che, affermando questo, mi comprometto come psicoanalista, se parlo di arte, e come artista, se parlo di psicoanalisi. Ho scelto di diffondere le mie teorie psicoanalitiche al di là della cerchia dei miei pazienti, perché penso che siano utili alla maggior comprensione degli esseri umani tra di loro, alla lotta contro il male che tutti ci insidia.
Così anche ho scelto di parlare dell’arte, perché la considero una presenza che deve essere costante nella vita di tutti e non un patrimonio di pochi e non mi dispiace l’immagine di una folla di popolo che, come nell’Atene di Pericle, si reca in una bella giornata di sole, ad assistere alle rappresentazioni che si susseguono, dal mattino alla sera, nel pubblico teatro della città. Che importa se qualcuno si annoia, o se, in un angolo buio, un altro bacia la bocca amata!

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Da sempre anche si è parlato delle prerogative educatrici dell’arte. Nelle scuole si insegna la letteratura e non solo a leggere e a scrivere; si insegna persino un po’ di storia dell’arte figurativa e si dà qualche nozione musicale. Sebbene io creda che l’arte, già di per sé, sia educativa, ritengo ugualmente che si debba educare all’arte. L’arte non può essere solo un mezzo, deve essere un fine. L’arte è la salute trovata, la maturità conquistata, patrimonio dell’uomo sano e civile. Non mi piace l’idea di usare l’arte o la scienza come mezzo, preferisco siano fini Per fortuna, io credo poco alla logica dei mezzi e dei fini: per me esistono soprattutto i desideri, che devono essere realizzati. I desideri sono fini? Certo: sono gli unici fini in vista dei quali l’essere umano agisce.
In che cosa consiste, allora, l’educazione? Nel riuscire a trasmettere l’amore per l’arte e non soltanto: anche l’amore per la scienza. Nessuno di noi è sano, nessuno di noi è maturo, ognuno di noi deve tendere alla guarigione ed alla buona educazione; l’arte ha questa duplice funzione di essere terapeutica ed educativa; ma, per fortuna, è anche molto di più; i terapeuti e gli educatori debbono saperlo e debbono indirizzare i lori desideri e quelli dei loro pazienti e discenti a confondersi con le meravigliose costruzioni dell’arte: l’arte del passato e del presente. Di quale arte? Quella per uomini sani; ma gli uomini sani non esistono; esiste invece l’arte.

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Voglio ritornare un po’ sui discorsi precedenti, perché temo di essere stato eccessivamente oscuro e contraddittorio. Forse è sufficientemente esplicito ciò che ho detto intorno all’arte come strumento terapeutico: sono scettico nei confronti di una somministrazione per dosi dell’arte a persone più o meno passive. lo so che l’arte è terapeutica, ma bisogna trovarla nei luoghi ad essa consacrati o saperla scoprire ogni giorno leggendo un libro o suonando uno strumento. Ciò che più mi rimane oscuro è come sia possibile che l’arte, che per un verso è strumento della cura, per l’altro possa costituire il premio e il privilegio di chi ha già raggiunto la salute. Per godere fino in fondo dell’arte bisogna essere sani; ma senza la conoscenza dell’arte non si potrà mai essere sani. Chi non ama l’arte è malato, gravemente malato. L’amore per l’arte è una tensione che porta a scoprire, a guardare, ad osservare, ad ascoltare e quindi a guarire. Ma, se siamo giunti all’arte significa che eravamo già sani. L’arte è salute e mezzo per la salute.

Forse, ora queste mie considerazioni sono un po’ più esplicite, ma ancora resta l’ambiguità del mio discorso sull’educazione. Io impongo, nella scuola che ho fondato per la preparazione di psicoanalisti, un approfondito studio di tutte le forme artistiche – spero che non sia solo un’imposizione perché vorrei che coloro che hanno scelto di studiare con me lo avessero fatto anche per amore, se pur riconosco che lo studio intorno all’arte che io pretendo è senz’altro faticoso e tutt’altro che superficiale -. L’arte quindi educa, tanto che serve anche per diventare psicoanalisti. Nessuna scuola, di nessun tipo però avrebbe senso se non vi si insegnasse l’arte. Ciò che mi fa orrore della nostra scuola, da quella materna all’università, è che l’arte gravi come un peso, un dovere, mentre dovrebbe essere invece quasi un premio. E’ una gioia leggere «l’ira di Achille» o le «variazioni Goldberg» di Bach. È una scuola esangue, che illividisce l’arte, la rende flaccida, noiosa, imponendola senza amore. L’educazione dovrebbe essere soprattutto educazione all’amore, quindi anche all’amore per l’arte. Nonostante tutto, le opere del passato brillano davanti agli studenti nel loro splendore e qualcuno ne rimane affascinato, superando l’ostacolo costituito dalla rancida bava che su di esse spande la cadaverica concezione che ne dà il sistema di nozioni scolastico.
Continua la contraddizione tra arte che è obiettivo da raggiungere e mezzo per raggiungere quell’obiettivo; voglio che rimanga questo carattere duplice: educativo e terapeutico. Si guarisce e si educa solo nell’amore per l’arte e tramite di questo amore può essere solo l’amore di un maestro.

Psicoanalisi contro n. 3 – L’ARABA FENICE

mercoledì, 1 dicembre 1993

L’essere umano fa e pensa, pensa e fa. Quanto sia consapevole di quello che fa non è molto chiaro. La consapevolezza
è sempre intrisa di inconsapevolezza. Accorgersi di qualcosa è sempre anche un non accorgersi di qualcos’altro. Il chiedersi che cosa stia facendo può essere per l’uomo una domanda oziosa, anche se, talvolta, piena di stupore. S i è cercato di distinguere il fare dal pensare come se questo fosse possibile. Perciò un filosofo barocco ha detto «penso; dunque esisto». Frase riccioluta come un capitello corinzio, profondissima ed inutile come tutti i pensieri profondi. L’acqua nel pozzo profondo è fresca, più il pozzo è profondo e più l’acqua è fresca, invece i pensieri più sono profondi e più sono frivoli. E io penso che ciò che ho detto sia molto profondo.

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L’uomo fa, l’uomo pensa sul suo pensiero, però l’uomo soprattutto inventa e costruisce se stesso, facendo, pensando e ripensando. Il mondo si specchia e si concretizza nell’interno della persona umana, la quale non è nel mondo. È il mondo. Il mondo è dentro e oltre, noi siamo vivi nel mondo e il mondo vive
in noi. Separare l’uomo dal mondo è impossibile, almeno per l’uomo. La psicoanalisi, allora, di che cosa parla, del-
la psiche umana? Ma la psiche non ha senso al di fuori della persona nella sua interezza e l’essere umano non ha senso isolato dal mondo. Allora la psicoanalisi parla del mondo? Ma se parla del mondo non è psicoanalisi: è cosmologia. Ma la cosmologia che cos’è al di fuori dell’uomo che pensa il cosmo? E l’uomo che cos’è al di fuori di un uomo che pensa all’uomo? La psicoanalisi se esiste deve parlare di tutto. Pur non essendo il tutto e neppure una scienza universale. La psicoanalisi parla dell’uomo e dell’uomo che pensa al mondo. Coglie l’uomo attraverso il mondo e il mondo attraverso l’uomo. È però l’unica scienza che gioca con il mistero disinvoltamente. Le altre scienze affondano nell’ignoto, la psicoanalisi nell’inconscio. L’inconscio non è soltanto ciò che nell’uomo non è consapevole, l’inconscio è una rappresentazione, rappresenta il mistero ed il mistero del mistero. La scienza ha paura della psicoanalisi perché al momento le propone un modello non imitabile. Sebbene basterebbe poco per imitarlo. Basterebbe non voler essere onnipotenti, ma per non voler essere onnipotenti bisogna essere uomini. E Diogene cerca ancora.

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La psicoanalisi è, da sempre, affascinata dall’arte. Gli studiosi della psiche anche prima della psicoanalisi hanno cercato di spiegare questa bizzarra espressione umana. Inoltre, da quando è possibile reperire tracce scritte del pensiero degli antichi ci si avvede che il problema del significato dell’arte e di che cosa essa sia occupa da sempre una parte importante delle riflessioni umane. I filosofi, gli storici, i sapienti in genere, hanno cercato di collocare l’arte entro un sistema di riferimenti. Non tutti, però, hanno cercato di definirla, molti si sono limitati a collocarla ed a cercare d’individuarne l’origine. Anzitutto i pensatori si sono chiesti se l’arte coincida o no con il bello. Coloro che hanno dato una risposta affermativa si sono quindi avventurati a defmire la bellezza. Coloro i quali hanno distinto i due concetti o hanno cercato di spiegare la genesi dell’arte o il suo dover essere oppure ancora le sue caratteristiche intrinseche. E hanno detto molte cose: che l’arte sorge da una realtà socioeconomica, che l’arte è, e basta, ma deve migliorare gli uomini, che l’arte è rappresentazione del vero, manifestazione del trascendente, descrizione verosimile della realtà e poi ancora altro.
Dire come una cosa nasca presuppone che si conoscano le caratteristiche di quella cosa. Bisogna accettarne quindi una definizione, ma allora ci si riferisce acriticamente ad una delle definizioni che altri hanno dato. Coloro però che hanno cercato di definire l’arte in se stessa, si sono scontrati con due ordini di problemi. Il primo che nessun concetto di cui l’uomo si serve è del tutto isolabile: una definizione ne richiama un’altra, un’altra ancora, e quest’altra rimanda alla prima. La giostra quando gira, va avanti o sta ferma? Questo problema, però non riguarda soltanto la definizione dell’arte, riguarda tutto ciò che è dell’uomo: anche la giostra. 11 secondo ordine di problemi invece affonda direttamente nel concetto di arte. L’arte descrive il mondo, un mondo verosimile; ma allora è filosofia. Oppure è scienza. L’arte è espressione, ma espressione di che? Del mondo e delle sue emozioni. Ma esprimere il mondo e le sue emozioni vuol dire anche descrivere. Per descrivere bisogna definire, quindi, l’arte è ricompresa nel concetto di
filosofia o di scienza. Potrebbe essere espressione allo stato puro; ma l’espressione allo stato puro non vuol dire niente. Le emozioni sono frutto di una esperienza e di una situazione che è compresa in un sistema di significati che si esprimono attraverso le emozioni. Anche qui si ripresenta la giostra. Per di più, giunti a questo punto, il secondo ordine di problemi, stranamente, diviene sempre più simile al primo. L’arte, quindi, non si sa bene cosa sia, è come la fede degli amanti e l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.
L’arte esiste e basta. Alcuni prodotti dell’ingegno umano vengono chiamati arte, altri no. Senza dubbio a muovere il tutto c’è, anche, una ragione economica, ma il denaro non defmisce: compera e dà un valore.
Un biondo esanime artista potrebbe turbarsi nel sentire che l’arte acquista valore attraverso il suo prezzo in denaro; eppure è anche così. Questo «anche» indica che non è soltanto così. Il prezzo non sorge dal nulla. È l’espressione di qualcosa che è prima del prezzo e del denaro. O meglio fonda l’esigenza del prezzo e del denaro Proprio per questo il valore dell’arte è indefinibile: se tutto ha un prezzo ed il prezzo indica il valore di ogni cosa, ogni cosa però ha valore anche indipendentemente dal prezzo, o meglio, nonostante il prezzo. Il desiderio è a fondamento di tutto, anche del prezzo. Ma il desiderio di chi: di tutti o di qualcuno? Di tutti e di qualcuno allo stesso tempo. I potenti condizionano le masse, le masse condizionano i potenti. I bisogni di tutti, potenti e non, si intrecciano come i serpenti intorno a Laocoonte e ai suoi figli, che non si capisce mai se godono o soffrono in quell’amplesso eroticamente incestuoso.

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L’arte a che cosa serve? Alcuni hanno dettoche non deve servire a niente perché altrimenti non sarebbe arte. L’arte dovrebbe essere un gesto bello ed essenziale. Bellezza ed essenzialità che non si richiamano ad altro: ma allora la bellezza si smarrisce e l’essenza diviene inessenziale. Altri dicono che deve essere didattica, pedagogica e psicagogica, ma lo è in quanto arte o in quanto qualcos’altro? Educa e guida gli uomini in quanto non è arte, in quanto è filosofia o politica. Tant’è vero che brutte opere hanno influenzato le masse, indirizzandole forse verso il bene. L’arte sarebbe arte per qualcos’altro.
Si potrebbe ancora dire che l’arte è arte in quanto diverte e educa allo stesso tempo. Non bisogna scindere i due aspetti, proprio se si lasciano uniti l’arte vive: altrimenti si dissolve; ma anche una ricetta di cucina eseguita alla perfezione e un buon bicchiere di vino, non distrutto da un invecchiamento dissennato, divertono ed educano. Divertono perché hanno il potere di far passare istanti meravigliosi, educano perché contribuiscono ad affinare il gusto e il buon gusto.
Allora, la vera arte deve far soffrire? Attraverso la drammaticità e la sofferenza, le passioni si purificano e l’uomo scopre la propria grandezza. Se così fosse, l’Edipo re ed Il Lamento di Arianna sarebbero troppo simili a un piatto di spaghetti scotto e insipido o ad un bicchiere di vino che sa di tappo. Perché, sia il dolore di Edipo, sia gli spaghetti mal cucinati, fanno entrambi soffrire, eccome!

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Forse si potrebbe affrontare il problema aggredendolo da un altro punto di vista: cercando di dire che cosa l’arte non è. Ma questo ingenuo sotterfugio, vecchio di secoli, non regge. Tutto ciò che non è arte, nel momento stesso in cui viene definito, se ne appropria in parte e, piano piano, occupa tutto lo spazio che le era stato riservato. L’arte si dissolve in tutto ciò che arte non viene chiamato. Non le rimane neppure la peculiarità del dominio sulla bellezza: la bellezza è propria di Apollo; l’arte, anche quella antica, sfugge continuamente al controllo del bellissimo dio. L’arte allora coincide con la parola arte. A questo punto, Lacan e Jung si troverebbero d’accordo: il primo perché vedrebbe nella parola arte il fondamento, il secondo perché vedrebbe nella stessa parola l’espressione di un concetto trascendente ed immutabile. Giunti però alla parola la storia distrugge questo effimero punto fermo. Le parole non camminano immutate ed immutabili; nei secoli acquistano significati diversi, talvolta così diversi che divengono persino inconciliabili. Lungo la storia, il significato della parola cambia persino più in fretta del modo di pronunciarla. Ancora l’apparato vocale mette gli stessi suoni di un tempo, ma già il significato è un altro. La storia stessa si smarrisce entro la propria parola: la storia della parola «storia» trascende la storia, dietro c’è qualcosa, ma non è la parola storia.
Le parole sono più caduche delle rose, che, continuano a sbocciare oltre la parola «rosa», presenza costante all’inizio delle grammatiche latine, al capitolo prima declinazione. La storia della rosa è incominciata con la rosa, con il suo profumo, i suoi colori, le sue spine in una primavera di molti anni fa. Le parole sono piccoli punti inessenziali per definire un’essenza che in qualche modo deve esistere; altrimenti non esisterebbero neppure i sogni. Non esisterebbe proprio nulla; un nulla senza nome, immobile in una immobilità impronunciabile. Anche il nulla è; altrimenti non sarebbe nulla: un altro antichissimo gioco di parole, gioco che è meglio interrompere qui.

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Non si può dire né che cosa l’arte sia, né che cosa non sia. L’arte non coincide neppure con la parola arte. L’arte, e so di dire una banalità, è ciò che l’essere umano vuole che l’arte sia. Io penso però che oltre non si possa, e forse non si debba andare. Se l’arte è ciò che l’uomo vuole che essa sia, l’arte è figlia della lotta. Il volere si radica sui desideri e non su di un unico desiderio. I desideri possono essere in contrasto fra loro e perciò guidano la lotta tra il volere e il non volere. Ritorna l’immagine di Apollo: bello, le membra splendenti ed armoniche; ma questa sua armonia nasconde la guerra e la disarmonia. Soffermiamoci un istante sulla storia della musica, che racconta la storia della lotta tra le armonie. Gli antichi e i moderni teorici costruiscono e analizzano armonie diverse, profondamente disarmoniche tra loro. Che cosa è una quinta giusta? Consonanza e dissonanza si rincorrono e si sovrappongono. La disarmonia delle varie armonie si fonda su un unico concetto di armonia. In realtà esiste la lotta per raggiungere l’irraggiungibile: presente e nascosto.

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La storia si smarrisce anche dietro il proprio nome. Ma ogni essere umano è una storia, ed è una storia proprio perché la racconta: la racconta perché la rappresenta. L’essere umano racconta a se stesso e agli altri la propria storia. L’uomo non c’è se non come punto in cui si intreccia con l’essere di altri esseri. L’arte non è isolabile dalle altre attività umane, ma neanche l’uomo è isola- bile dagli altri uomini e il mondo dagli uomini L’uomo racconta quindi una storia che è sempre anche la storia di altri e di altro. La racconta con i gesti, le parole, i colori, i suoni… ogni storia racconta una storia interna a quei gesti, parole, colori, suoni, ma anche esterna. Anche la musica che, apparentemente, è l’arte astratta per eccellenza non riesce ad esserlo completamente, proprio perché nulla di ciò che inerisce all’uomo può essere del tutto astratto. Non sto qui parlando del divertimento rococò di imitare il vento con gli archi e gli usignoli con i flauti: la musica non racconta in quel senso; la musica concatena, strutturandole, serie di suoni che si sovrappongono, la cui logica interna diventa una storia, che non è mai la storia di quei suoni e neppure semplice ricordo di emozioni passate: è il racconto di tante cose. L’arte astratta è un’invenzione del nostro secolo, nulla però può essere astratto per l’essere umano; ce lo dimostrano i sogni che sono sempre storie, se pure misteriose, figurativamente realistiche anche nella loro bizzarria. Nei sogni, per fortuna, le elucubrazioni dei teorici dell’arte hanno poca efficacia. Tutto ciò che viene a contatto con l’esperienza umana è frutto di questa esperienza e cerca un significato. Nessuno può guardare una serie di macchie senza che, almeno inconsciamente, quelle macchie siano, contemporaneamente, il racconto di una cascata cromatica che diviene una cascata d’acqua, che diviene il volto di un amore perduto.

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L’arte astratta è impossibile perché tutta l’arte è astratta; cioè, racconta anche sempre di altro. Guai però a quell’artista che si rifiuta di cercare un linguaggio comune e preesistente. L’esibizione di chi usa colori, suoni, corpo e parole è cadaverica e mortale se è pura e semplice esibizione.
Non è solo mimesi della morte: è morte; cioè defmitiva impossibilità di comunicare. Però è anche colpa perché nasconde la voglia di non comunicare. In questa voglia, se pure malata, si annida, per fortuna, la vita. Un brandello di storia viene sempre, nonostante tutto, raccontato, anche nelle composizioni artistiche più astratte, atonali, informali, spontanee, casuali.
Io desidero che gli altri mi raccontino loro stessi per entrare nella loro storia, che è, in genere, una storia sempre diversa che lascia però sempre intravedere, chissà dove, dietro la nebbia, la figura di Eros.
Io non so che cosa sia l’arte, ma so ciò che chiedo all’arte: chiedo che mi racconti e che, raccontando, mi educhi. Anche la psicoanalisi è fatta di racconti; dapprima rigidi e razionali, poi man mano più profondi, contraddittori ed inquietanti.
Questi racconti diventano anche mimesi, cioè recitazione di un passato più o meno lontano.
Io in questi racconti ritrovo me stesso e guarisco. Da che? Dalla costrizione a vivere soltanto racconti infelici. Questa è la vera educazione. Non si educa imponendo dall’alto, con prediche, ma chiarendo ed insegnando a recitare insieme.
Ma, allora: arte e psicoanalisi coincidono? Io credo di no; anche se mi è rimasta una leggera confusione.